Verbi e di-verbi

Qui parole pensate-scritte per sì, per no, per altro di quanto si dice umano

lunedì 30 luglio 2018

SUGGESTIONI MARINE di Bianca Mannu

 


Una lastra orizzontale dall’apparenza solida a fronte della cedevole resistenza  del suolo arenoso:  la civiltà rimane, anzi prosegue alle tue spalle la giaculatoria del suo insistere.
Il semaforo e quanto corre nel suo dominio è l’estuario dell’ultimo mezzo millennio. Te ne allontani con la fretta d’una scimmia perduta al branco, che la nuova goffaggine consegna a un andare da spiaggiaiolo impenitente, ma gravato dei trabiccoli del bagnante equipaggiato alla moderna guisa fai da te.
Ti difendi così dal “caro ombrellone”, risparmi sul caffè con la tisana in thermos e mantieni tranquillo il vecchio cuore.  
Equipaggiata di cintura galleggiante, antipanico per addomesticare il tratto marino delle tue frequentazioni, procedi alle “sedute” di terapia  salsoiodica con massaggio naturale … e non paghi il ticket, se escludi i costi per arrivare fin qui. 
Piantare l’ombrellone non è fatica da poco per una ottantenne, ma il bagno ristoratore cancella la fatica. Ẻ la promessa.    
Oggi poi hai fortunatamente trovato un parcheggio solatio per la tua la vecchia utilitaria, lì, 
proprio davanti al semaforo e a debita distanza  dallo scoscendimento franoso che costeggia lo stagno.
Adesso che hai occupato la tua postazione marina, puoi procedere alla lubrificazione antiraggi uv … Dai l’impressione di un vecchio uccello che si spollina, ma da un pezzo hai fatto pace con gli sguardi altrui. 
Dopo tutto, le prime ore sono dei vecchi: chi si appisola sotto l’ombrello, chi cammina o corre sbilenco sul bagnasciuga, chi tenta il bagno affrontando per gradi lo shock termico. Le donne mettiamo a bagnomaria le vene.
Ma oggi, stranamente il mare non c’è. Al suo posto una distesa biancastra in apnea. Un cielo (sarà cielo?) scialbo che non si sa dove cominci, perché l’immancabile profilo della Sella galleggia su vapori grigi. Nessuno in acqua.  Come in un sortilegio ogni moto è sospeso, persino i respiri, pensi. E aspetti.
Da oriente, dove il sole è appena una chiazza più chiara dietro tendaggi lattescenti,  si stacca un fiocco che volteggia … L’acqua, come per uno schiaffo a sorpresa dal sole denudato, ha un sussulto e un guizzo inspiratorio, si solleva cambia colore ed espira il fiato sulla riva. Il mare ha preso a respirare.     
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Bianca Mannu
Dialoghi mentali con persone fisicamente vicine o lontane per mezzo di espressioni poetiche, di racconti, articoli concernenti diverse problematiche del mondo contemporaneo liberamente accolte, filtrate, elaborate, criticate.

domenica 22 luglio 2018

DA NONNA ANNETTA - brani estratti da In-croci XXII cap.

Nota - Questo titolo fa riferimento a due esperienze della protagonista Paloma in età infantile. Il cimitero, cui il titolo allude con la parola croci,  è occasione e luogo di una scoperta a un tempo tenera e dolorosa, ed è contemporaneamente stimolo per rivivere un'esperienza della morte più diretta e già vissuta da Paloma ai tempi dell'asilo, così che i due eventi s'intrecciano nella contemporaneità psicologica della decodificazione di un nome stampato su una piccola croce bianca.  (B. M.)    


XXII
In-croci 
C’è chi, venendo alla luce, viene accolto come i cani in chiesa, perché non gli si perdona la mancanza di denti; e chi, invece, pur mancando di molte cose ritenute umane, sembra incontrare tutti i favori.
I genitori, cioè coloro che entrano a far parte della categoria, si rivelano del tutto imprevedibili e stravaganti, difficili da interpretare e soddisfare.
L’essere cianotico, implume e straniero, chiamato al mondo senza essere “pre-interpellato”, si trova di punto in bianco, sguarnito di quasi tutto, a sopportare il peso di innumerevoli, antichi e nuovi, desideri, aspettative, scontenti, a cui non sarà in grado di corrispondere né ora né mai. E se, per puro accidente, vi corrisponderà, ne pagherà il prezzo.
Dichiaro di essere primogenita - benché non sia esattamente così e fra breve dirò il perché, se già non l’ho detto - quantunque il passare per tale, non abbia significato altro se non che mi siano toccate le perlustrazioni più incerte, più ardue e laboriose, dato che nessuno si presentò mai come fratello o sorella maggiore, né fu gravato/gravata di compiti o responsabilità a mio riguardo o per mio conto.
Sono nata da genitori, per allora considerati anziani: madre trentaquattrenne, padre quarantaseienne.
Mio padre, come accennato, era già stato padre di un bimbo, la cui vivacità, intelligenza e piacevolezza avevano gratificato l’orgoglio e sollecitato l’affetto del genitore. Morì quando era ancora molto piccolo, forse a causa di un’infezione intestinale, come allora accadeva a molti bimbi nel periodo della dentizione.
La madre e compagna di mio padre se ne tornò nella sua città, dove in breve diede alla luce una bimba alla quale fu dato un padre adottivo.
Ma tutto questo mi fu del tutto ignoto fino all’età di quindici anni.
Del passaggio di quel bimbo su questa terra, passato per me sola e temporaneamente sotto la specie “cugino”, appresi in una soleggiata e freddissima giornata di novembre, giorno dei morti, durante la rituale visita alle tombe dei nonni Mirau. Avevo circa sette anni e con entusiasmo tentavo di compitare ogni scritta. Non cessavo di fare commenti e di porre quesiti davanti ai cippi ornati di lugubri statue. Essendo morti in condizioni di povertà, sui tumuli dei miei nonni non v’erano che due croci di legno grezzo, prive di foto, e un cespo di gerani rossi, simili a quelli che ornavano la stazione dei treni.
Durante quella visita, fui attratta, però, da un campo disseminato di piccole croci bianche con le loro targhette abbrunate dal tempo. Qualcuno - non so più chi, né in quale altro tempo, né in quale occasione, ma certamente in un momento diverso da questo - mi disse anche che quel sito cimiteriale era il Limbo terrestre, ossia il luogo dove venivano inumati i bambini che non avevano ricevuto il battesimo e che dunque non potevano essere propriamente considerati cristiani, cioè degni di essere sepolti fra cristiani nel terreno consacrato, e che perciò non potevano essere accolti nel Paradiso.
Non mi sorprenderei affatto se quel mio “cuginetto” fosse morto senza battesimo e perciò considerato perso dal punto di vista cattolico, e perciò sepolto nel ghetto dei pagani. Mio padre era notoriamente ateo e accompagnato con donna more uxorio, senza sacramento. Ciò che in quel tempo - dopo la riconciliazione col Vaticano ratificata da Mussolini - era evento raro nei nostri villaggi, e considerato quasi scandaloso ed eversivo, specialmente se vissuto in modo palese e consapevole. Sottolineo la circostanza perché io stessa ho “rischiato” di far parte della marginale schiera dei “sospesi”. Se non lo sono stata è perché mio padre ha reso omaggio a mia madre, la quale volle che io fossi cristiana. Perciò senza pompa alcuna ne affidò la cura a sua madre, la quale, oltre che avola, mi fu madrina di battesimo.
***
“Perché bianche?” Chiesi stupita ai miei, poiché di croci bianche e tante insieme non ne avevo mai viste.
“Perché ogni croce bianca segna la tomba di un bambino” rispose mio padre.

È possibile – mi chiedo ora - ricordare eventi e rammentare gli stati d’animo che li accompagnarono e conservare memoria delle immagini del già vissuto che richiamarono alla mente? Mi rispondo: sì, è possibile. È possibile perché certe esperienze s’imprimono con una loro forza calma. Si producono non solo come stigma, ma come alfabeto, nette, decise e decisive. Sono i luoghi dell’intensità ricettiva - non importa tanto il loro colore affettivo. Là vanno a connettersi e ad acquisire densità figurale esperienze più ermetiche o sfumate.
Non so se la voce di mio padre abbia avuto, nel rispondermi, un sussulto retroattivo, però io credo che così sia stato; così come credo di aver colto scatti pupillari nello sguardo - peraltro già istruito - di mia madre. Tutti e due rimasero per qualche secondo sospesi - lo intuivo - a una mia reazione: gesto, voce, espressione. Sono certa di avere avuto un moto forte di cordoglio per quelle piccole tombe, quasi compiangessi la sorte di tanti me stessa abbandonati alla freddezza di quel suolo grigio, battuto dalla tramontana, e nel contempo mi rallegrassi di non essere fra loro. E ho memoria di ciò che mi tornò in mente davanti a quelle croci…
Nella luce di quel sole freddo, nel sibilo della tramontana, davanti alle croci, a una croce che inaspettatamente accenna a un che di noto e familiare, ancorché vacillante, io vivo, non un’emozione, piuttosto maneggio e sono già l’esito di una storia. Una storia senza storia, che m’introduce alla cifra lampeggiante della germinale esperienza dell’amore e dalla morte.
Io? Io, come piccola Paloma Mirau alle prese col proprio destino biologico e con i criptogrammi del suo inizio? Io, quel piccolo automa prevedibile e senza corazza, quello che la sua stessa trasparenza cela e confonde?
Sì, quello. E proprio quell’io armeggiava senza cautele e a cielo aperto intorno ai mattoni della propria crescente opacità.
Ma io anche questo, il manufatto attuale, il groviglio mobile che agita, mobilita, scompone e tiene insieme ciò che è corpo e ciò che non lo è o non lo è più: l’io e gli io di questa vecchia Paloma Mirau, innamorata delle matriosche. Lei si vuole una matriosca vivente - o almeno ci prova - intenta a custodire, smontare, assemblare, animare, estroflettere le sue piccole replicanti e inquiline.
Nessuno, tranne me, sa che cosa abbia attraversato la mente della piccola Paloma alla risposta di suo padre. Sì, egli poté leggerle sul viso un segno di compianto. Anche sua madre. Ma loro avevano i sensi disposti ad altro evento. Invece Paloma aveva già dietro agli occhi una ben più incisiva immagine della morte e, insieme con quella, il nido di una sua – e solo sua - palpitante avventura di vita.
E nel breve lasso di tempo intercorso tra l’informazione venuta da suo (cioè mio) padre e il puntamento dell’attenzione sulla targhetta della croce, su cui sua (cioè mia) madre aveva posato due pallide acetoselle fuori stagione, che punteggiavano, rade e pallidissime, il campo, lei, la Paloma di allora, visitò in silenzio quel suo intenso sito mentale. 

***
Dapprincipio non vide che gli spettri saltellanti del sole dietro le palpebre, intanto che teneva le mani giunte e le labbra serrate, come aveva ordinato suor Pierina. Al contempo si sentì avvolgere e attraversare il corpo da un violento profumo di fiori, dentro il quale avvertiva un equivoco sentore dolciastro che non dimenticò mai più.
Il cuore le battè forte dentro al petto quando i barbagli si acquietarono.
Era adagiato su una specie di console, fermo fermo, il capo giallino circondato dalla lanugine chiara dei capelli. Le manine, più gialle, abbandonate lungo i fianchi “ospitano” smorti fiori gialli. Il corpo quasi annullato dentro la vestina trinata del battesimo. Questa pende, graziosamente, dalla console e manda leggeri bagliori di nuvola.
“Morto, morto, morto, morto …” sembrava a Paloma di avere un tamburino risonante nel petto. A un cenno della suora si era levato un parlottio corale che le trasse da dentro la voce e la mandò lontana e straniera a formare l’eterno riposo come una nube minacciosa e sospesa nel cielo della stanza, mentre i suoi occhi s’appuntavano sulle ciglia del morticino, pronti a cogliervi un minimo battito.
In quella, da un angolo trascurato si levò un sospiro forte e cupo, quasi un lamento. S’era alzata dalla sedia una donna mai vista. Peppinetto, senza il grembiulino di percalle, ma con l’abitino festivo “a ometto” quasi la bloccò stringendo con le braccia le sue gambe. Lei se ne liberò con una dolcezza impregnata di dolore. Lo rimandò sul proprio seggiolino e avanzò verso la console avendo tra le mani una scatola guarnita di narcisi selvatici. Era la madre, pensò Paloma; e le parve altissima e dolce.
“Santino deve andare … Se volete, salutatelo adesso,” disse e guardò verso il gruppetto di bambini appena giunto.
Fu così che suor Pierina indusse la sua pattuglietta di bimbi in grembiule di percalle, quadrettato di azzurro o di rosso sul bianco, a sfiorare le ceree manine del morto. E così quel gelido contatto, annodato col sentore recessivo, ma singolare di quell’aria, fu per Paloma anche l’incontro perentorio e repellente con la sua propria precarietà, la cui immagine rimase, e rimane, acquattata eppure vigile dentro di lei.
Quella fu anche l’ultima volta in cui vide il piccolo compagno d’asilo, Peppinetto, in carne e ossa e senza lacrime, tale che quella sua forma infantile s’agglutinò e fissò con incancellabile persistenza e assolutezza nella sua memoria. Se, dopo di allora, si incrociarono per strada o a scuola, non si riconobbero. Lei continuò a “vederlo” accomunato all’immagine del fratellino morto, nel dinamismo ellittico della mente, ogni volta che gli automatismi dei suoi sensi venivano casualmente stimolati. Tale e quale come lo vedeva ora, al di qua della targa bruna su quella croce bianca, che si stava accingendo a decifrare.
Vedeva quel faccino d’agnello smarrito sentendone la piccola voce rompersi nel tremolo del pianto. Lo vedeva aggirarsi nel verminaio dei bimbi vocianti dentro il grande salone dell’asilo, il cestino azzurro appeso alla manina imbelle.
Lo scorse dall’alto della sua statura e precoce solitudine. Se ne imbibì come una spugna. Lo prese per mano consolandone il pianto. Di colpo si specchiò cresciuta sui vetri delle porte, e altro non lesse. Ogni giorno, per un lungo attimo circolare, camminò lungo le siepi del giardino stringendo nella sua quella manina, come un talismano. E quando fu l’ora –anch’essa ciclica - gli cavò la mela dal cestino e gli mise al collo il bavaglino che odorava di pesce e di formaggio.
“Gi … gi o … giov e … - no - giova n … Giovan … Giovanni! – Mi … Mirau!  Mirau? Come me?”.  E volse gli occhi carichi di stupore e di interrogativi dall’uno all’altro genitore.
In quelle brevi e semplici risposte, già riferite, s’acquietò al momento la mia ansia di verità.


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Etichette: Prosa narrativa
Bianca Mannu
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lunedì 16 luglio 2018

Sotto l’ombrellone giallo-verde - liberi pensieri di Bianca


 Malgrado la problematica e dilagante proliferazione umana, il mare disegna oggi, purissimo, il suo orizzonte blu; e sotto il suo drappo mattinale, così setoso, nasconde perfettamente il suo fondo cimiteriale e dissimula con incredibile cosmesi neoformazioni inquietanti.
Oggi il mare giace nell’intervallo di una meteopatia sedata. Come in un dipinto antico (dove lo si presume colto nella sua prossimità allo stato virginale) appare placidamente amico nelle sue variegature d’azzurro, intento a duplicare un cielo popolato di trasparenze e nuvole fioccose.
Eppure, certamente, con le precipitazioni dei giorni scorsi, il cielo ha pianto gli ormai soliti veleni, ignorati dal pigro formicolio degli appassionati del bagno di sole che precede il successivo di acqua marina.
Tutto, quel tutto minimale dove può giungere l’occhio lucroso degli habitués, tutto è dolce, sommessamente buono per il gaudio dei frivoli, cioè  di tutti noi animaletti bipedi presenti sull’arenile dei Centomila (braccio quartese), intenti a imbalsamarci di creme, a spidocchiarci come scimmie, a commisurare la nostra con la pancia degli altri, confortati dalla modesta, ma splendida amenità del luogo,  del momento e del temporaneo privilegio.
Il destino, quello cinico e baro, chiamato a presentarsi di persona da un tribuno ambiguo, sembra viaggiare al momento ben oltre l’orizzonte, oppure, chi sa, nascondersi negli anfratti costieri o forse nei gadget spaziali, occhi lunghi e insidiosi, che il sole cancella nello sfolgorio dei raggi, un po’ causa e un po’ complice della nostra isolana sonnolenza colposa.
Noi, gente d’Isola e luogo di sbarchi provvidenziali quando butta tempesta, noi da millenni navighiamo soli o male accompagnati, e pare che quasi non ce ne accorgiamo. Astiosi tra noi, abbiamo lasciato che i lupi bianchi ci rosicchiassero fino alle budella, ché tanto abbiamo l’Origine e la genia Neolitica!
Ed è a causa di tale  ancestralità, (di cui andiamo talvolta fieri, talaltra vergognosi, riesumata nella sua crudezza, ma poi,  rivestita, per la sua commerciabilità, nelle varie esplosioni di sagre e di cortes adescanti, con addobbi da bric-à-brac allestiti alla 
buona con i rottami di qualche prosperità subalterna, peraltro vicinissima alla miseria servile degli ex valvassini) che siamo incapaci di vivere il nostro presente, di prefigurarci un futuro, magari condito d’acredine, ma diverso da una “balentìa” bacata in radice.
Di questo e d’altro mi arrovello dentro la mia non ingrata solitudine da spiaggia. E mi pare una vecchia galera alla deriva questa terra, non da marinai governata, ma  semplicemente usata da una filibusta di vecchie pantegane.
Contro di loro, noi (sa gentixedda) possiamo perfino arrabbiarci per un momento, ma non riusciamo a uscire dalla condizione di topi subordinati,  l’un contro l’altro in lite per qualche briciola sfuggita alla pantagruelica voracità dell’intero Areopago isolano e oltremarino.

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Bianca Mannu
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martedì 10 luglio 2018

Un matto in giallo - brano dal XVII capitolo di DA NONNA ANNETTA

Nota - Dico subito che la riedizione  di stralci dell'opera non ha fini commerciali, dato che è probabile che non esistano copie del libro nelle librerie, né  sto pensando di proporne  una nuova edizione. 
Sono assai  felice del commento di Antonio Altana  precedentemente postato su questo blog, come di quello, più professionale di Giuliano Brenna su Larecherche.it, del 2013, se non erro.
Ma in qualità di autrice, che non ha avuto l'occasione di precisare
 perché e come sta dentro il libro,  vorrei chiarire che il fine dell'opera non è e non voleva essere un'autobiografia , né documentaria né romanzata. La mia presenza come personaggio infantile e poi come io narrante adulto ha senso e si giustifica come collettore di storie altrui.
Si delinea un  pezzo di mondo, popolato di persone: familiari affini, figure singolari e tratti distintivi di diverse comunità reali.
Ogni presenza, ogni figura o gruppo ha preso senso,non tanto in virtù della propria singolarità, ma in quanto tessera di un puzzle più grande. Senza un ragione apparente e senza alcun preconcetto sono andata a impattare in una sequela di storie o episodi che da soli sarebbero stati persino banali. 
La necessità della scrittura (non esauribile nella sola escussione narrativa, come ha sottolineato Altana) si è imposta quando  articolando fatti e considerazioni, sono emerse connessioni e ragioni
preminenti sopra le teste dei singoli
Ecco, un mondo che è esistito, è entrato costitutivamente nella mia ricettività sensoriale, con tutto il suo carico di problemi, affetti, disagi, concezioni di vita, frizioni e contrasti, ma anche di parole, di idee. Un materiale che ha fatto corpo e poi pressione per aprirsi una via d'uscita corale per via delle connessioni che io (forte della filosofia paterna) ho trovato il coraggio di affrontare dopo averci ponzato sopra per quasi vent'anni. E allora ho potuto incrementare la mia maturità provando ad articolare microcosmi col macrocosmo. ( B.M.)

Da

Un matto in giallo

A quattordici anni Serafino aveva preso a frequentare la carpenteria dei fratelli Simula, che accoglieva molti apprendisti. Erano i ragazzi della classe media del paese, quelli che si potevano permettere il lusso di sostenere i figli per il tempo necessario all’apprendimento di un vero mestiere. Giacché i figli dei più poveri scendevano già in galleria o andavano a scarriolare alle fornaci. Ma per Serafino la frequenza della carpenteria doveva essere breve e tale da consentirgli di acquisire qualche tecnica di base per fare il suo ingresso presso una falegnameria vera e propria, che costruiva e intagliava mobili in stile e che era molto selettiva nell’accogliere gli apprendisti. Nonno Mirau s’era particolarmente dato da fare e si era volentieri accollato il peso del mantenimento in apprendistato di Serafino, proprio considerando le capacità e la particolare sensibilità del ragazzo. Il quale, insomma, pareva destinato a un privilegio ulteriore: diventare un fine artigiano del legno.
Infatti nel volgere di un anno, il ragazzo aveva già cambiato ditta. E la sera dopo il lavoro, studiava e riproduceva su carta le venature e le particolarità dei diversi legnami, di cui si portava in casa i campioni. Attentissimo in Ditta, aveva messo gli occhi sui cataloghi e le pubblicazioni che il capomastro, signor Antonio - che era anche contitolare d’impresa - consultava frequentemente quando assumeva una nuova ordinazione. Fattosi coraggio, Serafino aveva chiesto il permesso di avere in prestito uno di quegli album, anche per una sola sera.
“Questi sono strumenti di lavoro e costano … Mica si può darli in giro così, come figurine qualunque!”
“Sicuro. A me piacciono per studio”aggiunse l’apprendista in un soffio.
“Uhm. Sei arrivato ieri: non sai neppure la A dell’alfabeto del falegname.”
“È vero, signor Antonio. Però io ce la sto mettendo tutta. Guardi, se lei mi presta uno di quei libri, anche per una sola sera, io rinuncio alla paghetta del mese che lei ha promesso di darmi per questa fine anno …”
“Eh, come corri, ragazzo! Vedremo, vedremo.”
E pare che il  signor Antonio la scodellasse così, calda calda, anche a nonno Cesare, per dargli ad intendere che la promessa paghetta di Serafino poteva slittare per un buon mezzo anno. Fatto sta che una sera il mastro intagliatore, preso dal ghiribizzo della curiosità - vediamo cosa riesce a combinare - gli allungò uno degli album corredati di immagini e didascalie. Il giorno successivo Serafino tornò col libro in mano e un mazzetto di fogli nei quali aveva riprodotto a matita le immagini dell’album con una precisione e una bravura davvero singolari. Perciò il signor Antonio lo prese a benvolere e lo chiamava per farsi aiutare negli schizzi degli assemblaggi, quando il lavoro progettuale urgeva. A casa di nonno Mirau erano stati tutti contenti per lui e disposti a passar sopra a certe sue spigolosità caratteriali. Anzi Alfano gli aveva ordinato a proprie spese, dal Continente, una grossa pubblicazione sulla storia del mobile e degli stili.
La domenica, il vecchio gruppo dei compagni di carpenteria passava da casa per chiamare il loro antico compagno di lavoro e di giochi. Andavano per campi, alla ricerca di qualche frutto negli orti indifesi, di uccellini di nido, di bisce, di lucertole o semplicemente andavano per voglia di moto e gazzarra maschile. Nel gruppo, a mano a mano che si usciva dalla mentalità dell’infanzia, si parlava ad alta voce di donne, d’irruzioni ipotetiche in certe bicocche che sarebbe azzardato chiamare “case di piacere”, ma nelle quali era possibile essere iniziati alla pratica sessuale. Se era estate, i ragazzi si tuffavano a gara in “Su Carropu”, nel fossato della cava di arenaria. E quando la pelle, satura di sole, si era vestita della patina argillosa della roggia, allora qualcuno, guardando la lama della luce trapassare obliqua lo spessore equivoco e verdastro dell’acqua, evocava i morti annegati degli anni avanti. Un brivido allora saettava i dorsi e atterrava le inguini esaltate. Un altro allora, per sfida, di nuovo si lanciava e chiamava alla prova gli altri. L’irrisione e il frizzo cedevano talora il passo all’insolenza, e l’insulto accompagnava e seguiva il gesto rabbioso delle mani… Era così anche ai tempi di Alfano, pochi anni prima. Ma a quel tempo Alfano già fucinava presso la miniera.
Comunque stessero le cose, in famiglia ci si accorse che Serafino aveva smesso di partecipare a quelle scampagnate con quella compagnia. “Com’è che non esci?” gli chiedeva qualche volta sua madre. “Non mi va.  Non c’è sugo a  torturare le bisce o a fare a botte come cretini . E poi, fare a botte è pericoloso”.
Ma le domeniche erano giorni lunghi e vuote le strade. Non si poteva crescere come mammole, nascosti tra il crescione e il mentastro, aspettando primavera …
Fu così che quella domenica soleggiata di maggio disse: “Oh ma’, badate che esco”.
“E dove, figlio mio?”
“Uff! Esco”.
“Con i soliti?”
“Esco e basta”.
“Ma, da solo?”
“Sì... No. Non lo sooo”.
“Non tardare!”
“Eeeh!”
Erano già tutti a tavola - tutti tranne Pietro, che lavorava a Montorgiu, e Adelina che, sposa di fresco, pranzava a casa propria col marito - quando il cancelletto cigolò in cortile. “Ci sei?” vociò nonna Magdalena. Nessuno rispose. Aglaia si fece sull’uscio e osservò: “C’è mica nessuno. Il signorino farà tardi. Ma noi si mangia, eh, che ho da finire il cucito!”.
Alfano e Lorenzo affondarono gli occhi nel piatto.
“Embeh! Uno non può andare a donne senza sbandierarlo a tutti?” esclamò l’intemperante Valerio, rompendo il silenzio e cercando di buttarla in facezia. Ma gli sguardi di tutti quasi gli troncarono in bocca la battuta. Un silenzio insolito accompagnò la consumazione del pasto. Poi i ragazzi si allontanarono, mentre nonno e nonna rimasero seduti a tavola, in attesa.
Il pomeriggio inoltrava e di Serafino neanche l’ombra. “Basta” - sbottò nonna guardando il marito – “io sto in pensiero”.
“Ma io dove lo cerco?” fu la risposta angosciata di nonno che, levatosi in piedi, guardava di fuori senza saper prendere una decisione. I due stettero a guardarsi come se ciascuno, leggendo sul volto dell’altro il passaggio di un’ombra scura, non volesse darlo a vedere. Infatti tacevano. A quel punto Aglaia, si affacciò dalla sua stanza: “Niente, eh? Voi, papà e mamma, i maschietti di casa li viziate troppo! Al loro confronto, me mi trattate come una carcerata”. E la sua voce dal timbro argenteo sembrava voler rassicurare tutti.
Nonna Magdalena per un po’ si agitò pesantemente sulla sedia, poi si levò di scatto e cominciò a sparecchiare chiassosamente la tavola. Ma quando ebbe impilato i piatti per lavarli nel caldaio di rame con la cenere, mollò tutto, si asciugò le mani sul grembiule ed entrò nella camera dei figli. C’era solo Alfano che ricuperava il turno in officina, perché a sera doveva rimettersi in cammino per Montopinosu.
“Che c’è, mamma?”
“Scusami se ti ho svegliato. Volevo dire ai tuoi fratelli che …”
“Sono usciti a posta. Non mi riesce lo stesso di dormire. Però sta’ tranquilla. Tornano presto, e tutti”.
Tornarono Lorenzo e Valerio: “A Su Carropu non c’è traccia di soste umane. Del resto non fa ancora così caldo!”
Nonna e nonno respirarono rumorosamente, come parzialmente sollevati.
Alfano si era alzato e si apprestava a uscire come se dovesse raggiungere la miniera. “Andiamo. Portatevi un indumento pesante e dei bastoni. La borraccia dell’acqua l’ho nella sacca. Passo nella loggetta a prendere la lucerna di miniera …”
Valerio fece una smorfia ironica, ma si dispose a eseguire senza ulteriori commenti. I genitori stavano a guardare impensieriti e speranzosi, avendo rinunciato, per scaramanzia, a darsi un’altra spiegazione segreta e incomunicabile del fatto. O meglio, a nonna Magdalena martellavano nelle orecchie le parole di Serafino: “Fare a botte … pericoloso … botte … botte … pericoloso … botte …”. Ma non erano passati che pochi minuti, quando la voce di Alfano li raggiunse, alterata, dalla loggetta situata nell’angolo remoto del cortile. Accorsero tutti.
Serafino era riverso nell’angolo tra la legna e il prospetto del forno. E già Alfano sollevandolo diceva che era solo svenuto. Lo portarono in casa e lo deposero sul letto. Nonna pretese che lo spogliassero “per capire se reca dei segni”.
“Che segni?”
“Se ha fatto a botte …”
Non aveva segni.”Non sembra che l’abbiano picchiato” si dissero l’un l’altro.
Ma non ci fu verso di riportare il ragazzo alla coscienza. Da pallido divenne violentemente rosso sul volto e fu preda della febbre. Per diversi giorni stentò a riprendere conoscenza. Se ne vide un barlume verso il mattino dopo, ma poi sopraggiunse di nuovo la febbre.
Adelina, già col pancione, recava il ghiaccio in una busta di gomma. Lo prelevava dalla sua ghiacciaia sempre fornita, per fabbricare la carapigna, i sorbetti da vendere alle feste. “Adesso che nasce il bambino, beati voi se mi vedrete! Neppure dietro il banco potrò stare. Dovrà starci Cristoforo. Ma lui scalpita. Dice che qui così non si guadagna, qui. Dice che vuol partire. E forse sì, partiremo …”
Allora non si accedeva tanto facilmente agli ospedali, pochi e concentrati nelle città, specialmente se si abitava a distanze ragguardevoli. D’altronde il medico, avendo escluso contusioni, consigliava di aspettare il chiarimento del quadro clinico. Nonna e Aglaia si davano il turno con il ghiaccio e poi con le pezzuole umide. Solo dopo tre settimane la febbre ebbe un recesso e, accompagnandosi a copiose sudorazioni, in una notte cessò del tutto. Al mattino Serafino apparve come svuotato e con gli occhi vaghi come laghi brumosi. Non parlava. Il medico, contento, smorzava le ambasce di nonna: “Un po’ alla volta, che diamine!”.

Una mattina che erano tutti via, nonna Magdalena studiò da vicino il malato. Era pallido e smagrito, sì, però aveva i tratti più rilassati … Gli accarezzò i capelli e la fronte e con la voce trepidante e dolce gli chiese: “E allora, figlio mio, non mi vuoi raccontare che cosa ti è successo quel giorno?”.
“Ma voi, chi siete? Che volete da me?” gli fece eco Serafino con una voce irriconoscibile e roteando gli occhi in modo pauroso.
Nonna Magdalena si spaventò e pianse per la disperazione. E quando tutta la famiglia fu riunita ci si accordò per non chiedergli più nulla e per fare come se niente fosse accaduto. Magari, col tempo, tutto si sarebbe chiarito e aggiustato. Era noto a tutti che Serafino, pur essendo mite, non amava essere inquisito o pressato.
“Avrà avuto uno spavento e, forse perciò, non ricorda niente davvero!” tagliò corto Aglaia.
Si trattava di aver pazienza e favorire il tranquillo ritorno alla normalità, aveva ribadito il medico, chiamato in soccorso. Più avanti nel tempo si sarebbe potuto condurlo a Cagliari da uno specialista del sistema nervoso, caso mai rivelasse il sintomo del malcaduco … “Ma non pare” aggiunse ancora il dottore per smorzare l’apprensione della madre. Anzi trovava inutile il suo controllo assiduo. Era meglio che lo chiamassero al bisogno.
I giorni passavano e il pensoso Serafino rimase assolutamente blindato e taciturno. Invitato a uscire di casa, si rifiutò testardamente rifugiandosi nel letto e chiudendo la porta della stanza a doppia mandata. Fece lo stesso quando lo invitarono a tornare al lavoro. Anzi questa volta aveva manifestato, insieme col rifiuto, una veemenza fisica e verbale che nessuno gli conosceva.
Passarono alcuni mesi senza che si potesse avere un indizio né di peggioramento né di ritorno alla normalità. Serafino aveva, sì, ripreso a bazzicare il cortile, ma unicamente per costruire gabbiette di stecchi, per grilli e cavallette, asseriva.
“Non se ne fa più niente di costui” aveva osservato un giorno Valerio, fissandolo con crudele oggettività.
“Infatti. E nulla ci si deve più aspettare da lui” gli fece sponda lo stesso Serafino, restando chino sugli stecchi che assemblava pazientemente con sottili pezzi di rafia e con una voce così impersonale come se parlasse di un altro.
La montagnola delle gabbiette cresceva sensibilmente, ossessivamente. Ora anche Alfano osservava il fratello con doloroso spavento. Pietro, Pietrino per tutti i familiari - quelle rare domeniche che poteva tornare a casa da Montorgiu - scuoteva il capo. “Mamma, babbo, non aspettate più; portatelo a Cagliari. Al costo della visita ci penso io”.
Pietrino dovette tornare di lì a poco perché era arrivata la cartolina di chiamata alle armi. L’Italia entrava in guerra e lui a Cagliari doveva andarci per forza, per vestire la divisa e partire.
Fu così che, un po’ per accompagnare Pietrino e un po’ con la speranza di ottenere da uno specialista una cura che riportasse il ragazzo alla normalità, partirono in quattro per Cagliari. All’arrivo Pietro scomparve dietro il portone di una bassa, ma ampia e grigia costruzione: la caserma. Loro tre montarono su un tram a cavalli e ritornarono alla Marina, non lontano dalla stazione ferroviaria.
La visita non chiarì un bel niente, ma costò intero l’ultimo salario di Pietrino. Ebbero una ricetta per un ricostituente. Fu tutto. Verso l’ora della partenza videro un soldato avvicinarsi alla loro panchina … Serafino fece uno scatto di gioiosa sorpresa: “Pietrì, sembri un altro! Ma io ti preferisco in borghese”.
“Anch’io mi preferirei come piace a te” gli rispose il fratello con ironia un po’ amara. Però si diceva rallegrato perché gli avevano concesso tre ore per salutare il fratello malato. Non sapeva ancora la precisa data di partenza, ma disse loro che era meglio che non tornassero nel capoluogo. Perché tanto il saluto si sarebbe ridotto in un agitare il fazzolettino sul molo e piangere come a un funerale.
Nonna Magdalena - racconta mio padre - pianse silenziosamente per giorni e giorni; e ricominciava ogni volta che Alfano ripartiva per la miniera di Montopinosu, perché le pareva che i figli – tanto quello che era partito, quanto il più cagionevole dei tre che restavano in paese, come quest’altro che arrivava per ripartire - glieli strappassero ripetutamente e senza fine dalla carne viva delle viscere. 


Pubblicato da Bianca Mannu alle 13:38:00 Nessun commento:
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Bianca Mannu
Dialoghi mentali con persone fisicamente vicine o lontane per mezzo di espressioni poetiche, di racconti, articoli concernenti diverse problematiche del mondo contemporaneo liberamente accolte, filtrate, elaborate, criticate.

venerdì 6 luglio 2018

Per DA NONNA ANNETTA commento bilingue di ANTONIO ALTANA

Commento al romanzo, in sardo-logudorese con dedica
Umile ma sìncheru cummentu positivu pro unu libru de preju de Bianca Mannu
“DA NONNA ANNETTA”
Unu sàbiu assazu calamita in unu contu simizante a su beru, ue sa protagonista pitzinna, descrita dae se mantessi creschende e creschida, ponet in giaru sas cuntraisciones educativas de sa zente in sos annos baranta cun sos suos cunflitos sotziales e sos aprofundidos analisi manizados chin una mazore subravisione, innudende donzi borta su sorde dissagrante de s’ipocrisia cuadu prus de totu in sos pizos de sa classe mediana.
De rimarcare, unu raru impitadu assignu de protagonismu a mantessis divessos personazos chi achidat cale esseret un assotziu de autobiografias tratadas in manera impecabile pro sa trasparentzia fisica e carateriale chi assignat a donzunu in su rolu sou e in su cuntestu sotziale chirriadu e connaturadu in famiglias allargadas de s’epoca, frecuentes in Sardigna (e no ebbia) e in modu ispecificu de cussa zona de sa Parteolla.
Un’istile de contadu-analis a prus pizos e filos intritzados chi fotografana tantu su personazu
chin sos suos achivos sotziales cantu s’ambiente e sas cuntraisciones evolutivas cun descritivas analis-avisos de siguru valore pro su oje.
Corazu e seguresa l’ispinghent in su “sensu unicu” de sas cumbissiones suas chi argumentat, dimustrat e cunfrontat cun sabiente e lugorosa, capatzidade e unu frunidu italianu.
Achidamentu de duras denuntzias a raighinados egoismos e mascinismos de su tempus a contraissiones de fide politica e religiosa chena addulchimentos chi isparghet cun rude siguresa e ranchida brugliania in sos longos bados de poesia che cussa lampana a piumbu in tzentru banca cun sa tiaza bianca chi refletit sa lughe multiplicada dae sos bicos decorados a franzas de su lampadariu de bidru a campana chi illuinat cun pitzinna beridade sas benales bramosias de sas tias, cuadas cun isgrabiladas ternuras o su tratu de aprendimentu cun issinzu pasigu e frutuosu chin su babbu, refratariu a fraigare fatzadas de fartzos benistares chin cussu infrutuosu de unu pessighire sa derruta erentzia de sa mama chi cuntrastat e criat redobica cuntierra cun sa fiza, (pagada cara… a soddos de carre-N.D.A) e balu sa ternura brugliana ma sinnificativa de sa tresca tra Celeste e Manfredi truncada in unu primu nascher dae nonna Annetta chin ua curiosa cunsigna de saludos de giugher a sa comare e mama de s’amoradu comente lestra dispedida e ricatu pro su viaggiu.
Psicologia e pedagogia sono rimarcados in sa prima parte de s’assazu sabiu apostorzadu in una sua isula felitze ue modellat sos sistemas pro sa connoschentzia e su cunfrontu de sa prima pitzinnia cun sas suas lestras e redobicas deduidas, che pro cussas de tziu Cosiminu presentadu a issa cando balu pitzinna, comente unu bonu e bravu dae sos chi nde retziant ajuos ma chi s’intuitu e su chertu l’ateit a bider uu Camillu Ben-susu, conte pro sos sardos.
A sa fine istrinat unu primu passadu
istoricu-politicu paritzu befulanu, comente Ersiliu chi tra una prima bufada de annicu e prepotentzia e un’ultima de diliga renchènnida
non si abbizat chi sos lughidos cambales cun sa camija niedda non benzeint (Noa legge e nou re), ma duos nidos de casu ebbia in su parastazu de coghina.
Capitzidade espressiva cun chilca descritiva rimarcant sa rara bravura de poder bessire dae su contu pro faghe cunfrontos istoricos e diretos chin su letore chena perder su filu ghia in su torrare a caminera. (Comente s’antifona de unu mancamentu improvisu) chi innestat briones chena truncare incunzas a su contu, l’ispuntant fiores in sa sua imprentada sabidoria.

Commento in italiano con dedica
E adesso aiutato dalla pietà di word per l’ortografia del mio modesto italiano,
(e preso come strumento tuttavia sensibile per vibrarlo in questa sonorità – N.D.A)
snocciolo il mio umile ma sincero commento completamente positivo per una rara composizione a un libro eccezionale di 
Bianca Mannu (Giuro!)

“DA NONNA ANNETTA”
Un saggio calamita in un racconto verosimile dove la protagonista infantile, descritta da sé stessa maturanda e matura, mette allo scoperto le contraddizioni educative della gente negli anni quaranta e i suoi conflitti sociali, con approfondite analisi gestite da una sorta di ulteriore supervisione che denuda volta per volta il verme dissacrante dell’ipocrisia subdola soprattutto nei ceti medi della popolazione. Da sottolineare una non consueta assegnazione da protagonista a diversi personaggi di turno come fosse un insieme di autobiografie gestite in modo impeccabile per la trasparenza fisica-caratteriale che assegna ad ognuno nel proprio ruolo un contesto sociale dettagliato e veritiero, inserito nella famiglia allargata, frequente nell’epoca in Sardegna (e non solo) e specificatamente in quella sub-regione del Parteolla. Un metodo di racconto-analisi a più strati e fili capillari a forte impronta personale che fotografa tanto il personaggio con le sue acquisizioni sociali quanto l’ambiente e le contraddizioni evolutive con descrittive analisi-messaggio di indubbio valore attuale. 
Coraggio e sicurezza la spingono nel “senso unico” delle sue convinzioni che argomenta, dimostra e confronta con sapiente lucidità e capacità in un forbitissimo italiano.
Alternanze di dure denunce ai radicali egoismi e maschilismi del tempo e a dure contraddizioni di fede politica e religiosa senza dolcificanti spalmati con indomita sicurezza e amara ironia nei lunghi passaggi intensi di poesia, come quando una lampada a perpendicolo sul tavolo con tovaglia bianca, rimanda bagliori moltiplicati dagli smerli del lampadario di vetro a campana che illumina con infantile verità le venali frenesie delle zie, celate con maldestre tenerezze o il rapporto di apprendimento sereno e proficuo col padre, refrattario ad innalzare facciate di fallace benessere con quello infruttuoso di un perseguire il decadente lignaggio della madre che contrasta e crea frequente rivalità (pagata cara… con moneta di carne) e, ancora la tenera ironia dell’idillio tra Celeste e Manfredi, stroncata in un primo frangente da nonna Annetta con una 
consegna di saluti da porgere alla comare e madre dello spasimante come un buffo definitivo e perentorio congedo-viatico. 
Psicologia e pedagogia sono preponderanti nella prima parte del saggio, affastellati in una sua isola felice dove plasma i sistemi per la conoscenza e confronto della prima infanzia con le sue ostinate e perentorie deduzioni, come per tziu Cosiminu descritto buono e bravo dai beneficiari ma che il suo intuito e l’indagine la conduce a vederlo come Camillo Ben-so conte dei sardi.
Mentre al finale regala un primo trapasso storico – politico alquanto grottesco, come Ersilio che tra una bevuta reazionaria, tracotante e spavalda e un’ultima bevuta nostalgica e fragile non si avvede che i suoi lucidi stivali e la camicia nera non divennero nuova legge ne nuovo re, ma solamente due pezze di pecorino in cucina.

Capacità espressiva con ricercata descrizione evidenziano l’eccezionale bravura nell'uscire fuori dal racconto per un confronto storico e diretto con il lettore senza smarrire mai il filo conduttore nel riprenderlo, (come antifona di un malore improvviso) che innesta e gemma con continuità di resa il suo racconto, senza perdere i fiori del suo saggio.
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