venerdì 4 gennaio 2019

Su Pastorale americana di Philip Roth – considerazioni di Bianca Mannu

La ragione del titolo e non solo

Prima ancora di giungere alla fatidica p.435 - intanto che leggevo le 400 precedenti e attratta mi lasciavo bagnare (ma senza restarne travolta) dalle cateratte verbali che l’Autore, con assoluta fede nelle capacità rappresentative e seduttrici della sua prosa, sciorinava davanti alla mia immaginazione  - m’interrogavo sul senso di “pastorale” in quanto sostantivo reggente l’aggettivo “americana”.  
Quest’ultimo lemma non può che riferirsi agli USA, in quanto rappresentante emblematico dello schema di mondo  a cui  tutti e specialmente noi europei ci siamo adeguati, e col quale raffiguriamo noi stessi credendoci, perciò, migliori. 
Invece il sostantivo “pastorale” mi incalzava verso un senso per nulla nuovo, benché all’apparenza proveniente da oltre Atlantico. Subito la mia pur titubante memoria faceva affiorare le mie sbiadite informazioni sulle Bucoliche virgiliane, sulle suggestioni campestri e pastorali di Petrarca e giù discorrendo fino all’Arcadia e alla vena naturalistica di Leopardi e dopo ancora  fino alle non pastorali opere della grande  narrativa europea, per esempio I Buddenbrook  e America, onirico controcanto, quest’ultima, sul Nuovo Mondo.
Ma durante la lettura, più forte d’ogni altro riferimento, s’è affacciata alla mia mente “La Pastorale” di Beethoven, già antifona della prima grande lacerazione uomo/natura in Europa (1^rivoluzione industriale avvenuta). La Pastorale beethoveniana rappresenta l’auspicata ricongiunzione dell’umano con la natura di cui è parte. In realtà quel ricongiungimento non ripristina affatto quello primigenio: l’uomo in generale è divenuto un’astrazione rispetto alle sue contrastanti funzioni sociali e la natura è stata variamente alterata in funzione dei destini produttivi. Il possibile ricongiungimento avviene tramite la mediazione dell’arte e della cultura, cioè la natura in scala ridotta rientra nella categoria estetica e l’umano che si congiunge e si rispecchia in lei è l’artista e il suo committente, cioè la classe padronale colta.
Probabilmente anche Roth ha cercato di immaginare le possibili condizioni per  prefigurare una nuova giuntura tra la natura e l’uomo. Ma stavolta l’articolazione si presenta più che mai complessa. Nella Pastorale di Beethoven resta invisibile l’oscenità infernale del mondo della produzione senza apparente nocumento per la sintesi estetica, mentre Roth non può farlo con la stessa facilità e buona coscienza. E non solo perché Roth è di circa centocinquant’anni più giovane, ma perché con lo sviluppo del grande capitale le categorie della natura   e quelle dell’umano, non solo si sono pluralizzate, ma è difficilissimo articolarle, perché la meccanica produttiva capitalistica ha reso la natura indisponibile per la fruizione estetica generalizzata e perché il lavoratore collettivo, per un verso risulta deprivato della sensibilità estetica non finalizzata alla produzione, per altro verso la sua sensibilità compressa nello stato grezzo viene catturata in direzione di una bassa estetica, perché questa è incentivo a consumare merci che recano profitto al produttore e non affinano il gusto e la mente del loro consumatore. Ma il produttore stesso, o meglio colui che investe il capitale, non si preoccupa delle sorti della natura, se non per quella minima parte che ritiene di preservarsi per il proprio benessere, si preoccupa invece tanto di riservare alla proprie attività le materie prime necessarie, almeno finché non ne trova altre in sostituzione, se il mercato della domanda resiste, oppure muta totalmente orientamento produttivo, anche in virtù dei mutamenti tecnologici che sono un altro difficile e contrastante nodo del nesso uomo-natura.
Per restare nell’ambito di una sintesi elementare, Roth non può raccontarci una Pastorale credibile, magari mitica, ma lo spettro desiderato di una pastorale il cui respiro si fa rantolo.
Azzardo un’ipotesi di segno storico letterario: chiamare pastorale questo ambizioso intreccio narrativo è il segno di una petizione dell’Autore al mondo: l’aver costruito un’opera così impegnativa, così densa e collegata al cuore, alla mente e alle viscere della cultura dell’Occidente da entrare a buon diritto nell’Olimpo della narrativa classica mondiale, come un solenne affresco che vede protagonista la più grande potenza mondiale esistente.
Fin dalle pagine iniziali l’autore si concede numerosissime divagazioni, prima di procedere all’intaglio della figura centrale, entro uno sfondo caotico e ostico: una sequela di passaggi sul gioco sportivo su cui sottilizza con tecnicismi da esperto, beandosi e insistendovi come un tifoso autentico, quale forse è stato da buon americano! E a mano a mano che dalla tela esce scontornata qualche figura, ecco l’espandersi ulteriore, quasi ossessivo, del più immediato milieu del protagonista, già baciato, lui così limpido, così alla mano, dalla gloria e dal successo: già una star con  tutta la scia!
Scegliere una prospettiva discosta, seguire ciò che emerge come capriccio della memoria,  connettere situazioni apparentemente lontane fa parte della tecnica compositiva del romanzo contemporaneo. La  creazione  si fa carico di conferire consistenza oggettiva e insieme dinamismo ai protagonisti. Lavorando sugli sfondi l’Autore immette aria e vento nelle sue trame, si libera del marmoreo e in qualche misura mette i protagonisti al riparo dal pericolo del suo stesso amore. In ciò Roth s’impegna da grande maestro con una discorsività scorrevole ed elastica. Eppure la messa in moto di una tale circolazione sanguigna non sempre sortisce l’atteso effetto. Perché?  
Perché manca il vero volano, quello dialettico. Tutto ciò che l’Autore involve per dare concretezza d’anima agli esordi e agli sviluppi della vicenda centrale resta nell’ambito della familiarità.
Molto godibile la modulazione dei dialoghi nella rimpatriata degli ex liceali di Weequahic e di Rimrock , in cui predomina con malinconica asprezza lo sguardo innamorato per la propria e altrui giovinezza smentita dai corpi. Nel medesimo contesto, tra confidenza e perfida franchezza, s’intreccia il dialogo con Jerry Levov, fratello di Seymour, che snocciola all’inconsapevole Nathan Zuckerman, alias Skip (l’ombra romanzesca di Philip Roth) i retroscena del clan Levov con tutte le sue debolezze e vergogne. Che i due  chiamino merda la fanghiglia familiare fa parte del narcisismo d’élite. Però lì Roth non solo tesse l’ordito del dramma, ma inventa il più bel colpo di scena di tutto il libro: Seymour Levov è morto, comunica seccamente Jerry a Skip. E quasi non hai tempo per prenderne atto ed essere consapevole che tutto ciò che Roth sta scrivendo sarà il grande monumento alla memoria.
Caratteri a parte - sgorbiati in pietra, quasi megalitici – sei precipitato nel clan, sei in famiglia. Nonostante la freschezza dei bozzetti, malgrado l’effervescenza e l’arditezza dei dialoghi, avverti aria di chiuso. Senti che c’è un dietro che né  il pensiero né la penna ha sfiorato o sfiorerà. C’è un qualcosa che hai calpestato senza conoscerlo, e tu, Scrittore, non ti sei domandato da che cosa dipende l’inciampo a varcare il chiuso. Jerry, descrivendo l’abnegazione di Seymour verso la volontà paterna, allude alla “sua attrazione fatale”: il lavoro. Il lavoro che rende bruti e lascia povere intere popolazioni (anche questo, il non significato, l’eluso) diventa su di lui, sul padre Lou, su Dawn,  emblema. Ecco un’ingiustizia teoretica trasformarsi in dato meritorio.  Roth è meritocratico e non spiega l’eziologia del presunto merito, se non restringendo lo sguardo alla sfera essenzialmente privata. Ecco che i protagonisti, malgrado errori, leggerezza e sostanziale cinismo, sono da sempre e per sempre “i salvati”. Dei “sommersi” Roth non ha minima contezza che si tratti di umani. L’umano illumina un tratto di qualche fedelissimo dipendente come prova provata della magnanimità padronale. Solo quando Meredhit (Merry) condivide l’orrenda esistenza dei vinti, dei sommersi, allora Roth suscita nella mente di Seymour la moltitudine dei senza volto come liquame, i cui miasmi minacciano di appestare i buoni come  lui.
Questa la tabe sulla resa artistica di «Pastorale americana».
Infatti l’insistente autoreferenzialità e la sostanziale chiusura ideologica e sociale dei protagonisti contrae la vicenda in dramma di dimensioni pressoché private. 
L’occhio dello scrittore continua a muoversi in prossimità dei protagonisti, senza indagare sulle diverse dinamiche sociali con l’occhio magari asciutto, ma libero dalla glassa autoreferenziale. Come dire che Roth non riesce a mettere a fuoco i nessi tra la storia dei Levov con gli operai bianchi e neri, gente che aveva fatto e faceva la fortuna dei Levov e di molti altri, persone che al momento erano inviate a uccidere e a morire in Vietnam. Persone segnate dalla guerra che, deposta la divisa, non trovavano possibilità di reinserimento nel tessuto sociale e produttivo, dato che l’industria di guerra non dava e non aveva dato i risultati sperati. Fallita l’interconnessione con la problematica dei neri, indicati come più neghittosi, ma ancor più carne da cannone, usati, sfruttati e anche segregati, i loro leader assassinati; fallito il riferimento con gli Amerindi del Centro America  e del Sudamerica, umanamente inesistenti per i Levov, ma forse per Roth. Ma noi lettori li sappiamo espropriati di risorse e repressi nelle loro istanze liberatrici tramite governi quisling filostatunitensi. Manca in Roth la coscienza di questa immane responsabilità da  ascrivere alle classi di potere.
S’intuisce anche una presunzione nascosta nel titolo, quasi a significare che l’impero americano produce la sua  “Pastorale” come l’impero romano ha prodotto la sua Eneide: pace ed egemonia Yenky nel mondo globale come Pax augustea a sanzione del dominio romano sul mondo antico.
Oscurate come irrilevanti le realtà di cui sopra, il romanzo di Roth vuole entrare e forse entra nella sfera mitica e mitologica, non dell’idilliaco, ma dell’idealizzazione e celebrazione dell’ordine, o disordine, esistente. La borghesia imprenditoriale formatasi nella congiuntura postbellica statunitense, divenuta colonna portante della grande potenza mondiale, secondo la visione dell’Autore e anche oggettivamente, si trova però inaspettatamente sotto scacco … Perché?  
Per via della guerra a baluardo del Vietnam del Sud, contro il Vietnam del Nord, voluta in ottemperanza della volontà imperiale di garantirsi i mercati, le zone d’influenza, gli ingenti profitti anche e sopra tutto sul mercato delle armi, anche da usare come monito contro istanze politiche più inclusive. C’entrano con la guerra  i guantai? Roth sembra credere all’innocenza di quella categoria e persino di tutta la classe imprenditrice nella sua totalità, come chi confonde la non colpa personale col disimpegno o col cinismo  politico-sociale che ha colpe e manca di responsabilità. Infatti per i personaggi il problema diventa allarmante quando certi loro ben allevati rampolli provano a passare nella trincea opposta. 
Trincee? Dunque guerre, guerre in famiglia, magari guerre in forma di conflitto di classe, che minaccia di scivolare verso la guerra civile.
Il lettore si chiede: forse che i produttori di guanti d’America (tanto per dire il settore più anodino sul quale Roth ha davvero forzato la pazienza del lettore) non conoscono o non praticano i processi di riconversione produttiva che puntualmente vanno a scaricarsi sul proletariato in forma di contrazione di manodopera, di dismissione della medesima e drastica contrazione dei salari? Forse che gli imprenditori dei più diversi settori non investono in borsa i loro profitti, per esempio sulle quotazioni delle armi, nelle prospettiva di acquisire ulteriori profitti, invece di investire in un’economia di pace e di inclusione sociale? Forse che nel gioco di borsa non mettono a rischio e perdono … perdono… il lavoro di chi non ha che quello per vivere da umani.
Dove sta almeno l’eco di questo intreccio complesso e conflittuale nella  Pastorale di Roth?
 L’ evento centrale della narrazione si contorce nella sua esilità: Merry, l’adorata figlia di Seymour Levov, detto lo Svedese, e di Dawn Dwyer, agiata coppia di imprenditori di rilievo economico e sociale non più progressivo come per l’addietro,  manifesta difficoltà linguistiche e psicologiche, entra in conflitto con i familiari, fugge da casa per abbracciare la militanza socio-politica radicale diventando “bombarola” e assassina. 
Come si sviluppa l’educazione politica, per dir così, di Merry, a quel punto della narrazione? In quale contesto? Un autore può rispondere in termini narrativi a tale quesito. Ci sarà una realtà sensibile, descrivibile che invera teorie e punti di vista?  
La famiglia Levov, com’è naturale, nell’apprendere ciò che la figlia verosimilmente ha compiuto, cade nel più profondo sconforto. Ma, mentre Dawn, la madre, si limita a cadere in una grave forma di depressione, Seymour è il solo a chiedersi  che cosa nei rapporti familiari, nelle relazioni amicali, nei rapporti della figlia con gli insegnanti e con la scuola, abbia innescato, dapprima la feroce balbuzie di Merry, e poi il suo progressivo ipercriticismo verso la madre, con cui intrattiene un rapporto-raffronto ambivalente, forse oggetto di pesante rimozione, intanto che nella bimba cresceva la donna. Una situazione che sembra spingere la ragazza verso una caratterizzazione fisica e psichica di segno opposto rispetto alla madre; il che però accentua il suo disagio e dunque la tensione critica e l’inclinazione verso la prassi distruttiva. Ma Merry critica, con la stessa ferocia immatura dell’adolescente, anche suo padre, benché mantenga con lui un certo dialogo, almeno fino alla decisione della fuga. Lo critica  per la sua indifferenza verso coloro che la guerra corrompe, impoverisce, uccide rincalzando il conflitto a un livello più ravvicinato. Merry non riesce a mettere insieme l’integrità personale del padre, la sua gentilezza d’animo, di cui lei ha fatto gratificante esperienza, con il fariseismo sociale che a lui blocca la diretta e totale scelta di campo: una scelta etica mancata. Nella sua frettolosa ingenuità politica, Merry intuisce la relazione perversa tra status socioeconomico eminente e sospensione del senso della responsabilità politica e sociale.
E il padre, solo a posteriori, ricostruisce il percorso autoformativo intellettuale di Merry scoprendo una quantità di testi teorici (in Italia gli autori sarebbero stati indicati come “cattivi maestri”) che lei avrebbe letto e studiato con foga immatura e senza prefigurarsi mediazioni.
Queste mie considerazioni saltano fuori dalla lettura in negativo del romanzo: da ciò che viene eluso da parte dell’Autore. Il testo della narrazione, appare molto diluito e insistito nell’inseguimento coscienziale di Seymour a caccia delle minuzie relazionali con la figlia. Anzi l’Autore sembra cadere nell’incredibile ingenuità di stabilire una relazione di causa/effetto tra il disagio affettivo e psicologico di Merry e il suo diretto coinvolgimento nelle azioni di eversione delittuosa. E davvero non si capisce bene se un tale atteggiamento corrisponda all’esigenza narrativa di evidenziare la postura protettiva di Seymour verso sua figlia nel raccontarsi la fondamentale incolpevolezza di lei (troppo intelligente, troppo giudiziosa) attribuendo ad altri il reato di averla usata come strumento semiconsapevole, oppure se l’Autore voglia sottolineare l’efficacia pervertitrice della tabe psicologica, allorché vi siano condizioni esterne  e teorie ausiliatrici (la cui descrizione analitica è, come già detto, logorroica e insieme lacunosa) che ne sussumano la dirompenza.
Ma un romanzo è un romanzo, cioè un lavoro dell’immaginario e, per quanto il materiale ideativo peschi nei vissuti profondi  e si valga di documenti che formano nodo  nell’esperienza e nella visione complessiva di un Autore certamente dotato, può accadere che esso non acchiappi gli elementi di contraddizione e di scontro provenienti dal gioco degli interessi sociopolitici emergenti e contrapposti nel caratterizzare i personaggi; e perciò fallisca la condensazione figurativa e psicologica forzandoli entro la linearità di una prospettiva troppo soggettiva (in questo caso il punto di vista di una classe borghese imprenditoriale che incarna un modello economico fondato sul profitto la cui fonte è sì il lavoro umano, ma nella condizione di merce). 
 “Pastorale americana” si rivela favola triste di un incubo ideologico. La nuvola ideologica invade tutte le prospettive, oscura il parossismo della competizione che irrigidisce l’immigrato artigiano nella sua voglia di farcela a tutti i costi (Levov padre), contro un altro immigrato con la stessa voglia (colleghi, competitori), contro i neri poveri, troppo repressi e depressi per cadere al laccio della medesima spinta rampante, contro  l’erede dell’antico avventuriero, magari schiavista territorializzato, reso altezzoso dal censo più “old” e nobilitato dalla pratica del potere istituzionale divenuto dinastico (Orcutt), contro l’intellettuale critico di cui invidia la presunta libertà, l’immeritato benessere e  l’impunità ideologica e morale( Shelly Salzman, Marcia, Sheila).
L’Autore appare affascinato da quella voglia aggressiva, e al momento imbelle, del magnate che riferisce a sé ogni altro valore, però oscilla se sanzionare il personaggio dominato da quell’assillo della salvezza del capitale con pennellate di graffiante ironia sottolineandone il ghignoso compiacimento egotistico (Lou Levov e lo stesso Jerry in altra categoria), o se, all’opposto, parteggiare per chi nasce predestinato a divenire magnate, come Seymour, che trova il solco segnato e lì generosamente spende le sue energie e raccoglie frutti senza farsi troppe domande, forse anche senza capire bene  la cifra del mondo, o forse anche leggendola, ma raccontandosi la fiaba che lui ha fatto e fa del suo meglio e che sono gli altri a tradire: i bianchi, i poliziotti, i neri, quasi tutti casseurs. E nella sfera familiare e di clan la moglie Dawn tradisce, ma  tradiscono anche gli amici, mentre lui,  vittima, incassa i colpi. Anche Merry forse vittima lo è, rispetto ai soci di eversione. Ma il tradito deve riconoscersi a sua volta traditore e simile nella perfidia, facilmente sottovalutata ed elusa. 
Infine c’è il nostro inconscio e l’autoassoluzione preventiva: questo Roth lo rappresenta. Seymour consegna sua figlia alla furia vendicatrice di suo fratello, Jerry. L’Autore a questo punto trova la soluzione  psicologica più sottile ed efficace  nella resa artistica: le torsioni di Seymour per scuotersi il peso insostenibile, tanto della Merry attentatrice, quanto della non redimibile Merry giaina, contaminata e veicolo di più orrenda polluzione dal mondo dei dannati alla discarica umana in cui si è gettata, e infine scuotersi l’enormità delle sue perdite perdendo la vita.
Dunque tutto si è sfaldato e decaduto rapidissimamente nella banalità più triviale intorno e dentro i protagonisti di questa storia.
E tuttavia Roth sembra sostenere che se un mondo, creativo, volitivo, regolato, produttivo e persino virtuoso e candido, è esistito, sono i Lou, i Seymour, le Dawn ad avere la palma come coraggiosi creatori di progresso e di benessere. Un’esigua parte sociale pensa di essere la totalità, ma poi si comporta come la sonnambula scossa nel bel mezzo dell’incubo. Solo che l’incubo è una realtà in esplosione, non dominabile con ordini di servizio ed esibizioni di titoli di merito inesistenti
Ma se eviti di essere sommerso da certe deviazioni verbalistiche dell’Autore, vedi gente incantata sull’ipostasi dell’accumulazione, del successo, dell’espansione illimitata; gente che non ha avuto né altri occhi né altra religione se non il proprio profitto, così assorbita nel celebrare i propri feticci da non accorgersi neppure di nutrire nel proprio seno la loro smentita più clamorosa.  
I protagonisti ex magnati cadono preda di farneticazioni, fughe verbali e insulsi battibecchi. Sia che comprendano o no le ragioni vere delle convulsioni sociali che li impauriscono, tendono a occuparsi del loro ancora dorato perimetro o si voltano indietro come se la nostalgia della frontiera e del sogno americano sia di nuovo disponibile per il poi.
È in questa mancanza di presa che si avverte la debolezza dei molti indugi allo specchio della propria immagine di classe, di cui Roth elabora curiose sfaccettature senza stare a sufficienza nel segno.
E sta forse in ciò la tabe della sua stessa grandezza: averci regalato la rappresentazione palpabile (errore o obiettivo raggiunto?) dell’idealizzazione narcisistica di classe, condizione della cecità sociale e storica ritratta in personaggi che non sembrano avere la minima idea, fuori dalle quotazioni di borsa, di come le  interrelazioni planetarie irrompano a cambiare gli assetti del più solido quotidiano. In tale ambito spicca l’ottusità psicologica dei protagonisti, per esempio di Seymour, che si ostina a credere all’inconsapevolezza di Merry, alle dichiarazioni truffaldine di una  Rita Cohen viepiù associata ad Angela Davis come sua perfida sosia, di Dawn che pretende risolvere la lacerazione affettiva materna e di ruolo sociale con un lifting e una nuova villa con amante.
Una considerazione speciale merita il colloquio, o  piuttosto l’apparizione di Angela Davis nella cucina di Seymour. Qui siamo ai limiti dell’incredibile, se non del farsesco. E qui si può cogliere la farragine piuttosto veloce e un po’ liquidatoria di Roth nei confronti di quegli eventi e delle idee che li interpretavano e motivavano, come se volesse equipararli agli isterismi dei visionari più folli. Perciò risulta davvero difficile distinguere il pensiero analitico dell’Autore dalle reazioni confuse e altalenanti dei protagonisti e di certo capitalismo.
Per questi motivi viene spontaneo concludere che la Pastorale Americana sia un canto per voce sola, quella ancestrale dei fuoriusciti e deportati europei che divenivano coloni e non avevano ancora iniziato il confinamento e il massacro dei nativi. Fu Lincoln nel 1863 a proclamare la celebrazione del Ringraziamento come festa di pace civile inaugurata invece duecento anni prima dai Padri Pellegrini come festa religiosa
 Infatti alla pagina 435 del romanzo in oggetto, dopo lo stucchevole amarcord del colloquio di Dawn con Lou sulla eventuale scelta religiosa per gli eventuali figli di Dawn e Seymour, da cui risulterebbe  un triste vaticinio  sulla vita di Merry, si indica in che cosa consista la Pastorale americana: nel momento fugace della festa del Ringraziamento della durata di un giorno, allorché tutti mangiano lo stesso immenso tacchino, rendono volutamente omaggio all’istituzione suprema che si eleva incrollabile sopra ogni conflitto. Insomma un’epifania di pace puntiforme.
E qui ancora una volta è evidente la distopia visiva di Roth che si limita testardamente a considerare solo la discriminante religiosa tra ebrei e cristiani, come se tutta l’America del Nord non conoscesse altre specificità umane religiose o razziali, cozzando col fatto che almeno una macroscopica questione razziale c’era e c’è tuttora, quella con gli ex schiavi neri e quella non meno lacerante dei pochi nativi sopravvissuti alle stragi e confinati nelle riserve.
In tal modo la Pastorale americana di Roth si chiude ideologicamente entro una cortina fumogena per non fare i conti (artistici) con le istanze di liberazione e inclusione umana, riproponendo in sostanza la griffe rassicurante e conservatrice del mito yenkee del self-made man. 
   
Noticina - Ringrazio la mia amica poetessa Giuseppa Sicura che mi ha prestato il libro. (B.M.)

lunedì 17 dicembre 2018

AL PAESE MIO - da Alluci scalzi - raccolta di versi di Bianca Mannu


Al paese mio

Al paese mio di tufo e d’arenaria
con la Repubblica crebbero
fra gli oleandri cremisi e rosati
le acacie straniere
acclimate in piccolo formato.

Stormivano  le lunghe estati
nel piazzale – le flebili ombre
come di merletto
sul lastricato favoloso
che solerti operai repubblicani
avevano piazzato
sul vecchio sterrato reazionario.

Serbato il bronzo di vedetta –
il reliquario-
ma rimossi gli obici
che gli stavano intorno -
perse quell’aria
di lutto e di minaccia.

Rimasto al centro e sul fusto -
il milite oscillava indeciso
se insistere a scrutare l’orizzonte
o stramazzare sopra l’imbelle baionetta.

Alla lista della Prima
fu aggiunta
quella  non breve dell’Ultima -
così detta e ribadita
per eccesso di scaramanzia.

La domenicale compagnia
dei ragazzini -
quella designata a tenere
il filo del ricordo –
aveva slittamenti di memoria
scivolava sulle connessioni
della piazza e dell’erma
con la storia.

Non voleva saperne
di terre contese
di sangue e di croci
d’ignominiosi incroci
e neppure avvertiva discosto -
da un mondo d’alieni terrestri -
d’armi più nuove
il ferale rimbombo …

Intorno al monumento –
ignaro e felice -
il nugolo dei mocciosi
si limitava a farci il girotondo.


Così Carlo Onnis nella nota introduttiva al volume. (stralci)

“Alluci” allude ai piedi  che rappresentano il punto di contatto diretto tra il nostro essere corpo  e la natura di cui siamo parte e in cui siamo immersi. “Alluci” è anche l’esca lessicale che attira e afferra lembi di memoria ancora informi e comincia a significarli. Se anche “scalzi”, diventano preciso riferimento alla sensibilità percettiva ed emozionale dell’essere umano, la quale indica e introduce subito la dimensione specifica delle esperienze aurorali, quelle dell’infanzia.

Tutti i componimenti della raccolta sono abbracciati vigorosamente a quella memoria attiva e particolare. Essa consente di conservare e rendere visivamente percettibile e istantanea l’attualità (consegnata al presente indicativo dei verbi) di quell’ antico vivere  e anche di combinarla costantemente con l’attuale matura dimensione esperienziale. 
Postilla In questo testo la bambina che ero viene suscitata con la comitiva dei coetanei, quasi a incosciente contrasto con i reperti, l'erma e le stele del fusto eretti a memoria. Ma si chiude con la critica non troppo velata alla scuola e alla stampa, complici della naturale ignoranza dei giovani. (B.M.)


domenica 9 dicembre 2018

Erma - in Tra fori di senso - Bianca Mannu

Erma



Come un’erma bifronte
 fai già parte del mito

- de materializzato

E qui dove io sto – qui tu compari
senza restare – qui - dove a dirotto piove
Qui il mare è solo un fiume grigio
Su questa traccia oppressa dalle nuvole
-simili a scarabocchi mobili-
uccelli di palude cercano il vento
tra i rari singulti della pioggia

Taluni miei pensieri
e certe immagini tue
si tengono per mano
senza volersi bene

Attraversano la mia abitudine
- oggi così sapida di fango -
da passeggeri ordinari
serrati
nei loro vestimenti scoloriti
per l’uso e l’abuso della mala ora
Scontano in spettrale pacatezza
la condanna per frode alla vita

Né fremono ai soprassalti d’acqua
sulla capote dell’auto parcheggiata

Come un guscio questa mi contiene
e chiude anche me nel qui stralunato
- rastremato in una quiete artificiale.

Me che niente aspetto - se non che spiova
e si plachi - nella ripresa del fare -
questa proiezione di ghiribizzi
e irragionevoli memorie di te -
che si spiaccicano e si deformano
fluendo - con le gocce - sul parabrise.

E qui
- davanti al mio sguardo erratico -
raccolte in rivi gonfi di mestizia
scivolano
come se l’acqua infetta
dei ricordi potesse  tramutarsi
in pianto irrefrenabile e puro

Un gelido umidore trapassa
con uno scatto - invece - le lamiere …

Ma io sto già
dove il sereno irrompe.

Talora il vissuto ritorna come un rimorso. 

giovedì 29 novembre 2018

Pagine letterarie: Alieno

Pagine letterarie: Alieno: L’altro, che riempie lo spazio di un’assenza incontenibile di Bianca Mannu Di colpo. Come una traccia opaca nel flusso aurifero...

sabato 24 novembre 2018

Il verso alla solita storia - inedita di Bianca Mannu


Nota - Basta piangere o arrabbiarsi per l'ultimo bollettino di guerra sull'ultimo atto della tragedia femminile. Bisogna mettere a fuoco la costruzione psicologica e sociale che il patriarcato ancora imperante pratica sulle donne prima ancora che siano in culla. È il dispositivo del senso di sé che nell'umana femmina viene fabbricato ad hoc per garantire alla statuita preminenza intellettuale, sociale, teoretica, religiosa, estetica  dell'elemento maschile, col disegno nascosto di perpetuare il proprio potere e il controllo dei meccanismi sociali tramite le immagini dispari che ce ne facciamo, ma con l'aggiunta degli ostacoli oggettivi (proibizioni, esclusioni, ecc.)messi in atto in forma sistemica (cioè anonima, la quale gabella come naturale, congenito ciò che è un risultato sociale e storico) con l'alibi della protezione, della femminile minorità costitutiva e quant'altro

. Questa composizione, più ironica che "poetica", vuole ricordare a noi stesse, non il passato, ma quel presente sottotraccia che, come una scheda perforata, continua riprodurre atteggiamenti ancestrali a noi stesse invisibili. 
Ringrazio il sito su Google  che mi ha consentito l'uso delle immagini qui riprodotte.



 

Il verso alla solita storia 


Che cos’altro ti pare
rimanga da fare
per noi figlie sempre obbedienti
al femminino perentorio
fabbricato all’esterno
indi importato come  legge
del paterno romitorio.

Blandite e compresse – ci siamo
nell’ombra scaltrite
a sbirciare il fuori proibito
a decifrare di quello larvate lusinghe
impostate con fare furtivo
tra  usci  e persiane a posta dischiusi
per obblighi certi e sospettati usi
da parte di baldi e ribaldi signori
(brame da lupi sotto i mantelli)
già fideiussori per divino decreto
di fragili donne senza concetto.

Che cos’ altro resta da fare
a noi donne di poche letture
a noi segnate da mute sciagure
abbandonate nel tardo meriggio
piangenti e insonni sul gelido talamo
da galantuomini di dubbio lignaggio?


Che cos’ altro resta da fare
nell’abbuiato vuoto del calamo  
se non tuttavia sospirare
temerari innamoramenti
o pure – a consolo - rivisitare
immaginari  amorosi colloqui
rimasti a mezzo –
materia d’accorati soliloqui ?
                 
Che cos’altro ci resta da fare
se non registrare il turpe viraggio
del reo tempo sugli occhi e sul viso
dove avvizzisce l’antico sorriso?

Che cos’altro resta da fare
dopo l’amore  voltato in dovere
dopo i bambini da partorire
dopo le pappe da confezionare
dopo le febbri da curare
appresso agli infanti da sorvegliare
agli scolari con cui compitare
e alla morale da impartire –
insostituibile vicaria fedele
dell’ostinata griffa patriarcale?

Resta forse un pezzo di vita:
esser presenti al finale di partita.
Avendo vissuto – o donna oscura -
l’altrui vita per procura
da protagonista or puoi recitare
il tuo atto unico di grande  bravura
 e ancor prima del tuo requie
disporre per altri funebri esequie.

Se sul finire del tuo tragitto
 ti resta un raggio d’intelletto
puoi tracciare un rigo netto
e segnare in verbo asciutto
d’avere fatto quasi tutto:
ma negli annali della Storia
di te ben poco resta in memoria.

Dicendoti donna fedele e modesta
la tua legge è rimasta questa:
in prima istanza la famiglia
con la carriera del marito
fonte di grano concupito.
Il matrimonio della figlia
è una meta e l’occasione
di alzare l’asta della magione.
La politica e la burocrazia
son per il pargolo la giusta via.

Facesti sine dolo professione
di un impiego senza passione:
importante era la babypensione.
Se tutto questo non s’è realizzato
se da pulzella hai veleggiato
puoi trasporre in liberi versi
gli amori ardenti dei giorni persi

Ma quivi giunta forse la vita
ti regala stizzoso un prurito
di celebrarti con lo scritto
poiché bazzicasti a lungo la scuola
e sai compitare qualche parola

Lo scritto in versi l’avevi nel sangue
il tema è pronto e da tempo langue
nel tuo diario dove – ibernato -
giace il tuo cuore innamorato.

Innamorato e di nuovo  fremente
per quel giovane avvenente
che  imperversò nella tua vita
lasciandoti sola e impoverita.
Se ancora vivo e con l’aterosclerosi
non può godersi l’apoteosi.


martedì 20 novembre 2018

INCOMPIUTA - Quot dies (poesie) Bianca Mannu



Ci sono me
come chiodi aguzzi.
S’insinuano
tra pelle e pelle  ….            e l’offesa sopravvive,
                                                           sopravvive alla durata.
Ci sono me
già iridescenti.
Sgranano sfere
di molle opacità:
me conchiusi, …                 cuscinetti per spilli,
                                                           senza germe di futuro.
Ci sono me,
ponti di filigrana
rampanti verso …
… sponde sognate :                                   tenui contorni
                                                           in dissolvenza.
Ci sono me;
neri tralicci,
irti, svettanti: …….                        irrisione incompiuta
                                                           alla fragilità del tempo.
Scarnificanti me
inastati         ……….           alle garitte del cuore
e me stillanti          
vischiosa linfa                     di spazio liquefatto.

Me abortiti
che      …….                                      l’insonne notte
                                                           ha raggelato e roso
                                                           in frammenti inutili.
Magmatici me
che      …….                                      insipienza d’alba
                                                           rapprende intorno
                                                           a occhiaie illividite.
Ma poi verrà
quel me ……….                              inenarrabile forma
                                                           di confitta certezza
                                                           nelle carni dell’alea.
Del suo compimento
narrerò …                                        in una prossima vita?
 




Nota- Le immagini sono opera di due artisti amici: L'incompiuta in alto (ovvero giorno e notte) è di Salvatore Piras. Foto in basso: ritratti (mostra del 2005) sono sculture di Liliana Corona. Ringrazio i due Autori. BM

domenica 4 novembre 2018

DA NONNA ANNETTA – romanzo di Bianca Mannu - dal cap.XIV - Ricordi di guerra


Ricuperato l’ultimo salario di “aiuto meccanico” nell’officina mineraria di Montopinosu, dove era tornato a lavorare dopo la smobilitazione, Alfano s’imbarcò come passeggero di terza classe su una vecchia nave a vapore in rotta per Napoli. 

La camerata di terza puzzava quasi come quella tradotta militare che arrivava dal fronte alle retrovie, quando lui era soldato. E così si ritrovò in quei paraggi, in un tempo che all’istante assumeva persino una maggiore concretezza del presente.
1916: chiamato alle armi allorché suo fratello maggiore Pietro compiva già un anno di permanenza sulla linea del fronte. Egli, invece, era stato destinato ad espletare il servizio - temporaneamente - come armaiolo nelle officine di riparazione dell’esercito, nelle retrovie. Naturalmente si era rallegrato. Però a ogni quindicina si aspettava di essere inviato a fare il proprio turno in trincea. Niente. Lo lasciavano a fare il soldato meccanico e ad attendere col fiato sospeso il peggio. Il peggio restava sensibile e imminente a qualche decina di chilometri. Lontano e vicinissimo il fronte incombeva: i bengala, i cannoneggiamenti, l’incessante crepitio delle mitraglie, gli srapnels, gli incomprensibili silenzi, lo stillicidio delle notizie, i reduci dell’ultimo turno … Senza poter scampare ogni volta a uno sconvolgimento momentaneo dei visceri.
Il peggio era là tra il fango e la roccia, dove suo fratello Pietro lasciava incompiuta l’ultima sua corsa al lume della baionetta … Là dove, praticamente imberbe, sopraggiungeva, terzo della famiglia e tardo irredentista, Valerio.
Va’, imbecille. Così impari!” aveva esclamato mentalmente Alfano immaginando una discussione impossibile. E s’era chiuso nella pellegrina, rigido e cupo per il suo turno di guardia.
Il freddo del primo autunno irrigidiva i piedi dentro le scarpe bullonate, d’un cuoio sospetto. 
Lui non si rallegrava, ma neppure sputava in faccia alla propria sorte. Ascoltava il sordo tambureggiare della notte.
Al campo erano entrate in circolazione voci che i tedeschi stavano facendo come i russi l’anno avanti. Ma adesso la notizia tornava comoda.
I Comandi pompavano per una grande offensiva. La guerra sembrava non voler finire mai. Non se ne poteva più!
La notizia dell’armistizio giunse quasi di colpo. Chi non se ne sarebbe rallegrato? Ma l’esultanza di Alfano s’era subito rintuzzata, perché un dispaccio lo aveva informato che suo fratello Valerio, si stava spegnendo per un’infezione di tifo petecchiale nell’ospedale militare di Vicenza. E allora Alfano, in attesa della smobilitazione, aveva chiesto e ottenuto licenza per andare a visitarlo.
Il treno era pieno di soldati. Alcuni facevano capannello: parlavano del ritorno e degli eventi politici, altri cantavano, altri ancora raccontavano storielle salaci, ridevano rumorosamente incrociando battute nei dialetti più diversi. Altri, persi in un sonno duro, s’ abbandonavano agli scotimenti del treno come sacchi semivuoti. Lui aveva la gola secca e si sforzava di non pensare.
Adesso invece ricordava e pensava, sorreggendosi al parapetto del ponte di coperta del vecchio Partenope. E ogni momento che viveva gliene rammentava un altro, per analogia, per discordanza, per risveglio di un’impressione sensoriale perduta, di un’emozione sopita. 
Un pensiero ispessito - da adulto - che percorre e precorre tutte le direzioni del tempo e può contenere tutti gli spazi concepibili. E poiché certi orrori la vita glieli aveva risparmiati, si sentiva adulto, quale in effetti era, ma integro, e perciò libero di sostenere il proprio sguardo interiore senza provare raccapriccio, ma sapendo che l’eventuale incontro con l’orrore lo riguardava comunque, in quanto uomo.
Eppure, ora che una concreta speranza e un ragionato entusiasmo sembravano sostenerlo verso un nuovo inizio, ebbe un sussulto di pessimismo. Come se ogni schiarita fosse niente più che il segnale d’una imminente perturbazione d’imprecisabile entità. Che cosa attendersi? Da se stesso? Dal caso? Dal mondo?
Dalla Russia e dalla Germania continuavano a giungere notizie di grandi sommovimenti sociali che spingevano verso cambiamenti inediti. Avvertiva che tutto ciò, in qualche modo mediato, lo coinvolgeva. E, a giudicare dall’Italia, l’orizzonte s’approssimava ambiguo e turbato.
Ripercorrendo nel ricordo il tunnel delle interminabili notti trascorse al capezzale del fratello, a Vicenza, rivide - quasi riaffiorasse dagli abissi del mare - l’inconfondibile palpito di quegli occhi semivuoti nel riacchiappare al volo la vita. Così aveva capito che Valerio sarebbe vissuto. E in quella, la vecchia rabbia rimastagli pietrificata nel cuore per la morte del fratello Pietro (“inutile eroe” della presa della Bainsizza) si era sciolta di colpo in un pianto irrefrenabile.
“Il peggio, benché non abbia un fine, ha tuttavia una fine!” si disse, e si ripensò nell’atto di sorreggere il corpo emaciato di un Valerio redivivo mentre scendevano la scaletta d’uno sgangherato piroscafo che riconduceva i reduci sardi dalla penisola al porto di Cagliari. Era quasi Natale e l’odore dei corpi nella camerata strapiena assomigliava terribilmente a quell’altro. Però si tornava a casa!
Erano trascorsi quasi tre anni, da allora. Valerio non era più irredentista e neppure “ardito”. E con Alfano aveva preso a ragionare su quelle poche oscure notizie dei sovieti e delle rivoluzioni finite male. Partito Alfano, si sarebbe sentito un po’ perso. Avrebbe sposato quella testolina vana di Zita, sorella di Cristoforo, avrebbe lavorato in falegnameria e una sera su due sarebbe andato in casino a farsi una prostituta, a ubriacarsi e a parlar male dei fascisti arroganti.
“Si caccerà nella bocca del lupo e le buscherà” rifletté Alfano, pensando al modo con cui montavano la rabbia e l’aggressività fra le fazioni, anche in Sardegna. Ma il pensiero aveva un’aria fastidiosa e lo cacciò. “È mai possibile che le vecchie bagnarole non siano mai poste in disarmo?” si raccontò volubilmente affacciandosi sottocoperta. Questa volta risalì precipitosamente sul ponte, quasi rallegrandosi della propria ventura e acconciandosi a passare la notte col naso al vento, intanto che con l’alba spuntasse il profilo del Vesuvio. Solo che il mare divenne grosso e il viaggio si  protrasse di due interminabili giorni. Il bastimento cigolava e cigolava come una vecchia carrucola ai colpi di maretta. L’umidità e il vento gelavano il corpo dentro i panni che s’irrigidivano. Pertanto si era dovuto rassegnare alla camerata.
 
Nota - A parte i nomi di fantasia, i ricordi sono quelli autentici che mio padre - reduce della Grande Guerra e operaio metalmeccanico, migrante dalla Sardegna verso i centri industriali del continente, (da Napoli a Genova a Torino) - narrava a noi figlie curiose ... 
Anni 1920-30: l'Italia diventava fascista,  lui, no. Anzi,  sospettato dagli scherani locali 
Ammalatosi e impedito di lavorare, fu costretto a tornare in Sardegna e spendere in un colpo solo tutti i risparmi per curare una pleurite che lo stava uccidendo. Palesò la sua fede antifascista e abbandonò perciò il lavoro presso le industrie fascisticizzate.(B. M.)