mercoledì 13 luglio 2016

Su "GLI ANNI DEI SOGNI BREVI" di Franco Pagnotta

Impressioni di Bianca Mannu

Comincia con il bel titolo che picchia sull’immaginazione e allusivamente anticipa la durata e la costanza di un accadere grafito sulle pagine, continua con la nota preliminare di Mimmo Cangemi quasi prologo e anticipazione che sembra far corpo con il seguito. Dichiarandosi compagno dell’Autore per età, esperienze e contesto, Cangemi asserisce di ritrovare la sua storia nelle pagine del libro e intanto, dissimulata nell’onda affettiva della comunanza, sembra porgere una chiave di lettura dell’opera alludendo a certa  sua marca realistica. Infatti attribuisce all’opera di Pagnotta il valore di testimonianza diretta,  d’inoppugnabile e raro documento di un mondo soppiantato da un altro, vincente perché seduttivo, ma amorale, superficiale, veloce e smemorato.
Intanto l’Autore, findall’esordio è già tutto dentro il suo luogo e il suo tempo primigenio, quieto paese di  poche anime con le “rughe” strette ( sarebbero “arrugas” per noi sardi) e le diverse loro animazioni secondo il levare e declinare del sole: paese-mondo.
Capitolo dopo capitolo, ciascuno contrassegnato o annunciato da un motto allusivo o immaginifico, si srotolano le figure mobili di un arazzo che emana suoni, odori, che si illumina colorandosi o mimetizzandosi nella tinta prevalente d’un sentimento percepito come corale, si abbuia popolandosi di bisbigli e di ombre.
 Instaura un tempo lento la scrittura di Franco Pagnotta, tale che le sue scansioni, malgrado il comparire e lo scomparire delle figure, persino drammatico ma senza drammaturgia, sembra non alterare una sorta di fissità da presepe, notturno, diurno, con neve, con pioggia, con sole… Gli interni sono volteggi d’ombre: mani, fronti, sagome chiuse in atti semplici e insieme contegnosi, umide luci di occhi al tremolio di candele. In questo durare del vivere nella bolla allucinata del borgo contadino, nondimeno si sogna: si sogna il buon raccolto che la grandine distrugge, si sogna la tavola imbandita abitualmente sguarnita, si sogna un giocattolo che resta appeso al cordino del giocattolaio, si sogna la pace e intanto si va in guerra o si scontano i suoi esiti, si sogna una vita lunga, per quanto difficile e duramente ripetitiva, ma da consumare con ostinazione nel cerchio familiare e nella relativa uguaglianza nella miseria dei compaesani e invece si muore da vivi nell’emigrazione.
A mano a mano che la memoria fluisce nella pacata discorsività della scrittura, avverti la sua cadenza di canto che si deposita come retaggio etico ed epico, preteso attestato di realtà, ma anche e sopra tutto condensato di valori assoluti e termine di confronto (però già ipostatizzato e perciò perso) con il mondo-altro che l’Autore evoca in allusioni fantasmatiche e negative,  quasi che un demone perverso l’abbia deposto e disposto alla distruzione del virtuoso, mite, benevolo e pacifico mondo dei cafoni, condannati, non si sa come né perché, alla loro insensata e fatale povertà.
Come poema - elaborato, articolato e passato attraverso il filtro personale, talora onirico, a tratti d’una intensità struggente, sempre nostalgico e mitopoietico - il testo si dipana e fluisce tramite un uso del linguaggio sorvegliatissimo e sapientemente modulato, che prende andamento pacato di magro fiume di piana a lambire atmosfere narrative e descrittive di densa tenerezza. 
Ma questa appena detta, che appare ed è una qualità della scrittura di Franco Pagnotta, a mano a mano che il tessuto dell’opera fluisce verso la chiusa, si aggruma talora in ridondanza sentimentale. Essa è poeticamente giustificata finché l’io narrante–poetante ricopre il ruolo di fanciullo ingenuo e sognatore, diventa astrazione ideologicamente sovradeterminata quando l’io poetico vestendo i panni dell’adulto giovane al compimento degli studi superiori compiuti fuoriborgo – lo si vedrebbe smaliziato circa l’interdipendenza delle disparità sociali  e dei loro differenti modelli culturali - sembri incapace di considerare realisticamente le sue esperienze, tanto da gettarle, quasi da ottuagenario, nel buio utero della più buia nostalgia.
Ci saremmo aspettati che l’Autore, pur salvando l’incanto degli
amorosi sensi  relativi al paesello, elaborasse narrativamente e poeticamente più mature e “pensate” relazioni socio-storiche  (e, lato sensu, politiche) che articolavano due realtà solo astrattamente antinomiche e contrapposte.
Ecco che il discorso, invece di asciugarsi in un quadro narrativamente e dialetticamente propenso a cogliere un minimo di oggettività,  si restringe quasi soffocato da un eccesso sentimentale con effetti distorcenti   che ledono la resa artistica. Il peso non sorvegliato dell’atteggiamento pre-giudicante combinato con le prescelte soluzioni formali azionate dall’enfasi affettiva, imprime al discorso una notevole divaricazione rispetto al contenuto  (condizioni reali e cause), posto in posizione recessiva, misconosciuto, quasi convitato spettrale al festino insistito dei sentimenti,  indicato come dato impenetrabile, mezza verità, bloccato rispetto alle sue spinte dinamiche (disagi, desideri, tensioni) verso l’incontro con la parola di verità, quanto si voglia partecipata e, narrativamente e/o poeticamente, risolta. 

giovedì 7 luglio 2016

ESISTENZE-INSISTENZE E STRASCICHI

 "Dettagli di un sorriso" .... Favola nera

Il processo di decodifica e interpretazione di un testo complesso, come quello di un romanzo, da parte di un lettore quasi comune quale io sono, non può dirsi compiuto in qualche giro di frase, anche perché la lettura effettuata continua a frugare il sottofondo esperienziale, culturale, il sistema concettuale e immaginativo del lettore che interroga il testo e se stesso per suo tramite.
 Ma io non avrei scritto ciò che ho scritto e sto per scrivere se non fosse nato un colloquio con l'Autore, il più bello e interessante che  io abbia vissuto in tanti anni di scrittura e frequentazioni fb, ma anche di discreta partecipazione in corpore agli incontri letterari, da cui qualcosa ho desunto.
Per esempio che la platea dei lettori è, non solo, ridotta rispetto alle potenzialità numeriche e alla diffusione delle competenze strumentali, ma superficiale, fissata sul “mi piace” o “salta”, come su fb, o sull’applauso che non viene negato a nessuno, qualunque cosa presenti o legga.
 Gran parte del pubblico legge narrativa con lo stesso atteggiamento con cui consuma hotdog da Mc Donald’s: riempie un vuoto, il vuoto di un momento, che poco dopo si manifesterà come bisogno di acquisizione o di consumazione di qualcos’altro, con esito simile al precedente, a meno che il vuoto dell’animo e quello fisico non venga temporaneamente riempito da alcunché somigli a uno spettacolo, dove ognuno diventa volta a volta attore e pubblico, celebra la voglia di esibizione egotistica o gode di riflesso per quella altrui; e brucia così un pezzo del suo tempo di vita, divenendo “oggetto che gode”: pancia, stomaco, solletico del corpo tramite le facili sinapsi sottocorticali, mentre fuori da questo alveo è noia, è palla, è costrizione dentro il tempo lungo della fatica o del doversi incontrare col proprio sé ignoto che guarda, dunque è inferno da cui  velocemente cercare di uscire … Io mi spiego così, l’enorme platea dei lettori dei gossip: pessima letteratura adatta a stuzzicare curiosità viziose, a semplificare o a mettere in mora il pensiero razionale, a occupare il vuoto mentale.
Valdo, il protagonista del romanzo, malgrado il suo livello di istruzione, possiede in buona misura queste caratteristiche.  Per dirla in altro modo – ma non si può dire tutto subito -  tu, Gianni hai ritratto un personaggio la cui cultura, non solo non riesce a porlo a distanza critica dal reale e da se stesso, ma lo intrappola sempre più nel non senso, espropriandolo dell’inquietudine etica autentica, da ogni sentimento mansueto, da ogni appartenenza umana non abitata dalla ferocia e dal disprezzo.  
Se il tuo occhio e il tuo sentimento si è posato sullo spaccato di mondo dove ciò si verifica e ha permeato in profondità i legami sociali così da mutarli in cosa (potere, denaro,violenza e sopraffazione, inganno…), non è perché tu sei cattivo o mediocre scrittore, ma perché non ritenendo credibili e spendibili certi modelli di apologhi edificanti, per onestà intellettuale devi necessariamente incontrarti con i Valdo e i personaggi, meno carnei, di contorno,  perché sono tipici. Ma se singolarmente considerati sembrano mostri, lo sono solo in sottordine... Insomma non è Valdo il mostro, la mela marcia - benché lo sia come individuo di una morale assoluta - ma mostruoso  è il sistema che lo produce e ne alimenta nello stesso tempo la ferocia e la mancanza di ogni minima forma di empatia umana. E il sistema - che ne seleziona, per dir così, il genoma - si regge sul possesso, raggiunto non importa come: avere cose per avere signoria sugli umani, dominare su di essi o distruggerli, anche perché loro e il Valdo sono replicanti prodotti dalla stessa logica.
È  questo, credo, il materiale per la tua favola nera. Ma come per le favole che finiscono con i lupi che mangiano gli agnelli e dominano sulle pecore, non si dà catarsi etica né drammatica, perché l’istinto narrativo dell’Autore sa  che “a canzoni non si fan rivoluzioni”.  
Ma si può mettere in scena l’ironia amara, lo sproloquio etico consolatorio, le smargiassate e le sviolinate sentimentali per la musica, la passione strumentale e animalesca per le donne, le farneticazioni dove le aporie e gli ossimori sono la traduzione verbale degli scollamenti umani e sociali  e dell’orrore delittuoso stemperato dalla fragile consistenza  dei replicanti e dal fatto che la narrazione  si mantiene, e lo deve, sul piano favolistico e letterario da cui era partita.
Tu, questa mise en scène, riesci a sostenerla in modi che, insistendo sul regime da favola, attingono al tipo di disperazione che caratterizza certi personaggi beckettiani; riesci in alcuni tratti a dare flusso quasi di canto, di poesia, come già detto, alla sequela demenziale dei soliloqui e dei non-sens, così come risulta letterariamente interessante il calibro ben dosato dell’idioma malavitoso che punteggia dialoghi e progetti delinquenziali.    

martedì 5 luglio 2016

Bianca Mannu legge DETTAGLI DI UN SORRISO - romanzo di Gianni Zanata

Non conoscevo niente dell’Autore né delle sue opere. Ora che ne ho una in mano, so  ancora meno di entrambi e forse, a lettura compiuta, non saprò se mi mancava o no. Un incontro casuale, prima che col suo autore, con un suo romanzo: Dettagli di un sorriso. Un “noir”, dicono.
Gli incontri casuali riserbano sorprese, a volte negative, a volte solo piene di punti interrogativi, perché se non hai già pronto un protocollo per la schedatura, lo scritto permane in un limbo di quesiti e saltabecca da una casella a un’altra, finché l’oblio finirà per tingerlo di una patina neutra. Ma se scrivi le tue impressioni, impressioni senza pretese, positive o negative o incerte o ambivalenti, qualcosa del testo resterà scritta dentro di te. Quale migliore omaggio all’Autore, après tout!
Comincio, dunque, a leggere diligentemente una pagina dopo l’altra, galleggiando a pelo di discorso, fino a cogliere i segni di una geografia fisica che mi pare familiare e tuttavia aliena. Una fisicità che scorre in trasparenze discorsive contestuali, che io riscopro nella mia quotidiana esperienza come in un fondo irrisolto, che mi spinge  a frugare nei circuiti narrativi e lessicali altrui – e ciò va annoverato come  loro pregio –  quel mio fondo che mi elegge pianta straniera, mai acclimatata del tutto nella sola terra nativa, ospite ostica. Straniera e avventizia perenne,  annuso nella traspirazione di altri vegetali, locali o allogeni, i fumi delle mie vibrazioni respinte in una sorta di chimismo ancestrale.   
Il filo di Arianna per addentrarmi in questo libro dovrei cercarlo  raggomitolato nel titolo. Ma questa è una  tecnica di lettura che non mi si confà.
Nella tecnica compositiva del fumetto, la rappresentazione del dettaglio racconta più di tante parole e fornisce informazioni plastiche sulla psicologia e sullo stato emotivo dei personaggi. E a furia di dettagliare la presunta unità-identità individuale s’infrange talora irreversibilmente, perciò nel fumetto nessuno muore mai davvero. Il fumetto schizzofrenizza la presunta compattezza dell’altrettanto presunta realtà, assume il dettaglio a categoria esplicativa e/o motivazionale del tutto, rappresenta l’alterazione febbrile, il reale patologico. Il noir letterario corrisponderebbe a questo disegno. È a questo che il titolo,  Dettagli di un sorriso, vuole alludere? Forse.   
Comincio invece come lettore ingenuo e credo che solo strada facendo perderò, se la perderò, la mia ingenuità, vera o presunta che sia.
Ed ecco un, anzi il personaggio, Valdo, baldo e baldanzoso, tutto sciolto nella propria autocontemplazione attiva. Norman, di cognome, uomo del Nord e forse anche uomo di norma… Al tempo.
Un personaggio  alle prese con la propria schizofrenia. Giornalista sui generis, delinquente in subordine e serial killer, troneggia nel testo evocando figure di carta, spettri umani senza vapore di vita.
Se la racconta –il Valdo-io narrante - questa storia senza storia, da capocomico pressoché solitario in un proscenio deserto, intento a trascinare un vuoto di senso da capitolo a capitolo. D'altronde nella follia solipsista tutto si tiene, anche il tutto di niente: ciò che  è dato come la cifra dell’esistente e del pensiero che lo pensa. Questo inferisco.
Però, da delinquente colto, il Valdo tenta persino di connettere la sua vocazione criminale con un mitico e fumoso ritorno della rimossa ferita prodotta da violenza paterna. Ci fa sapere anche che lui opta per la parte femminile, per via del giusto omaggio alla posizione ideologica progressista, lui freddo carnefice di donne! Quasi ricupero atroce di uasiquel bimbo che anela a identificarsi con quello stesso padre feritore.
Il “Freud” semplificato funziona sempre come passe-par-tout dell’animo più oscuro. Almeno un po’ sembra fornire spiegazioni rapide  e razionali.  Poi, buio.
Ma il lato “bello” cioè “etico” del personaggio Valdo è questo: chiamarsi fuori dal suo atroce pantano e tratto tratto snocciolare, a se stesso e per noi,  le sue considerazioni morali  desunte, pare, dal suo tastare il polso alla “gente”, peraltro contumace, destinataria ipotetica e improbabile dei suoi motti.
Se l’intenzione dell’Autore  era  quella di scattare dei flash sul vuoto umano che l’individualismo culturale planetario introduce nella crosta carnea della socialità contemporanea, anche in quella isolana - solo apparentemente fissata in immaginari modelli  recessivi e rassicuranti - possiamo ammettere che vi sia riuscito. Ma a che prezzo! Al prezzo di sottrarre al lettore ogni lavoro dialettico diverso dalla meccanica che, repressa e autoalimentata, tracima verso la soluzione criminosa e la celebrazione egotistica.  Ma quale crimine, poi?  Si può dire crimine, e tremarne, se si continua a trafficare in un “verbale” annientamento di figurine di carta, silouettes senza carattere, macchine per giustificare un gesto che pretende di spendersi come definitivo, letale?  
Manca il racconto, non dico verosimile, ma quello dell’inquietudine, se non della lacerazione. Insomma l’Autore-Valdo se la racconta facile. Ma in qualche tratto la parola del soliloquio, usuale, reiterata, carica di assilli e allusioni, apre un proscenio onirico “alla Beckett”, da cui fuoriesce un flusso che, per la sua indifferenza logica, per l’escussione sequenziale e talora lucidamente demenziale di asserti e marcature macroscopiche, si apre a una sorta di poesia capace di sostenere ogni gratuità, oscurità, caduta di senso.
In fondo lo Scrittore lascia trapelare il sospetto che il dire e il fare narrati siano tutt’uno col farnetico del  protagonista e con la sua sterile ansia demiurgica e punitiva, quasi da giustiziere della notte, ma senza giustizia, senza parvenza d’amore, senza riscatto possibile e senza un vero suolo di gravità. Così la sua paura e lo scambiare una maschera accosciata sui gradini di una chiesa per il fantasma d’un idolo morto. Eccolo lì il Valdo, selvatico e/o dominatore, uomo-norma del suo cerebrale proscenio.
E lì il linguaggio ben padroneggiato dall’Autore, e venato d'ironia, si snoda veloce lungo una corsia che si staglia tra un buon italiano medio e l’inclinazione ben temperata in  direzione di uno slang malavitoso, in sintonia col tempestare delle musiche di “stretta osservanza jazz”, col fluire del whisky e dei suoi fumi, omaggio all’americanismo  culturale che si vende meglio del nostro vino.


giovedì 2 giugno 2016

Su Dove trasvola il falco - poesie di Bianca Mannu

Nota 
Parlare  della propria opera può suonare autoreferenziale, vanitoso. 
Riflettiamo un po'.  La poeta, ancor più del poeta, per la nota e non superata questione che una donna avrebbe ottenuto dalla natura qualche marcia in meno, deve superare più ostacoli per dimostrare, non solo che vale,  ma che esiste. Esistere per altri sembra la facile deduzione di una constatazione. E invece non è così. È  richiesto l'assenso di qualche autorevole testimone, meglio se di sesso maschile, il quale si faccia garante. Garante di che, poi?
Dunque supero questa questione rivendicando il diritto di essere madre di me stessa,  certificando la mia esistenza di poeta con l'esibizione della mia scrittura in righe corte e parlando di essa come mio modo di ospitare nel mio spazio interiore esseri e cose e trasformarli in enti comunicabili. Questi, se sono enti e non solo glifi sillabici, tornando all'esterno si trascinano qualcosa che è parte di me e che è irriducibile alla loro scarna natura, ammesso che esista una natura in sé delle cose e delle persone e non si dia, invece, un continuo processo relazionale che neppure la scrittura fissa per sempre. Anzi la scrittura  rimescola passato, presente, eventuale e inopinabile, sommuove anche scuotendole le cristallizzazioni culturali che tendono ad assolutizzarsi e, ripetendosi, a banalizzarsi.
In Dove trasvola il falco  il mio  discorso fa corpo col mio modo di vivere e di essere sarda, di sentirne la storia, di condividere le ansie e le fatiche delle nostre genti  senza compiacermi e specchiarmi in forme sentimentali declamatorie e dicendo no all'erotismo compiaciuto delle "cartoline"poetiche spesso taroccate, come le foto per risultare adescatrici nei confronti del turista. Oggi propongo in dono un riferimento paesaggistico rivissuto come leggenda.


I Sette Fratelli
 
Arcionati in cresta – sette!
Come i sette peccati capitali –
vicine le teste sul corto collo
a confabulare oscuramente
di orrende cose di terra e di mare.

Hanno – di fraterno –
la somiglianza petrosa
il profilo ferrigno
e lo stare prossimi e ingrugniti
come i giorni della settimana
cui s’è guastata la festa.

Di fraterno gli manca
l’invettiva l’avida mano
e il gesto assassino.

Fraternamente dividono
l’ossuta schiena d’una cavalcatura
che attende al passo le nubi
per fingere di galoppare
sopra gli argentei capricci

del mare.

venerdì 13 maggio 2016

Donna speciale - da Dove trasvola il Falco di Bianca Mannu



Donna speciale  (Brano)

Sono e non sono
quella qualunque donna speciale
che - come un'essenziale
 smarrita e ritrovata
tessera di puzzle -
s'incastona a perfezione
nel tuo quadro.
Per te forse sarei
e forse no - quella.
Ma di certo questa sono
che ti ha colto - mentre cerca -
a cercare turbato quel tu -
senso perduto della tua
contenta immagine
riflessa nello specchio del comò
della tua camera nuziale
 - ora deserta -

Era quel tu - che non dici scontato -
ma ch'era buono e ch'era così poco
che quasi tutto adesso pare
ché non c'è -
l'essere stesso del fervido calore
attribuito per torpidità
d'amore alla casa,
al buon cibo tenuto caldo
per l'Ulisse che ancora sei
- svagato e stanco per la corsa
dietro a Nereidi e Ciclopi
privi di mistero.
 
Era lei il cono di luce
acceso e in libera caduta
sulla tovaglia usuale
e sul tuo piatto solo.
E quella lei - aspettandoti -
il primigenio discorso
ritesseva nella mente -
ma a te davanti mancava
la via delle parole.
E per riscatto incrociava
- muta – il tuo sguardo.

Ed era la sua mano
- tra una posata e un piatto -
tenera e già antica
risaputa non poco
nel monito garbato
che posava sulla tua spalla
leggera e smemorata
il presagio segreto d'un tumulto

che - nell'assenza tua
da un sole all'altro –
cresceva indisturbato
nel cuore del tuo lembo
di creduta terraferma.

Lei - che in quella terra
stando quasi sola
più sola viaggiava
verso il nulla - in sé
portava innescata
quella miccia che forse
non sapendo divinava.
......................................

domenica 1 maggio 2016

Primo Maggio: dedico di Pablo Neruda ODE AL MURATORE TRANQUILLO








Il muratore
dispose
i mattoni.
Mescolò la calce, lavorò
con la sabbia.
Senza fretta, senza parole,
fece i suoi movimenti
erigendo la scala
livellando il cemento.
Lento andava e veniva
nel suo lavoro
e dalla sua mano
la materia cresceva.
La calce coprì i muri
un pilastro levò in alto
la sua nobiltà
e il tetto
frenò la furia
del sole esasperato.
Da un punto all’altro
andava
con mani tranquille il muratore
rimovendo materiali.
E alla fine
della settimana,
i pilastri,
l’arco,
figli della calce, della sabbia,
della saggezza e delle mani
inaugurarono la semplice saggezza
e la frescura.




domenica 24 aprile 2016

Dove trasvola il falco:Messaggi dagli "altrove" - Bianca Mannu

Premessa

" Messaggi dagli "altrove" è la seconda sezione della raccolta.  Che cosa sono gli "altrove"?
Non sono esattamente dei luoghi fisici, ma situazioni che ci relegano - momentaneamente -dalla esasperante connessione con il pubblico,  con il sociale quotidiano. Sono bensì parte, talora importante, del nostro "giorno per giorno", ma di cui sembra che non si possa andar "fieri". Perché essere fieri o sembrarlo è una delle occupazioni fondamentali per "vendersi bene", per essere in e non aut. 
Si può essere aut, dunque soli, dunque preoccupati, quando il nostro corpo si logora, manda segnali inquietanti e noi non siamo, non possiamo essere-sembrare compagnoni, ridanciani, animali da compagnia. E in quel caso intratteniamo persino speciali relazioni col senso della verità. E allora sì che diventiamo "scomodi", pericolosamente vicini al politicamente scorretto...
Si è aut quando chiamandoci fuori dalla folla, intercettiamo personaggi comuni che prendono rilevanza al nostro sguardo disincantato e indagatore. E allora scopriamo di far parte della serie, a tal punto che di ciascuno possiamo indovinare le sequenze che tengono dietro a un tic, a un motto, a un atteggiamento...
Si è aut quando la nostra sensibilità vive gli eventi naturali comuni come metafore del proprio scontento o della propria esaltazione. Si è aut perché abbiamo contratto il vizio di scrivere versi. Niente come scrivere e, ancor più, aver la fissa di scrivere versi, ti costringe a valutare il senso di ogni relazione e dunque a viverla e guardarla attraverso il fondo d'un bicchiere e sentirla come se si addossasse a tutti i tuoi orifizi della sensibilità...  
Beh, ecco qualche stralcio di alcune  composizioni. 


La piscina incantata

Sm … ar – smar …  ri – i … ta a a…
prima per sorte
e poi per scelta.
                                                
…Mi sono smarrita…
tra le radiografie
dove già sono scheletro.

…Mi sono smarrita…
tra le ricette crittografate
tra le «impegnative»
che sciupano
il tessuto sottile
dei miei contatti umani
che sfibrano
la mia esistenza sociale.

… Mi ero assopita …
tra le voci del corpo
come fossero liberi suoni
privi di destino e di scopo.
Ma erano oscuri richiami
trasfusi in un vento
oblioso e sicario.

Campane a martello
-idioma perduto-
traversano la mia storditezza.
Costretta.

All’ufficio protesti
riscuoto -con tassa di mora-
avvisi inerti e negletti.
M’imbatto nei miei malumori -
strinata e straniata in frammenti -
senza potermi incontrare.

Li bagno e li assemblo
con liquide liane
adoprando l’umore smorfioso
d’una piscina deserta...


 L ira - antiPoettica[1] - della sera 

La sera – questa sera –
ha messo su
un grugno ispido di vento.
Si è data in più
un ceffo da bandito.
E da dietro la schiera
dei cespugli ha inquisito
col suo fiato violento
gl’intrepidi sportivi della passeggiata.
“Nessuno – in serata –
si professi innocente!
Siano i venti a concerto!

Che questa gente
torni al suo coperto
per levarsi i bruscoli dagli occhi
e – se li ha – dalla testa i pidocchi.
I pochi - colti in flagranza di cernecchi-
ricorrano all’uso degli specchi
appesi alla parete dell’ingresso
per non spaventare
i pantofolai che stanno al cesso -
per non turbare
i saggi abitatori di poltrone
sistematicamente - e non per caso -
intenti a scaccolarsi il naso
davanti alla televisione.
 
Invece fidanzati e affini –
quelli che non piangono bambini -
sono autorizzati temporaneamente
- occupando panchine o sedili –
a stropicciarsi reciprocamente…
                                                                                                         

E resto là : un calamo
al confine incandescente dello stagno
dove cola insonoro il sangue
d’un sole guasto che si svena.

Là – dove a occhio nudo c’è vita
che impura s’altera e rinasce -
anche il torrente meridiano
di certe mie indicibili visioni
sfocia e – come in un grembo -
si raccoglie a lievitare.






[1] Gioco di parole con cui si allude all’umore (l’ira) e alle sonorità dell’ora, ma anche, tanto all’antipoeticità dei temi del testo quanto al nome proprio, «Poetto», del lungomare e della spiaggia di Cagliari e di Quartu Sant’Elena. N. d’A. 

<a href="http://www.net-parade.it/risorse/registrazione_motori"><img alt="motori di ricerca" src="http://tools.net-parade.it/images/bottone.gif" style="border:0px"></a>

mercoledì 13 aprile 2016

Minuscola riflessione umana e politica: è morto un uomo.

Mi concedo un piccolo intervallo, non letterario, di riflessione umana e politica in senso lato.
È morto un uomo che senza dubbio ha avuto un'inedita parte nella vita politica italiana e in un modo assolutamente singolare: forse mosso da un impulso etico politico, ha guardato oltre la soglia della sua azienda (soglia informatica, peraltro, e  molto sintomatica),  ha "visto" le inquietudini e la possibilità di richiamare alla politica un'amplissima porzione della popolazione italiana che, espropriata e tradita dai partiti tradizionali, sembrava aver perso ogni possibilità di incidere positivamente nella vita e nelle scelte sociopolitiche del Paese.
Personalmente, sapendo poco e niente dei suoi fondatori, ho guardato con molta simpatia al sorgere e allo svilupparsi del M5S, ma essendo rimasta irrimediabilmente innamorata dell'analisi marxiana sul "Modo di produzione capitalistico" e degli sviluppi teorici che diversi studiosi - ahimè, poco letti - le hanno impresso, non mi sono sentita di abbracciare in senso totale  quella che io ritengo la "debolezza politica" del movimento stesso per mancanza di cultura teorico-politica. Ciò che tuttavia manca agli esponenti dei partiti tradizionali.
Detto questo, sia reso onore all'uomo Gianroberto Casaleggio per la sua insostituibile opera, per la sua sommessa generosità umana e sociale.
Ma ciò che ha motivato questa mia espressione è il moto di indignazione suscitato in me dai diversi "coccodrilli" televisivi, radiofonici, della stampa nei suoi confronti.
Mai animatore politico fu più silenzioso (e così è apparso) e mai fu più malignamente presentato e speso, mai così sprezzato, sbeffeggiato, ignorato... Ogni problema, ogni impasse che abbia segnato la vita del M5S gli fu attribuita come colpa.
Dove erano i suoi sedicenti amici ed estimatori postumi quando si vendeva la sua - ora ripescata - onestà  a un tanto al chilo? Perché i giornalisti, amici e non, hanno eluso in modi grevi il dovere di fornire una informazione più ragionata e politicamente complessa di questa personalità al popolo italiano? Perché solo ora, magari in attesa di eventuali (ghiotti) sbandamenti? 
Bianca Mannu

giovedì 7 aprile 2016

Nozze da Sogno (drag and drop)- da DOVE TRASVOLA IL FALCO di B. Mannu - Edizioni Thoth




 Offro in lettura un brano di NOZZE DA SOGNO, dalla sezione Donne e madonne della silloge DOVE TRASVOLA IL FALCO, p.38. È un apologo in versi (circa 114) che allegorizza certi aspetti della condizione psicologica femminile nell’Occidente evoluto, così come viene 
stimolata e controllata dai grandi comunicatori, i quali in modo impersonale e culturalmente organico al sistema economico-politico vigente, canalizzano non solo bisogni, gusti e desideri di cose da parte degli individui, ma costruiscono veri e propri modelli di comportamento e di autopercezione del sé profondo, a cui il soggetto viene chiamato a corrispondere per sentirsi persona. In particolare ci si rivolge al femminile, da sempre assoggettato e assoggettabile alla preminenza del modello sociale patriarcale. Questa manipolazione, con partecipata complicità (parzialmente conscia), serve al coronamento della visione ideologica del mondo attuale, e fornisce l’immagine riposante di una piena realizzazione della libertà e dell’autorealizzazione personale. Ciò che è invece falso e riguarda forse, ma con forti condizionamenti problematici, una schiera esigua di privilegiati.
 
Nozze da sogno (drag and drop)
Nozze da sogno!-
reclama il deretano del bus
che t’impegna la carreggiata
Per questo solo cenno e ben poco di più
trasbordi imbambolata
dal retro del tuo parabrezza
quasi dentro l’immagine gridata
È il richiamo d’una fotografia da studio
che s’accompagna a una banale surah:
“Nozze da sogno”   - insiste

Ti dici che la ignori e invece
ti s’impone - ti fa da orizzonte –
occhieggia – cazzeggia –
t’avvolge e coinvolge
nel tripudio dei suoi fiori finti –
fiori d’arancio e giacinti
rose bianche e sanguigne –
pulsanti
al riverbero dei catarifrangenti
tra le occhiatine
dei semafori ruffiani
e gli sfiati dei freni
Tu fremi
e inutilmente premi
sull’acceleratore

Ma t’impedisce il bus 
di colpo in sosta forzata
per avere agganciato
col retrovisore
tutto intero il bucato
steso di contrabbando
tra una finestra e l’altra
di un piccolo ammezzato
Si sacramenta da quel deflettore
a un altro - in omaggio
allo stile stradale  del momento -
e intanto
l’autobus ha svoltato.

Invece lei –l’ectoplasma della foto –
ha preso esistenza d’anima
insiste ed esiste dentro la tua retina
perché tu possa giocare alla fiaba
di quell’ Addormentata 
-Sì. Ma fino al prossimo stop?

- Forse  Vedrò.
.....................................
Nota:*Anche gli aspetti marginali della cronaca politica di questi giorni (aspetti gossip) ci raccontano l’orrore del ruolo femminile in prossimità col potere!*
 Il sottotitolo dell’apologo fa ironicamente riferimento, tanto alla pratica del copia e incolla, invalsa nel paesaggio informatico sempre più abitato e ambiguo, quanto alla penetrazione subliminale degli imput ideologici e psicologici (oltre che rozzamente commerciali) che la rete ricicla acriticamente fino alla noia, fra i quali primeggia l’idea (non vera) della raggiunta condizione paritaria dei generi e altre idee, archiviate sotto il nome di “valori”, a cui non corrisponde nessuna reale prassi.
Sono sarda e abito in Sardegna.  In quanto isola questo luogo è un crocevia di situazioni aporetiche socialmente penalizzanti, dove si intersecano affermazioni miopi, per non dire reazionarie in materia di politica e amministrazione, dove tesi contradditorie e conflitti reali  pulsano paralleli, dove la povertà divide in gruppetti contrapposti le popolazioni e uccide la voglia di informazione e di lettura, dove si è paurosamente abbassato il livello delle competenze intellettuali fra i giovani e dove si coltivano nostalgie per un passato che non fu mai il regno della nostra identità isolana, caso mai quello del nostro asservimento o della nostra passività.
Qualcuno potrebbe chiedermi: “ Ma tu scrivi versi a tesi?”
La mia risposta è no. Scrivo per un bisogno interiore, per trovare senso, per fare e farmi domande e per offrirmi… chi sa? una cima a cui annodare qualche possibilità di riflessione e colloquio con altri da me.  Non vivo rintanata nel mio stomaco e neppure nei miei personali affetti. B. Mannu