martedì 18 settembre 2018

GLI ADOLESCENTI (ma non solo) E LA RETE - di Bianca Mannu


Che differenza c’è tra i recenti fatti clamorosi e tragici avvenuti in riferimento alla Rete e altri giovanili ugualmente clamorosi e tragici, non immediatamente collegabili ad essa?
Nessuna che sia fondamentale, secondo me, se ci si colloca a debita distanza dei pur facili psicologismi. La motivazione sottesa ai comportamenti con esiti luttuosi sembra quella determinata dall’impulso a imitare un gesto inusuale, proibitivo (espressione di una sorta di volontà di potenza), unita alla pressante attrazione per la visibilità connotante(narcisismo secondario), la più ampia possibile, agli occhi del gruppo di riferimento (social, gruppi locali)  e a quello più vasto dei coetanei affacciati sui vari portali (Rete). 
 Inserirei in questo contesto anche le più inquietanti e deleterie attività delle baby gang che sono mosse da intenti di stampo mafioso, ma ben più pericolosamente collegate con le attività delinquenziali omologhe di gruppi adulti.
Nel caso di queste ultime la società reagisce in modo autoritario, valuta la possibilità educativa o rieducativa coercitiva, si appella al volontariato (insegnanti di strada, associazioni sportive, ecc.), considera  problematicamente precoci trapianti familiari, poi dimentica il problema, in quanto eclissato da altri e tale che l’organizzazione politico-sociale esistente risulta, rispetto ad esso, del tutto impotente, come se quei criminali in erba fossero “i vuoti a perdere”, posti tacitamente nel conto delle spese ascrivibili al meccanico processo di riproduzione sociale.
Apparentemente diversa è la risposta, diciamo, collettiva, verso i casi singoli indicati nei media (il ragazzo che si soffoca, l’altro che s’è giocato la vita per un selfie, altri che hanno voluto provare altre orribili gioie) … Casi che, a mio avviso,hanno qualche caratteristica comune anche con il più diffuso bullismo adolescenziale.
Questo, com’è noto, prospera anche fra soggetti “di buona famiglia”. Già: è questo tratto che ci sconvolge tutti: com’è possibile che fanciulli ben allevati e ben educati in case confortevoli creino situazioni di grave complicazione per sé e per altri, con conseguenze spesso irreversibili? Che ne è dei nostri “valori”?
Nell’urgenza dell’emozione, nel desiderio apotropaico di scongiurare  ulteriori imitazioni e contagi, nel bisogno di dare un nome alle presunte o probabili cause, ci interroghiamo e sollecitiamo responsi dagli esperti.
È colpa della Rete? La Rete è un mezzo, si dice. Essa è, come tale, un mezzo pressoché neutro rispetto alle nostre scelte. Da ciò deriva che servirsi di essa in modo accettabile implica un lavoro educativo a monte sui soggetti che ne fanno maggior uso. E qui si va a scoprire un’ampia platea di adulti  che, una volta superati gli scogli tecnici iniziali, resta completamente irretita dalle suggestioni della Rete e dimostra una straordinaria debolezza nei confronti di ciò che vi scorre, al punto che troppi padri e madri si smarriscono volentieri nei suoi vicoli, vi istituiscono relazioni fasulle e vi “guadagnano” incautamente insperati revival adolescenziali e persino esiti di sconcertante puerilità e pericolosità, ivi compreso il bullismo adulto, pedagogicamente produttivo, appunto.   
Salta fuori che l’insopprimibile problematicità della fase adolescenziale, col suo
corredo di incertezze dell’io,  trova sponda in uno spaesamento più generale.
Ne nasce uno sciame di inchieste, tavole rotonde, trasmissioni e discussioni, anche in Rete, che immancabilmente sfociano nel richiamo a un “dover essere” opinabile, debole.  
I primi agenti della socializzazione e inculturazione  richiamati al loro ruolo sono i genitori e la scuola rappresentata per lo più nella persona dei suoi docenti. Queste figure sono riproposte e vissute come l’origine dei problemi, in quanto depositari incapaci o renitenti al loro impegno educativo etico e forse sociale: sono colpevolmente superficiali, sono impreparati, sono egoisticamente presi dalle loro difficoltà personali e perciò non credibili come modelli di riferimento.
Analogamente, dei giovani si dice che sono al contempo soli (e vogliono essere tali rispetto agli agenti educativi visti come limitanti) e troppo subalterni ai giudizi e alle “ratio” dei gruppi di appartenenza diretta o in Rete, che sono dominati (come forse è normale che sia) dagli effetti ormonali (compreso il desiderio di essere considerati come pari agli adulti e forse di sopravanzarli in audacia), eccetera     
Nello sconcerto del momento si vanno a esaminare qua e ora gli stati evidenti delle relazioni interpersonali,quelle “calde” in abbandono,  e quelle “fredde”, telematiche, in progressiva diffusione, anche a causa del relativo isolamento individuale prodotto dal dislocamento territoriale dei cittadini dei grandi centri urbani e dalla rarefazione dei centri associativi giovanili gratuiti.
Molti sono i richiami etici ed educativi attivati in margine a tali fatti. Richiami certo
importanti  per acuire verso tali problemi la sensibilità sociale. E forse per circoscritte aree sociali funzionano, ma sono destinati a restare lettera morta per la generalità delle situazioni che li provocano. Perché la generalità (parola astratta che indica il sistema concreto di vivere e  di dividersi di una formazione sociale al proprio interno e verso altre) funziona in modo diverso da quanto dichiarano, per esempio, i sistemi valoriali conclamati dagli altari giuridici ed etico-politici, spesso richiamati e più spesso disattesi dai loro sacerdoti.
Si parla, per esempio, di ricupero educativo del valore della vita, quella vita propria o altrui facilmente posta in gioco da desideri di “godimento senza limiti” … Soffermiamoci un momento su questo lemma che ne richiama altri del tipo “emozioni senza eguali”…
Sono lemmi, eppure sono parole d’ordine interpretate in modi credibili da divi/e, scritte a mo’ di didascalie allusive di senso, come sottolineatura di rapidi ed eloquenti film apologetici che visivamente illustrano il godimento emotivo della libertà di lanciarsi a velocità fantastiche e spericolate, ma gioiose e fondate sulla certezza che il mezzo del lancio decide al nostro posto della nostra e altrui incolumità.
Sullo stesso piano di senso (demenziale!) viaggia la parola l’ordine per cui ci  si può connettere “senza limiti” con una platea imprecisata di persone , come se il tempo della vita propria e altrui fosse dissipabile in un “bavardage” infinito. E potrei continuare con infiniti esempi, dove la parola libertà viene imbastardita e ripetuta come sinonimo di poter fare ciò che si vuole in ogni momento, senza alcun riferimento al limite.
Provate a conteggiare quante volte il ragazzino, mollato sul divano di casa o affidato al rassicurante iphone, registrerà e connetterà in modo subliminale simili stupidaggini all’indeterminatezza dei propri desideri e fantasie gratuite, magari suggerite dalla noia infinita prodotta da tali comunicazioni.
Come potrà quello stesso ragazzino innamorarsi di una faticosa pagina scritta in una scalcagnata aula scolastica affollata di ragazzini altrettanto spiazzati dall’idea tutta nuova che non ci si può realmente appropriare di niente senza che si sia disposti a impegni ripetuti e pazienti?
- Ecco, direte voi, un esempio di genitore inadeguato!
Ben detto. Ma vi siete chiesti dove sia e che cosa faccia al momento quello stesso genitore? Forse frequenta un cantiere fantasma o una casa signorile da pulire o un magazzeno (se va bene!) per uno pseudo salario. E inoltre, c’è da chiedersi, si è mai impegnato il libero ordine sociale a far sì che quello stesso genitore possa contare sul supporto educativo perenne e diretto da parte di un’affidabile agenzia educativa gratuita per la propria prole? E ancora, vi siete chiesti se quel genitore poté fruire  di una formazione scolastica che abbia sviluppato in lui lo spirito di attenzione critica verso il senso di un’emissione  comunicativa o anche dell’emittente, tale da metterne in guardia i propri figli e abituarli a decodificare e distinguere?
Procedendo anche solo in direzione del senso di valore della vita , possiamo esimerci dall’interrogare i Gestori delle risorse  nelle vesti di privati, di gruppi padronali, persino di istituzioni deputate al controllo: che ne è di quel valore assoluto della vita di fronte al loro presupposto indicato come primario e assoluto: il perseguimento di profitto ad ogni costo?
Profitto realizzato anche col gioco alle scommesse sulla vita delle imprese, (leggi: Borsa Valori). Gioco che decide non che  la condizione sana della vita umana divenga termine primario, bensì che le pratiche produttive dannose alla vita della comunità umana hanno opzioni di favore perché lucrose. Gli esempi sono innumerevoli, ma filtrati dall’Informazione mondiale con pelosa cautela.
Cosa vado sostenendo, dunque? Non che la pubblicità o che l’imprenditoria in quanto tali siano da ritenere responsabili dei problemi …
Vado sostenendo che l’adolescente, bene educato o niente o male educato, intuisce la logica truffaldina che soggiace alle conclamate buone intenzioni valoriali, ma poi si butta nelle condizioni trovate nella vita e agisce a caso e sul momento, come ogni individuo forzato a disinteressarsi dell’altro, a porre se stesso, il proprio interesse immediato o il proprio non meditato piacere avanti a tutto, purtroppo nella maniera meno pensata che l’organizzazione sociale imprime in termini di anonimità fattuale, come un destino.       









lunedì 3 settembre 2018

Sarà l’alba … inedita di Bianca Mannu



Voglio sparare alla mia paura
colpirla al centro con l’acquisto …

Una Magnum adesso – pesante !-
corazza la pelle della mia paura

Il suo grugno vellica duro
il midollo del mio tremore
indicando l’impavida decisione dell’ impugnatura
che mi chiama allo specchio
perché io vi guardi – solido –
l’effigie stessa delle mia risolutezza
eretta a cippo della regola forte
del ferro e del paterno totem

Ora Lei sul comodino veglia 
- risolutamente tetragona e ferrigna –
l’arrivo e la durata (garantiti con l’acquisto)
del Mio Sonno regale

Intanto il mio me - incazzato fifone residuale –
allarga nottetempo  agli orecchi i padiglioni
fino a spiccare i bisbigli di finti tarli traditori
e certi passi felpati da bandito
sul prato connivente …

Forse il mio presunto amico Fido
si lascia subornare dalla polpetta
ammiccante da mano ignota
simile a quella che gli ho negato un giorno intero
per tenerlo vigile e pronto al latrato d’allarme
che squasserà il sonno Rem dei vicini
per scaraventarli brancicanti
verso la presa delle loro piccole Berette

Certamente la faccia nera d’un affamato ingordo
(sempre troppo nera o tinta d’empietà fosforescente)
ha ali enormi e un ventre immenso
nelle notti Rem - scure là fuori e fredde!-
dei regolari utenti dell’abbraccio di Morfeo

- Chi osa irrompere nella tardo-imperiale sonnolenza
 dei Giusti Cisalpini, Cispadani o figli di Partenos?

E ora qui - nell’immancabile cilecca
del quesito sospeso e senza ribattuta –
son mani destre, son le sinistre ad artigliare oggetti
che spennino la notte addormentata
perché sussulti e gridi
in uno scoppiettio  da film del Far West
sopra le sfumature di nero e i toni incerti
dei tratti dei periferici globali
sui cadaveri muti
e  sulle coscienze allucinate  

Sarà l’alba a dover guardare stordita
le tracce ingombranti delle sbornie
a sopportare il raccapriccio
che la lebbra eruttata dal sottosuolo
sulla pelle dell’anima  
strappa
alle sferzate della luce


Nota - Non abbiamo bisogno di armi per la difesa personale, non abbiamo bisogno di trasformare i nostri quartieri in trincee.   
  





sabato 18 agosto 2018

ISTRUZIONI AL DISUSO - inedita di Bianca Mannu

Nota di preambolo - Non è un testo d'occasione, ma dato il non casuale ripetersi di tragedie annunciate e i tentativi ben riusciti dell'ideologia dominante (questa, sì, continua a farsi valere) di consegnarci come gattini ciechi ad eventualità solo apparentemente bastarde, mi pare non blasfemo postare questa composizione, come mia partecipazione al lutto del mio disastrato paese.
 Aggiungo che nessuno in questi giorni ha fatto il minimo sforzo (o forse ha volontariamente praticato l'elusione) per richiamare un'altra immane tragedia a suo tempo annunciata: lo sfondamento della diga del Vajont del '63, in pieno e rampante miracolo economico. Anche le attuali inondazioni in Thailandia e Cambogia, con stragi di centinaia di persone, sembrano e non sono, fatalità. Mi verrebbe voglia di gridare:"Cari poeti, smettete di celebrare le poche aiole fiorite, ostentate nelle foto opportunamente ritoccate per gli ingenui, sgonfiatevi dell'enfasi, guardate  il mondo reale e seguite i fili che conducono alla logica che partorisce tali eventi, così che molti la riconoscano e la contestino!" (B. M.)


ISTRUZIONI al DISUSO           

Usare
un occhio solo per volta
un occhio solo
e l’altro a riposo – se da riserva insiste
Un occhio solo
strumento minimo: scatto per archivio
d’impronte piatte – geografia ignara 
di profondità di strati d’ombre

Una volta – forse pluriocchiuto – l’umano
guardava  nella lontananza
annidarsi semi di ferali evoluzioni …
… forse sbagliando vaticinava
e aguzzava i denti al tempo
per mordere con essi la carne del futuro
nel ventre del possibile

Compagno di strada il rischio
aizzava vista e veglie
E poi che pieno parve il morso
fu il calcolo innalzato a salvaguardia
dai rostri della cattiva sorte
L’umano troppo umano dispose storni
sui calcoli pregressi
volendo a piacere ritmare i casi

Smarrì in quella china il fiore suo:
quella memoria occhiuta
che trapassava pungendo con  il tempo
i nidi dello spazio e in guisa di lenzuoli
li sciorinava ai venti

Un occhio solo
scampato per  devozione delle superfici
vi guizza sopra mancando
d’indugiare su scabrosità di polveri:
morti compiute in assenza di pianto

Un occhio solo
aliterà dal suo cielo
sulle cisti di sequele viscerose
e forse abbasserà la palpebra
per mingere una lacrima meccanica
su scagliosi viraggi

Un occhio solo
e ogni alone scabroso vagherà misconosciuto
dispersi l’inquietudine e il sospetto
da cui poteva ungulata nascere l’idea …
Anche l’ombra d’un’ombra

dissipata

giovedì 9 agosto 2018

Liberi e personali arzigogoli sulla politica - Bianca Mannu



Il mio impatto con la politica italiana, mi manda periodicamente in apnea o mi agita come un vento improvviso. Sì, per quanto l’età e il contare niente mi consentano di assistere e ricordare. Smagata, sto sola e parlo con me stessa e con eventuali altri (immaginari!), del mondo che un poco so , quello politico che, pur ignorandomi, mi ha sempre trovata e variamente colpita, oltre che inquietata.
Mi viene da osservare che non c’è scampo dall’improvvisazione che alimenta l’elettoralismo, e da questo che la fomenta e la incalza. E va così, secondo me, dalla Bolognina in poi, anzi da prima: dalla proposta berlingueriana del Compromesso Storico, sfociato nella tragedia della lotta armata da cui si è usciti annichili per via di una sorta di sentimento di sospetto e di colpa diffusi, tali da indurre i partiti della sinistra a correre verso abiure di pancia e a inneggiare alla caduta del Muro, come se con quello fossero caduti tutti i muri, non solo fisici e ideologici, ma quelli sociali, razziali e politici, che invece si sono moltiplicati sfociando in una miriade di guerre. A un sonno della ragione se n’è subito sostituito un altro, per cui con l’acqua sicuramente inquinata delle piaghe ideologiche, specialmente quelle di stampo “sovietista” giudicate più pericolose, si è gettato via il nerbo della riflessione teorica sulle logiche di sistema e il patrimonio sociale e culturale che aveva animato la parte più nobile della lotta politica di base.  
Dopo, preceduto dall’edonismo reganiano, c’è stato in Italia l’intervallo fescenninico del Cav., che ha frullato con la sua non disinteressata munificenza molti cervelli ritenuti pensanti. E poi, com’è noto, L’Europa ha bruscamente suonato la fine della presunta “ricreazione”, ossia del welfare state, un lusso che avrebbe provocato l’indebitamento degli stati nazionali. (Chi sa mai perché, il pane che mangiano gli umani di ciurma è sempre quello che pesa troppo e mette in pericolo di naufragio il vascello!)
Ma la crisi sistemica mondiale (la famigerata tempesta senza autore o del dio impunemente accusato!)  aveva già fatto fluire i suoi veleni in tutte le direzioni mettendo in una condizione di difficoltà irreversibile i baluardi veri e finti delle economie e delle politiche nazionali,   innescando una lotta di tutti contro tutti (specialmente poveri contro più poveri) e favorendo aggregazioni economico-politiche tese a occupare tutti i ponti di comando e a comprimere, col terrorismo finanziario e la compressione dei diritti, le istanze di promozione sociale delle classi lavoratrici, deprimendone la capacità contrattuale e perfino il senso minimo di attività partecipativa al dibattito politico. Mi suona uniforme un coro:  le emittenti mediatiche nostrane hanno continuato a cantare inni di ottimismo intanto che il paese franava politicamente e moralmente.
La “gente” (Ecco, dai e dai, siamo divenuti una poltiglia irrisoria col nome dell’antico patriziato romano: gens!), la gente disertava le urne incoraggiata all’assenza quando conveniva al potere di turno. Tutto l’arco politico ripeteva il refrain: le democrazie, quelle vere, (prendi gli USA)  hanno flussi relativamente bassi; il 60% è fisiologico!
Così si è giunti al 40 e al 30% dell’oggi (fino al 4 marzo, poi, chi sa?). Come dire che la fisiologia si posizionava verso il vizio incurabile. Politicamente morti, socialmente zombi: le sensibilità sociali, compiacenti alla politica del disimpegno, erano scivolate nell’imbarbarimento individualista, agevolato anche dalla compressione delle spese per la sanità, la cultura (scuole di base comprese) e altri servizi essenziali.
Non bisogna dimenticare mai che l’intuizione di Beppe Grillo e del Casaleggio senior ha individuato nell’inquietudine sociale, suscettibile di andar fuori controllo, l’ansia di cambiamento di una moltitudine di persone, ha conferito parole ed esempi intuitivi al marasma sociale e l’ha convogliato in direzione di una formazione politica movimentista, cioè fluida e popolare (poi M5S) che riproponeva a individui isolati, confusi, depressi e arrabbiati l’incontro discussione con altri individui ugualmente inquieti, onde riscoprire sul campo della comunicazione di piazza la necessità di una ricostruzione del senso sociale dissipato e del necessario protagonismo popolare nelle decisioni politiche.
La base teorica del movimento - per la verità caliginosa - è trovata nel giusnaturalismo rousseauiano, secondo il quale lo stato di anomia naturale o quello attuale di ingiustizia e caos economico-sociale va superato con un nuovo patto sociale che conferisce cittadinanza all’individuo e sovranità al  popolo. Questo diventa soggetto e oggetto di azioni politiche dirette e sovrane, capaci di affrontare le richieste di giustizia distributiva dei beni prodotti e non soggiacere senza discutere ai dictat della compagine economica mondiale prevalente. L’impulso movimentista immediato nasce dall’insostenibilità delle condizioni sociali di fatto (l’avvilente e dilagante impoverimento), ma si chiarisce e si sostanzia nelle “assemblee di piazza” divenute crogiuolo di narrazioni critiche alternative alle narrazioni governative sostenute da interessi corruttivi evidenti e proliferanti, dunque sempre meno credibili, “astratte” rispetto ai bisogni oggettivi del corpo sociale.
L’emergere convulso delle reti corruttive faceva riemergere la Questione Morale di berlingueriana memoria, sulla cui scia molti ex elettori ed ex militanti delusi del PD renziano si sono orientati.  In effetti tale posizione suonava per certi versi simile alle tesi riformistiche del PD pre-renziano; ma esso si era mostrato  passatista e debole nei confronti dei poteri forti (leggi multinazionali e banche) e imbelle contro la corruzione. Infatti Grillo e il suo movimento ha avuto buon gioco nel rilevare a carico del PD le discrasie tra dichiarazioni e pratica politica, denunciandone – talora in modo teatrale – l’incapacità di prendere le distanze operative dagli arroccamenti di casta e la sua indulgenza per la pratica del “cerchiobottismo” dilazionatorio.
Va osservato che nella sua fase di crescita il M5S non ha esplicitato metodologicamente il sopra menzionato riferimento teorico. Anzi gli iniziatori del M5S, pur avendo ampiamente operato prelievi importanti da varie teorie (ricordo quanto dell’analisi marxiana delle merci fosse presente in certi discorsi  di Beppe Grillo e quanto leninismo[1] nel suo richiamare le folle disorganizzate al protagonismo politico!), si sono definiti post ideologici, cioè in posizione di superamento delle classiche categorie del posizionamento politico e, quando sollecitati, su ciò hanno costantemente insistito. Del resto in un’Italia ancora impregnata di edonismo berlusconiano e delle sue grida d’orrore per la presunta e larvale “infezione comunista”, bisognava rassicurare una folla composita, con idee e informazioni confuse, ma anche guardarsi da un sistema mediatico (con le eccezioni!) molto compromesso col liberismo economico-finanziario, propenso a pareggiare i propri conti con la ben tollerata e giustificata avidità capitalistica mediante lo sciorinamento  del manto morale (assai remunerante sotto profili diversi), utile per salvare il busines e il suo svincolato esercizio nel settore privato e, all’opposto,  puntare l’indice sulle esose guarentigie che “il politico” si assicurava nelle forme del privilegio, sia legalizzato che coperto,(cfr La casta e altro). Intanto, archiviata  in termini etico-giuridici la questione “mani pulite”, si seppelliva in un silenzio politico il lascito del perdurante modello democristiano all’interno del PD che, nella juissance dell’egemonia sulla sinistra morente  e strabica e  del potere di governo, di fatto scaricava sull’intero paese i costi della spartizione e dell’abbandono sociale. (Bisognerebbe rileggere gli Scritti corsari di P.P. Pasolini sulle responsabilità della DC e gli atteggiamenti del PCI sempre più corrivi alla deriva del sistema, per capire ciò che accade oggi.)
Come si siano distribuiti i flussi elettorali l’abbiamo saputo dopo il 4 marzo, ma abbiamo altresì constatato e capito che essi non sono omogenei ai riferimenti prescelti, che anzi i flussi in uscita producono forse lo stesso magma e le stesse problematiche ambivalenti e contraddittorie pre-elettorali, con l’aggravio delle reazioni particolaristiche dei sottogruppi.
Il forzoso contratto di governo tra M5S e Lega - tanto caldeggiato da una tifoseria mediatica ciarliera che ha ben soffiato sul disimpegno di quanto resta del PD - si rivela una gabbia da gestire faticosamente per gli impegni contrapposti che contiene e per il mare di problemi che premono dall’esterno del contratto stesso e che finiranno per imporsi. L’esito politico e la durata stessa del governo dipenderà da come si disporranno i rapporti di forza delle due componenti principali e dagli impatti oppositivi che produrranno negli agenti economici e sociali nazionali variamente sollecitati e compressi da un contesto politico mondiale ondivago e confuso, che risulta occupatissimo a organizzare politiche aggressive sia sul piano economico finanziario che sulla deterrenza militare: vedi le sanzioni economiche USA contro stati non allineati, vedi gli obblighi a sostegno delle spese militari, vedi l’indifferenza verso le sorti del pianeta e dei popoli su cui ricadono le conseguenze dell’incuria e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse, eccetera.  
Le convulsioni che si verificano in seguito alle prime azioni di governo mi pare siano sintomo e conseguenza di una carenza analitica del corpo sociale e anche dalla mancanza di una visione prospettica organica da parte di tutti gli attori vincitori o sconfitti. I problemi si sono accavallati in un settantennio di brancolamenti.  Ma, stando ai sondaggi, bisogna anche dire che un buon numero di italiani piegano sul più facile: cioè siano galvanizzati dalla retorica di Salvini. (A suo tempo furono galvanizzati da uno che strillava tanto, che si faceva chiamare Duce e li condusse alla rovina).      
La posizione salviniana si áncora su una sorta di nazionalismo con pronunciate venature etnocentriche e razziali, si vale di ciò che sopravvive della mitologia dei Lumbard, ma in una forma abbastanza larga da farci stare un’italianità generica, bonificata dai “terrun”  e altri appellativi politicamente scorretti che alienano voti. I toni tribunizi carezzano le illusioni popolaresche di una supremazia politica e sociale su altri gruppi. Una scaltra comunicazione propagandistica consegue la sua efficacia andandosi a combinare con l’ancestrale pregiudizio che i pericoli vengano da fuori, dai diversi in miseria, e che non il padre-padrone del capitale-despota si appropria del frutto del tuo lavoro, ma un altro paria come te, anzi più disgraziato di te.
È costui che mangia a ufo il tuo pane, vive nella “pacchia” del far niente, dell’avanzare richieste senza titoli di merito, mentre tu ti danni di fatica per avere il minimo. Tu sei cittadino, lui, no. Lingua, leggi, suolo, usi sono per noi.
I fatti recentissimi dicono in che cosa consiste il bengodi!
Così il detto “prima noi, prima gli italiani” diventa cristiano abbastanza per solleticare, coi bisogni compressi e politicamente inevasi,  il rifiuto dell’altro. Così incrementata, la litigiosità sociale porta buono all’autocrate o al gruppo di potere, perché lo esclude dalla contesa come terzo neutro, lo erge a giudice di eversori veri o presunti, amicandosene alcuni, stigmatizzandone altri, specialmente stranieri poveri o italiani di ultima classe come i Rom e i Gitani, per i quali resta in serbo la soluzione “ruspa”. Come non vergognarsi di certi atteggiamenti!
Il M5S ha una teoria politica ideologica che nega di avere, ed è quella sopra accennata, che trova fondamento nel popolo sovrano, considerato come unità indistinta sulla cui sovranità si conciliano o si possono conciliare tutti gli interessi nazionali. Ciò che poi risulta fuorviante in quanto la parola popolo è concettualmente ambigua, non meno della parola “gente”. Tuttavia bisogna dare atto al M5S di aver coraggiosamente accettato la sfida che la realtà politica dell’Italia gli ha posto davanti.
Le primissime esplorazioni dell’iniziatore del M5S, Beppe Grillo, contenevano diverse considerazioni di critica economico-sociale estrapolate dalla critica marxiana al sistema capitalistico: quella teoria critica, che era stata frettolosamente buttata via, con l’acqua sporca del Diamat staliniano insieme con le macerie del muro di Berlino, dai suoi epigoni e giovani colonnelli dello stesso PCI in sgretolamento; i quali confluirono  in ordine sparso nella strana fiumara raccogliticcia del Pds, poi DS e infine  PD che nulla seppe fare se non cedere il potere al paternalismo berlusconiano.
Ma l’urgenza di canalizzare un conflitto sociale che minacciava di degenerare,  faceva sì che si sorvolasse su poco comprensibili pregiudiziali ideologiche e ci si occupasse delle condizioni più diffuse ed evidenti, mettendo sul conto dell’allargamento della base sociale verso la critica politica non poche e ingenue semplificazioni.  A un’analisi scientifica approfondita   (che avrebbe richiesto una precisa scelta di campo da parte degli intellettuali, i quali invece erano entrati in massa a sostenere l’establishment, già fortemente compromesso in faccende giudiziarie e criticato da diverse inchieste giornalistiche) è andato sostituendosi un più vago assunto etico: il cittadino escluso dalle tutele dell’establishment è più vicino alla verità dei fatti, in quanto ne vive direttamente le conseguenze, è per la sua stessa condizione marginale, lontano dai giochi di potere, dunque è in linea generale onesto, ha un interesse diretto a partecipare al controllo delle scelte politiche sulla base di un’etica della legalità e della trasparenza.
Si torna all’idea piuttosto semplicistica che la così detta società civile sia “per natura” migliore dei suoi rappresentanti politici. Il riferimento a Rousseau mette a fondamento la natura presunta “schietta” del nuovo Emilio. Il suo autore prerivoluzionario, nell’ansia di salvarlo dall’afflato corruttivo della società vigente, lo deve isolare e quasi forgiarlo pezzo a pezzo: ma il risultato è un mite beota. Senza saperlo, Rousseau preconizzava la svolta tutt’altro che indolore della Rivoluzione del 1789 e di quelle borghesi seguenti che, come dovrebbe essere noto, aprivano la strada al capitalismo già  scalpitante nell’Inghilterra del 1760.
Per tornare all’attualità, abbiamo dovuto divenire consapevoli, nell’esplosione continua dei fatti, che la società civile rispecchia ed è rispecchiata dai suoi governanti. Che quindi il sistema va cambiato nei suoi fondamenti, ciò che in condizione di globalizzazione (internazionalizzazione dei sistemi malavitosi quasi in contiguità con i meccanismi così detti normali) non può essere operato efficacemente in ambito nazionale.
Occorre una Morale politica consapevole, non moralistica, e in continuo confronto con i meccanismi che presiedono alle ricadute sociali dei modi del potere economico e del potere ideologico nazionale e sovranazionale, i quali si combinano dando adito alla creazione granitica del senso comune corrente, indolente all’esercizio critico.
Forse il gruppo dirigente dei pentastellati sta imparando sul campo, e certo con batticuore e fatica, la tentacolare complessità, mettendo in campo una buona dose di volontarismo per resistere, non sempre efficacemente, alla deriva sovranista etnocentrica di Salvini. E perciò, forse senza raccontarselo, nella concitazione del decidere, operare e tentare di mediare,  va a scuola di leninismo, o dovrebbe - come giustamente osservò tempo fa Buttafuoco. Sospetto che circola e infiamma polemicamente competitori e avversari.
Ragione per cui il M5S dovrebbe costruirsi il nerbo teorico che gli consenta di resistere alla chimera dall’elettoralismo, malattia endemica della compagine democratica e dell’attuale partnership, e di servirsi  anche delle raffinatezze pedagogiche accessibili sul campo e renderle disponibili  per la ri-organizzazione culturale del Paese.
Che dire del PD?
Il PD ha vissuto indebitamente della fiducia dell’elettorato, acquisita nel periodo berlingueriano poi basculante su ideologismi da signore, pacioso, educato e distratto. Molta parte dei suoi iscritti ed elettori avevano nei suoi confronti un atteggiamento fideistico. Nonostante che il PD sia il prodotto della confluenza di spezzoni di formazioni politiche decotte, il nerbo della militanza di base rimaneva costituito dai comunisti e dai giovani della FGCI. E costoro, dopo la Bolognina e ancora dopo con L’Ulivo prodiano, erano ancora convinti che si fosse giunti sulla soglia dell’instaurazione di un socialismo democratico capace di mettere in piedi una graduale pacifica ripartizione delle ricchezze prodotte a beneficio delle classi lavoratrici più disagiate. Ma un sistema non muta per pelosissime concessioni parziali e divisive. In realtà il gruppo dirigente  si spostava ideologicamente verso le politiche liberiste, verso una concertazione sindacale sempre più disarticolata, verso lo spostamento delle risorse dal campo umano a quello del capitale.
Malgrado l’ansia e i dubbi che il dualismo attuale può suscitare, la dialettica sta all’opera nei fatti, tanto che persino un Marcucci può illudersi di gestirla con lo stile di pensiero che gli è proprio, e fa il paio con le uscite elettorali del Cav.
Che scuole di pensiero!
E adesso che i buoi sono usciti dal chiuso, forse i filosofi scriveranno e vorranno gestire LA NUOVA REPUBBLICA.   

















Pds = part.democ. della sinistra
D S = democratici di sinistra ingresso della Margheritta
PD = esclusione della sinistra
    



[1]Rammento l’osservazione di P. Buttafuoco, se non sbaglio  in prossimità delle elezioni politiche, con cui sollecitava, certo ironicamente, il M5S a continuare a prendere lezioni di leninismo. 

lunedì 30 luglio 2018

SUGGESTIONI MARINE di Bianca Mannu

 


Una lastra orizzontale dall’apparenza solida a fronte della cedevole resistenza  del suolo arenoso:  la civiltà rimane, anzi prosegue alle tue spalle la giaculatoria del suo insistere.
Il semaforo e quanto corre nel suo dominio è l’estuario dell’ultimo mezzo millennio. Te ne allontani con la fretta d’una scimmia perduta al branco, che la nuova goffaggine consegna a un andare da spiaggiaiolo impenitente, ma gravato dei trabiccoli del bagnante equipaggiato alla moderna guisa fai da te.
Ti difendi così dal “caro ombrellone”, risparmi sul caffè con la tisana in thermos e mantieni tranquillo il vecchio cuore.  
Equipaggiata di cintura galleggiante, antipanico per addomesticare il tratto marino delle tue frequentazioni, procedi alle “sedute” di terapia  salsoiodica con massaggio naturale … e non paghi il ticket, se escludi i costi per arrivare fin qui. 
Piantare l’ombrellone non è fatica da poco per una ottantenne, ma il bagno ristoratore cancella la fatica.  la promessa.    
Oggi poi hai fortunatamente trovato un parcheggio solatio per la tua la vecchia utilitaria, lì, 
proprio davanti al semaforo e a debita distanza  dallo scoscendimento franoso che costeggia lo stagno.
Adesso che hai occupato la tua postazione marina, puoi procedere alla lubrificazione antiraggi uv … Dai l’impressione di un vecchio uccello che si spollina, ma da un pezzo hai fatto pace con gli sguardi altrui. 
Dopo tutto, le prime ore sono dei vecchi: chi si appisola sotto l’ombrello, chi cammina o corre sbilenco sul bagnasciuga, chi tenta il bagno affrontando per gradi lo shock termico. Le donne mettiamo a bagnomaria le vene.
Ma oggi, stranamente il mare non c’è. Al suo posto una distesa biancastra in apnea. Un cielo (sarà cielo?) scialbo che non si sa dove cominci, perché l’immancabile profilo della Sella galleggia su vapori grigi. Nessuno in acqua.  Come in un sortilegio ogni moto è sospeso, persino i respiri, pensi. E aspetti.
Da oriente, dove il sole è appena una chiazza più chiara dietro tendaggi lattescenti,  si stacca un fiocco che volteggia … L’acqua, come per uno schiaffo a sorpresa dal sole denudato, ha un sussulto e un guizzo inspiratorio, si solleva cambia colore ed espira il fiato sulla riva. Il mare ha preso a respirare.     

domenica 22 luglio 2018

DA NONNA ANNETTA - brani estratti da In-croci XXII cap.

Nota - Questo titolo fa riferimento a due esperienze della protagonista Paloma in età infantile. Il cimitero, cui il titolo allude con la parola croci,  è occasione e luogo di una scoperta a un tempo tenera e dolorosa, ed è contemporaneamente stimolo per rivivere un'esperienza della morte più diretta e già vissuta da Paloma ai tempi dell'asilo, così che i due eventi s'intrecciano nella contemporaneità psicologica della decodificazione di un nome stampato su una piccola croce bianca.  (B. M.)    


XXII
In-croci 
C’è chi, venendo alla luce, viene accolto come i cani in chiesa, perché non gli si perdona la mancanza di denti; e chi, invece, pur mancando di molte cose ritenute umane, sembra incontrare tutti i favori.
I genitori, cioè coloro che entrano a far parte della categoria, si rivelano del tutto imprevedibili e stravaganti, difficili da interpretare e soddisfare.
L’essere cianotico, implume e straniero, chiamato al mondo senza essere “pre-interpellato”, si trova di punto in bianco, sguarnito di quasi tutto, a sopportare il peso di innumerevoli, antichi e nuovi, desideri, aspettative, scontenti, a cui non sarà in grado di corrispondere né ora né mai. E se, per puro accidente, vi corrisponderà, ne pagherà il prezzo.
Dichiaro di essere primogenita - benché non sia esattamente così e fra breve dirò il perché, se già non l’ho detto - quantunque il passare per tale, non abbia significato altro se non che mi siano toccate le perlustrazioni più incerte, più ardue e laboriose, dato che nessuno si presentò mai come fratello o sorella maggiore, né fu gravato/gravata di compiti o responsabilità a mio riguardo o per mio conto.
Sono nata da genitori, per allora considerati anziani: madre trentaquattrenne, padre quarantaseienne.
Mio padre, come accennato, era già stato padre di un bimbo, la cui vivacità, intelligenza e piacevolezza avevano gratificato l’orgoglio e sollecitato l’affetto del genitore. Morì quando era ancora molto piccolo, forse a causa di un’infezione intestinale, come allora accadeva a molti bimbi nel periodo della dentizione.
La madre e compagna di mio padre se ne tornò nella sua città, dove in breve diede alla luce una bimba alla quale fu dato un padre adottivo.
Ma tutto questo mi fu del tutto ignoto fino all’età di quindici anni.
Del passaggio di quel bimbo su questa terra, passato per me sola e temporaneamente sotto la specie “cugino”, appresi in una soleggiata e freddissima giornata di novembre, giorno dei morti, durante la rituale visita alle tombe dei nonni Mirau. Avevo circa sette anni e con entusiasmo tentavo di compitare ogni scritta. Non cessavo di fare commenti e di porre quesiti davanti ai cippi ornati di lugubri statue. Essendo morti in condizioni di povertà, sui tumuli dei miei nonni non v’erano che due croci di legno grezzo, prive di foto, e un cespo di gerani rossi, simili a quelli che ornavano la stazione dei treni.
Durante quella visita, fui attratta, però, da un campo disseminato di piccole croci bianche con le loro targhette abbrunate dal tempo. Qualcuno - non so più chi, né in quale altro tempo, né in quale occasione, ma certamente in un momento diverso da questo - mi disse anche che quel sito cimiteriale era il Limbo terrestre, ossia il luogo dove venivano inumati i bambini che non avevano ricevuto il battesimo e che dunque non potevano essere propriamente considerati cristiani, cioè degni di essere sepolti fra cristiani nel terreno consacrato, e che perciò non potevano essere accolti nel Paradiso.
Non mi sorprenderei affatto se quel mio “cuginetto” fosse morto senza battesimo e perciò considerato perso dal punto di vista cattolico, e perciò sepolto nel ghetto dei pagani. Mio padre era notoriamente ateo e accompagnato con donna more uxorio, senza sacramento. Ciò che in quel tempo - dopo la riconciliazione col Vaticano ratificata da Mussolini - era evento raro nei nostri villaggi, e considerato quasi scandaloso ed eversivo, specialmente se vissuto in modo palese e consapevole. Sottolineo la circostanza perché io stessa ho “rischiato” di far parte della marginale schiera dei “sospesi”. Se non lo sono stata è perché mio padre ha reso omaggio a mia madre, la quale volle che io fossi cristiana. Perciò senza pompa alcuna ne affidò la cura a sua madre, la quale, oltre che avola, mi fu madrina di battesimo.
***
“Perché bianche?” Chiesi stupita ai miei, poiché di croci bianche e tante insieme non ne avevo mai viste.
“Perché ogni croce bianca segna la tomba di un bambino” rispose mio padre.

È possibile – mi chiedo ora - ricordare eventi e rammentare gli stati d’animo che li accompagnarono e conservare memoria delle immagini del già vissuto che richiamarono alla mente? Mi rispondo: sì, è possibile. È possibile perché certe esperienze s’imprimono con una loro forza calma. Si producono non solo come stigma, ma come alfabeto, nette, decise e decisive. Sono i luoghi dell’intensità ricettiva - non importa tanto il loro colore affettivo. Là vanno a connettersi e ad acquisire densità figurale esperienze più ermetiche o sfumate.
Non so se la voce di mio padre abbia avuto, nel rispondermi, un sussulto retroattivo, però io credo che così sia stato; così come credo di aver colto scatti pupillari nello sguardo - peraltro già istruito - di mia madre. Tutti e due rimasero per qualche secondo sospesi - lo intuivo - a una mia reazione: gesto, voce, espressione. Sono certa di avere avuto un moto forte di cordoglio per quelle piccole tombe, quasi compiangessi la sorte di tanti me stessa abbandonati alla freddezza di quel suolo grigio, battuto dalla tramontana, e nel contempo mi rallegrassi di non essere fra loro. E ho memoria di ciò che mi tornò in mente davanti a quelle croci…
Nella luce di quel sole freddo, nel sibilo della tramontana, davanti alle croci, a una croce che inaspettatamente accenna a un che di noto e familiare, ancorché vacillante, io vivo, non un’emozione, piuttosto maneggio e sono già l’esito di una storia. Una storia senza storia, che m’introduce alla cifra lampeggiante della germinale esperienza dell’amore e dalla morte.
Io? Io, come piccola Paloma Mirau alle prese col proprio destino biologico e con i criptogrammi del suo inizio? Io, quel piccolo automa prevedibile e senza corazza, quello che la sua stessa trasparenza cela e confonde?
Sì, quello. E proprio quell’io armeggiava senza cautele e a cielo aperto intorno ai mattoni della propria crescente opacità.
Ma io anche questo, il manufatto attuale, il groviglio mobile che agita, mobilita, scompone e tiene insieme ciò che è corpo e ciò che non lo è o non lo è più: l’io e gli io di questa vecchia Paloma Mirau, innamorata delle matriosche. Lei si vuole una matriosca vivente - o almeno ci prova - intenta a custodire, smontare, assemblare, animare, estroflettere le sue piccole replicanti e inquiline.
Nessuno, tranne me, sa che cosa abbia attraversato la mente della piccola Paloma alla risposta di suo padre. Sì, egli poté leggerle sul viso un segno di compianto. Anche sua madre. Ma loro avevano i sensi disposti ad altro evento. Invece Paloma aveva già dietro agli occhi una ben più incisiva immagine della morte e, insieme con quella, il nido di una sua – e solo sua - palpitante avventura di vita.
E nel breve lasso di tempo intercorso tra l’informazione venuta da suo (cioè mio) padre e il puntamento dell’attenzione sulla targhetta della croce, su cui sua (cioè mia) madre aveva posato due pallide acetoselle fuori stagione, che punteggiavano, rade e pallidissime, il campo, lei, la Paloma di allora, visitò in silenzio quel suo intenso sito mentale. 

***
Dapprincipio non vide che gli spettri saltellanti del sole dietro le palpebre, intanto che teneva le mani giunte e le labbra serrate, come aveva ordinato suor Pierina. Al contempo si sentì avvolgere e attraversare il corpo da un violento profumo di fiori, dentro il quale avvertiva un equivoco sentore dolciastro che non dimenticò mai più.
Il cuore le battè forte dentro al petto quando i barbagli si acquietarono.
Era adagiato su una specie di console, fermo fermo, il capo giallino circondato dalla lanugine chiara dei capelli. Le manine, più gialle, abbandonate lungo i fianchi “ospitano” smorti fiori gialli. Il corpo quasi annullato dentro la vestina trinata del battesimo. Questa pende, graziosamente, dalla console e manda leggeri bagliori di nuvola.
“Morto, morto, morto, morto …” sembrava a Paloma di avere un tamburino risonante nel petto. A un cenno della suora si era levato un parlottio corale che le trasse da dentro la voce e la mandò lontana e straniera a formare l’eterno riposo come una nube minacciosa e sospesa nel cielo della stanza, mentre i suoi occhi s’appuntavano sulle ciglia del morticino, pronti a cogliervi un minimo battito.
In quella, da un angolo trascurato si levò un sospiro forte e cupo, quasi un lamento. S’era alzata dalla sedia una donna mai vista. Peppinetto, senza il grembiulino di percalle, ma con l’abitino festivo “a ometto” quasi la bloccò stringendo con le braccia le sue gambe. Lei se ne liberò con una dolcezza impregnata di dolore. Lo rimandò sul proprio seggiolino e avanzò verso la console avendo tra le mani una scatola guarnita di narcisi selvatici. Era la madre, pensò Paloma; e le parve altissima e dolce.
“Santino deve andare … Se volete, salutatelo adesso,” disse e guardò verso il gruppetto di bambini appena giunto.
Fu così che suor Pierina indusse la sua pattuglietta di bimbi in grembiule di percalle, quadrettato di azzurro o di rosso sul bianco, a sfiorare le ceree manine del morto. E così quel gelido contatto, annodato col sentore recessivo, ma singolare di quell’aria, fu per Paloma anche l’incontro perentorio e repellente con la sua propria precarietà, la cui immagine rimase, e rimane, acquattata eppure vigile dentro di lei.
Quella fu anche l’ultima volta in cui vide il piccolo compagno d’asilo, Peppinetto, in carne e ossa e senza lacrime, tale che quella sua forma infantile s’agglutinò e fissò con incancellabile persistenza e assolutezza nella sua memoria. Se, dopo di allora, si incrociarono per strada o a scuola, non si riconobbero. Lei continuò a “vederlo” accomunato all’immagine del fratellino morto, nel dinamismo ellittico della mente, ogni volta che gli automatismi dei suoi sensi venivano casualmente stimolati. Tale e quale come lo vedeva ora, al di qua della targa bruna su quella croce bianca, che si stava accingendo a decifrare.
Vedeva quel faccino d’agnello smarrito sentendone la piccola voce rompersi nel tremolo del pianto. Lo vedeva aggirarsi nel verminaio dei bimbi vocianti dentro il grande salone dell’asilo, il cestino azzurro appeso alla manina imbelle.
Lo scorse dall’alto della sua statura e precoce solitudine. Se ne imbibì come una spugna. Lo prese per mano consolandone il pianto. Di colpo si specchiò cresciuta sui vetri delle porte, e altro non lesse. Ogni giorno, per un lungo attimo circolare, camminò lungo le siepi del giardino stringendo nella sua quella manina, come un talismano. E quando fu l’ora –anch’essa ciclica - gli cavò la mela dal cestino e gli mise al collo il bavaglino che odorava di pesce e di formaggio.
“Gi … gi o … giov e … - no - giova n … Giovan … Giovanni! – Mi … Mirau!  Mirau? Come me?”.  E volse gli occhi carichi di stupore e di interrogativi dall’uno all’altro genitore.
In quelle brevi e semplici risposte, già riferite, s’acquietò al momento la mia ansia di verità.