sabato 18 agosto 2018

ISTRUZIONI AL DISUSO - inedita di Bianca Mannu

Nota di preambolo - Non è un testo d'occasione, ma dato il non casuale ripetersi di tragedie annunciate e i tentativi ben riusciti dell'ideologia dominante (questa, sì, continua a farsi valere) di consegnarci come gattini ciechi ad eventualità solo apparentemente bastarde, mi pare non blasfemo postare questa composizione, come mia partecipazione al lutto del mio disastrato paese.
 Aggiungo che nessuno in questi giorni ha fatto il minimo sforzo (o forse ha volontariamente praticato l'elusione) per richiamare un'altra immane tragedia a suo tempo annunciata: lo sfondamento della diga del Vajont del '63, in pieno e rampante miracolo economico. Anche le attuali inondazioni in Thailandia e Cambogia, con stragi di centinaia di persone, sembrano e non sono, fatalità. Mi verrebbe voglia di gridare:"Cari poeti, smettete di celebrare le poche aiole fiorite, ostentate nelle foto opportunamente ritoccate per gli ingenui, sgonfiatevi dell'enfasi, guardate  il mondo reale e seguite i fili che conducono alla logica che partorisce tali eventi, così che molti la riconoscano e la contestino!" (B. M.)


ISTRUZIONI al DISUSO           

Usare
un occhio solo per volta
un occhio solo
e l’altro a riposo – se da riserva insiste
Un occhio solo
strumento minimo: scatto per archivio
d’impronte piatte – geografia ignara 
di profondità di strati d’ombre

Una volta – forse pluriocchiuto – l’umano
guardava  nella lontananza
annidarsi semi di ferali evoluzioni …
… forse sbagliando vaticinava
e aguzzava i denti al tempo
per mordere con essi la carne del futuro
nel ventre del possibile

Compagno di strada il rischio
aizzava vista e veglie
E poi che pieno parve il morso
fu il calcolo innalzato a salvaguardia
dai rostri della cattiva sorte
L’umano troppo umano dispose storni
sui calcoli pregressi
volendo a piacere ritmare i casi

Smarrì in quella china il fiore suo:
quella memoria occhiuta
che trapassava pungendo con  il tempo
i nidi dello spazio e in guisa di lenzuoli
li sciorinava ai venti

Un occhio solo
scampato per  devozione delle superfici
vi guizza sopra mancando
d’indugiare su scabrosità di polveri:
morti compiute in assenza di pianto

Un occhio solo
aliterà dal suo cielo
sulle cisti di sequele viscerose
e forse abbasserà la palpebra
per mingere una lacrima meccanica
su scagliosi viraggi

Un occhio solo
e ogni alone scabroso vagherà misconosciuto
dispersi l’inquietudine e il sospetto
da cui poteva ungulata nascere l’idea …
Anche l’ombra d’un’ombra

dissipata

giovedì 9 agosto 2018

Liberi e personali arzigogoli sulla politica - Bianca Mannu



Il mio impatto con la politica italiana, mi manda periodicamente in apnea o mi agita come un vento improvviso. Sì, per quanto l’età e il contare niente mi consentano di assistere e ricordare. Smagata, sto sola e parlo con me stessa e con eventuali altri (immaginari!), del mondo che un poco so , quello politico che, pur ignorandomi, mi ha sempre trovata e variamente colpita, oltre che inquietata.
Mi viene da osservare che non c’è scampo dall’improvvisazione che alimenta l’elettoralismo, e da questo che la fomenta e la incalza. E va così, secondo me, dalla Bolognina in poi, anzi da prima: dalla proposta berlingueriana del Compromesso Storico, sfociato nella tragedia della lotta armata da cui si è usciti annichili per via di una sorta di sentimento di sospetto e di colpa diffusi, tali da indurre i partiti della sinistra a correre verso abiure di pancia e a inneggiare alla caduta del Muro, come se con quello fossero caduti tutti i muri, non solo fisici e ideologici, ma quelli sociali, razziali e politici, che invece si sono moltiplicati sfociando in una miriade di guerre. A un sonno della ragione se n’è subito sostituito un altro, per cui con l’acqua sicuramente inquinata delle piaghe ideologiche, specialmente quelle di stampo “sovietista” giudicate più pericolose, si è gettato via il nerbo della riflessione teorica sulle logiche di sistema e il patrimonio sociale e culturale che aveva animato la parte più nobile della lotta politica di base.  
Dopo, preceduto dall’edonismo reganiano, c’è stato in Italia l’intervallo fescenninico del Cav., che ha frullato con la sua non disinteressata munificenza molti cervelli ritenuti pensanti. E poi, com’è noto, L’Europa ha bruscamente suonato la fine della presunta “ricreazione”, ossia del welfare state, un lusso che avrebbe provocato l’indebitamento degli stati nazionali. (Chi sa mai perché, il pane che mangiano gli umani di ciurma è sempre quello che pesa troppo e mette in pericolo di naufragio il vascello!)
Ma la crisi sistemica mondiale (la famigerata tempesta senza autore o del dio impunemente accusato!)  aveva già fatto fluire i suoi veleni in tutte le direzioni mettendo in una condizione di difficoltà irreversibile i baluardi veri e finti delle economie e delle politiche nazionali,   innescando una lotta di tutti contro tutti (specialmente poveri contro più poveri) e favorendo aggregazioni economico-politiche tese a occupare tutti i ponti di comando e a comprimere, col terrorismo finanziario e la compressione dei diritti, le istanze di promozione sociale delle classi lavoratrici, deprimendone la capacità contrattuale e perfino il senso minimo di attività partecipativa al dibattito politico. Mi suona uniforme un coro:  le emittenti mediatiche nostrane hanno continuato a cantare inni di ottimismo intanto che il paese franava politicamente e moralmente.
La “gente” (Ecco, dai e dai, siamo divenuti una poltiglia irrisoria col nome dell’antico patriziato romano: gens!), la gente disertava le urne incoraggiata all’assenza quando conveniva al potere di turno. Tutto l’arco politico ripeteva il refrain: le democrazie, quelle vere, (prendi gli USA)  hanno flussi relativamente bassi; il 60% è fisiologico!
Così si è giunti al 40 e al 30% dell’oggi (fino al 4 marzo, poi, chi sa?). Come dire che la fisiologia si posizionava verso il vizio incurabile. Politicamente morti, socialmente zombi: le sensibilità sociali, compiacenti alla politica del disimpegno, erano scivolate nell’imbarbarimento individualista, agevolato anche dalla compressione delle spese per la sanità, la cultura (scuole di base comprese) e altri servizi essenziali.
Non bisogna dimenticare mai che l’intuizione di Beppe Grillo e del Casaleggio senior ha individuato nell’inquietudine sociale, suscettibile di andar fuori controllo, l’ansia di cambiamento di una moltitudine di persone, ha conferito parole ed esempi intuitivi al marasma sociale e l’ha convogliato in direzione di una formazione politica movimentista, cioè fluida e popolare (poi M5S) che riproponeva a individui isolati, confusi, depressi e arrabbiati l’incontro discussione con altri individui ugualmente inquieti, onde riscoprire sul campo della comunicazione di piazza la necessità di una ricostruzione del senso sociale dissipato e del necessario protagonismo popolare nelle decisioni politiche.
La base teorica del movimento - per la verità caliginosa - è trovata nel giusnaturalismo rousseauiano, secondo il quale lo stato di anomia naturale o quello attuale di ingiustizia e caos economico-sociale va superato con un nuovo patto sociale che conferisce cittadinanza all’individuo e sovranità al  popolo. Questo diventa soggetto e oggetto di azioni politiche dirette e sovrane, capaci di affrontare le richieste di giustizia distributiva dei beni prodotti e non soggiacere senza discutere ai dictat della compagine economica mondiale prevalente. L’impulso movimentista immediato nasce dall’insostenibilità delle condizioni sociali di fatto (l’avvilente e dilagante impoverimento), ma si chiarisce e si sostanzia nelle “assemblee di piazza” divenute crogiuolo di narrazioni critiche alternative alle narrazioni governative sostenute da interessi corruttivi evidenti e proliferanti, dunque sempre meno credibili, “astratte” rispetto ai bisogni oggettivi del corpo sociale.
L’emergere convulso delle reti corruttive faceva riemergere la Questione Morale di berlingueriana memoria, sulla cui scia molti ex elettori ed ex militanti delusi del PD renziano si sono orientati.  In effetti tale posizione suonava per certi versi simile alle tesi riformistiche del PD pre-renziano; ma esso si era mostrato  passatista e debole nei confronti dei poteri forti (leggi multinazionali e banche) e imbelle contro la corruzione. Infatti Grillo e il suo movimento ha avuto buon gioco nel rilevare a carico del PD le discrasie tra dichiarazioni e pratica politica, denunciandone – talora in modo teatrale – l’incapacità di prendere le distanze operative dagli arroccamenti di casta e la sua indulgenza per la pratica del “cerchiobottismo” dilazionatorio.
Va osservato che nella sua fase di crescita il M5S non ha esplicitato metodologicamente il sopra menzionato riferimento teorico. Anzi gli iniziatori del M5S, pur avendo ampiamente operato prelievi importanti da varie teorie (ricordo quanto dell’analisi marxiana delle merci fosse presente in certi discorsi  di Beppe Grillo e quanto leninismo[1] nel suo richiamare le folle disorganizzate al protagonismo politico!), si sono definiti post ideologici, cioè in posizione di superamento delle classiche categorie del posizionamento politico e, quando sollecitati, su ciò hanno costantemente insistito. Del resto in un’Italia ancora impregnata di edonismo berlusconiano e delle sue grida d’orrore per la presunta e larvale “infezione comunista”, bisognava rassicurare una folla composita, con idee e informazioni confuse, ma anche guardarsi da un sistema mediatico (con le eccezioni!) molto compromesso col liberismo economico-finanziario, propenso a pareggiare i propri conti con la ben tollerata e giustificata avidità capitalistica mediante lo sciorinamento  del manto morale (assai remunerante sotto profili diversi), utile per salvare il busines e il suo svincolato esercizio nel settore privato e, all’opposto,  puntare l’indice sulle esose guarentigie che “il politico” si assicurava nelle forme del privilegio, sia legalizzato che coperto,(cfr La casta e altro). Intanto, archiviata  in termini etico-giuridici la questione “mani pulite”, si seppelliva in un silenzio politico il lascito del perdurante modello democristiano all’interno del PD che, nella juissance dell’egemonia sulla sinistra morente  e strabica e  del potere di governo, di fatto scaricava sull’intero paese i costi della spartizione e dell’abbandono sociale. (Bisognerebbe rileggere gli Scritti corsari di P.P. Pasolini sulle responsabilità della DC e gli atteggiamenti del PCI sempre più corrivi alla deriva del sistema, per capire ciò che accade oggi.)
Come si siano distribuiti i flussi elettorali l’abbiamo saputo dopo il 4 marzo, ma abbiamo altresì constatato e capito che essi non sono omogenei ai riferimenti prescelti, che anzi i flussi in uscita producono forse lo stesso magma e le stesse problematiche ambivalenti e contraddittorie pre-elettorali, con l’aggravio delle reazioni particolaristiche dei sottogruppi.
Il forzoso contratto di governo tra M5S e Lega - tanto caldeggiato da una tifoseria mediatica ciarliera che ha ben soffiato sul disimpegno di quanto resta del PD - si rivela una gabbia da gestire faticosamente per gli impegni contrapposti che contiene e per il mare di problemi che premono dall’esterno del contratto stesso e che finiranno per imporsi. L’esito politico e la durata stessa del governo dipenderà da come si disporranno i rapporti di forza delle due componenti principali e dagli impatti oppositivi che produrranno negli agenti economici e sociali nazionali variamente sollecitati e compressi da un contesto politico mondiale ondivago e confuso, che risulta occupatissimo a organizzare politiche aggressive sia sul piano economico finanziario che sulla deterrenza militare: vedi le sanzioni economiche USA contro stati non allineati, vedi gli obblighi a sostegno delle spese militari, vedi l’indifferenza verso le sorti del pianeta e dei popoli su cui ricadono le conseguenze dell’incuria e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse, eccetera.  
Le convulsioni che si verificano in seguito alle prime azioni di governo mi pare siano sintomo e conseguenza di una carenza analitica del corpo sociale e anche dalla mancanza di una visione prospettica organica da parte di tutti gli attori vincitori o sconfitti. I problemi si sono accavallati in un settantennio di brancolamenti.  Ma, stando ai sondaggi, bisogna anche dire che un buon numero di italiani piegano sul più facile: cioè siano galvanizzati dalla retorica di Salvini. (A suo tempo furono galvanizzati da uno che strillava tanto, che si faceva chiamare Duce e li condusse alla rovina).      
La posizione salviniana si áncora su una sorta di nazionalismo con pronunciate venature etnocentriche e razziali, si vale di ciò che sopravvive della mitologia dei Lumbard, ma in una forma abbastanza larga da farci stare un’italianità generica, bonificata dai “terrun”  e altri appellativi politicamente scorretti che alienano voti. I toni tribunizi carezzano le illusioni popolaresche di una supremazia politica e sociale su altri gruppi. Una scaltra comunicazione propagandistica consegue la sua efficacia andandosi a combinare con l’ancestrale pregiudizio che i pericoli vengano da fuori, dai diversi in miseria, e che non il padre-padrone del capitale-despota si appropria del frutto del tuo lavoro, ma un altro paria come te, anzi più disgraziato di te.
È costui che mangia a ufo il tuo pane, vive nella “pacchia” del far niente, dell’avanzare richieste senza titoli di merito, mentre tu ti danni di fatica per avere il minimo. Tu sei cittadino, lui, no. Lingua, leggi, suolo, usi sono per noi.
I fatti recentissimi dicono in che cosa consiste il bengodi!
Così il detto “prima noi, prima gli italiani” diventa cristiano abbastanza per solleticare, coi bisogni compressi e politicamente inevasi,  il rifiuto dell’altro. Così incrementata, la litigiosità sociale porta buono all’autocrate o al gruppo di potere, perché lo esclude dalla contesa come terzo neutro, lo erge a giudice di eversori veri o presunti, amicandosene alcuni, stigmatizzandone altri, specialmente stranieri poveri o italiani di ultima classe come i Rom e i Gitani, per i quali resta in serbo la soluzione “ruspa”. Come non vergognarsi di certi atteggiamenti!
Il M5S ha una teoria politica ideologica che nega di avere, ed è quella sopra accennata, che trova fondamento nel popolo sovrano, considerato come unità indistinta sulla cui sovranità si conciliano o si possono conciliare tutti gli interessi nazionali. Ciò che poi risulta fuorviante in quanto la parola popolo è concettualmente ambigua, non meno della parola “gente”. Tuttavia bisogna dare atto al M5S di aver coraggiosamente accettato la sfida che la realtà politica dell’Italia gli ha posto davanti.
Le primissime esplorazioni dell’iniziatore del M5S, Beppe Grillo, contenevano diverse considerazioni di critica economico-sociale estrapolate dalla critica marxiana al sistema capitalistico: quella teoria critica, che era stata frettolosamente buttata via, con l’acqua sporca del Diamat staliniano insieme con le macerie del muro di Berlino, dai suoi epigoni e giovani colonnelli dello stesso PCI in sgretolamento; i quali confluirono  in ordine sparso nella strana fiumara raccogliticcia del Pds, poi DS e infine  PD che nulla seppe fare se non cedere il potere al paternalismo berlusconiano.
Ma l’urgenza di canalizzare un conflitto sociale che minacciava di degenerare,  faceva sì che si sorvolasse su poco comprensibili pregiudiziali ideologiche e ci si occupasse delle condizioni più diffuse ed evidenti, mettendo sul conto dell’allargamento della base sociale verso la critica politica non poche e ingenue semplificazioni.  A un’analisi scientifica approfondita   (che avrebbe richiesto una precisa scelta di campo da parte degli intellettuali, i quali invece erano entrati in massa a sostenere l’establishment, già fortemente compromesso in faccende giudiziarie e criticato da diverse inchieste giornalistiche) è andato sostituendosi un più vago assunto etico: il cittadino escluso dalle tutele dell’establishment è più vicino alla verità dei fatti, in quanto ne vive direttamente le conseguenze, è per la sua stessa condizione marginale, lontano dai giochi di potere, dunque è in linea generale onesto, ha un interesse diretto a partecipare al controllo delle scelte politiche sulla base di un’etica della legalità e della trasparenza.
Si torna all’idea piuttosto semplicistica che la così detta società civile sia “per natura” migliore dei suoi rappresentanti politici. Il riferimento a Rousseau mette a fondamento la natura presunta “schietta” del nuovo Emilio. Il suo autore prerivoluzionario, nell’ansia di salvarlo dall’afflato corruttivo della società vigente, lo deve isolare e quasi forgiarlo pezzo a pezzo: ma il risultato è un mite beota. Senza saperlo, Rousseau preconizzava la svolta tutt’altro che indolore della Rivoluzione del 1789 e di quelle borghesi seguenti che, come dovrebbe essere noto, aprivano la strada al capitalismo già  scalpitante nell’Inghilterra del 1760.
Per tornare all’attualità, abbiamo dovuto divenire consapevoli, nell’esplosione continua dei fatti, che la società civile rispecchia ed è rispecchiata dai suoi governanti. Che quindi il sistema va cambiato nei suoi fondamenti, ciò che in condizione di globalizzazione (internazionalizzazione dei sistemi malavitosi quasi in contiguità con i meccanismi così detti normali) non può essere operato efficacemente in ambito nazionale.
Occorre una Morale politica consapevole, non moralistica, e in continuo confronto con i meccanismi che presiedono alle ricadute sociali dei modi del potere economico e del potere ideologico nazionale e sovranazionale, i quali si combinano dando adito alla creazione granitica del senso comune corrente, indolente all’esercizio critico.
Forse il gruppo dirigente dei pentastellati sta imparando sul campo, e certo con batticuore e fatica, la tentacolare complessità, mettendo in campo una buona dose di volontarismo per resistere, non sempre efficacemente, alla deriva sovranista etnocentrica di Salvini. E perciò, forse senza raccontarselo, nella concitazione del decidere, operare e tentare di mediare,  va a scuola di leninismo, o dovrebbe - come giustamente osservò tempo fa Buttafuoco. Sospetto che circola e infiamma polemicamente competitori e avversari.
Ragione per cui il M5S dovrebbe costruirsi il nerbo teorico che gli consenta di resistere alla chimera dall’elettoralismo, malattia endemica della compagine democratica e dell’attuale partnership, e di servirsi  anche delle raffinatezze pedagogiche accessibili sul campo e renderle disponibili  per la ri-organizzazione culturale del Paese.
Che dire del PD?
Il PD ha vissuto indebitamente della fiducia dell’elettorato, acquisita nel periodo berlingueriano poi basculante su ideologismi da signore, pacioso, educato e distratto. Molta parte dei suoi iscritti ed elettori avevano nei suoi confronti un atteggiamento fideistico. Nonostante che il PD sia il prodotto della confluenza di spezzoni di formazioni politiche decotte, il nerbo della militanza di base rimaneva costituito dai comunisti e dai giovani della FGCI. E costoro, dopo la Bolognina e ancora dopo con L’Ulivo prodiano, erano ancora convinti che si fosse giunti sulla soglia dell’instaurazione di un socialismo democratico capace di mettere in piedi una graduale pacifica ripartizione delle ricchezze prodotte a beneficio delle classi lavoratrici più disagiate. Ma un sistema non muta per pelosissime concessioni parziali e divisive. In realtà il gruppo dirigente  si spostava ideologicamente verso le politiche liberiste, verso una concertazione sindacale sempre più disarticolata, verso lo spostamento delle risorse dal campo umano a quello del capitale.
Malgrado l’ansia e i dubbi che il dualismo attuale può suscitare, la dialettica sta all’opera nei fatti, tanto che persino un Marcucci può illudersi di gestirla con lo stile di pensiero che gli è proprio, e fa il paio con le uscite elettorali del Cav.
Che scuole di pensiero!
E adesso che i buoi sono usciti dal chiuso, forse i filosofi scriveranno e vorranno gestire LA NUOVA REPUBBLICA.   

















Pds = part.democ. della sinistra
D S = democratici di sinistra ingresso della Margheritta
PD = esclusione della sinistra
    



[1]Rammento l’osservazione di P. Buttafuoco, se non sbaglio  in prossimità delle elezioni politiche, con cui sollecitava, certo ironicamente, il M5S a continuare a prendere lezioni di leninismo. 

lunedì 30 luglio 2018

SUGGESTIONI MARINE di Bianca Mannu

 


Una lastra orizzontale dall’apparenza solida a fronte della cedevole resistenza  del suolo arenoso:  la civiltà rimane, anzi prosegue alle tue spalle la giaculatoria del suo insistere.
Il semaforo e quanto corre nel suo dominio è l’estuario dell’ultimo mezzo millennio. Te ne allontani con la fretta d’una scimmia perduta al branco, che la nuova goffaggine consegna a un andare da spiaggiaiolo impenitente, ma gravato dei trabiccoli del bagnante equipaggiato alla moderna guisa fai da te.
Ti difendi così dal “caro ombrellone”, risparmi sul caffè con la tisana in thermos e mantieni tranquillo il vecchio cuore.  
Equipaggiata di cintura galleggiante, antipanico per addomesticare il tratto marino delle tue frequentazioni, procedi alle “sedute” di terapia  salsoiodica con massaggio naturale … e non paghi il ticket, se escludi i costi per arrivare fin qui. 
Piantare l’ombrellone non è fatica da poco per una ottantenne, ma il bagno ristoratore cancella la fatica.  la promessa.    
Oggi poi hai fortunatamente trovato un parcheggio solatio per la tua la vecchia utilitaria, lì, 
proprio davanti al semaforo e a debita distanza  dallo scoscendimento franoso che costeggia lo stagno.
Adesso che hai occupato la tua postazione marina, puoi procedere alla lubrificazione antiraggi uv … Dai l’impressione di un vecchio uccello che si spollina, ma da un pezzo hai fatto pace con gli sguardi altrui. 
Dopo tutto, le prime ore sono dei vecchi: chi si appisola sotto l’ombrello, chi cammina o corre sbilenco sul bagnasciuga, chi tenta il bagno affrontando per gradi lo shock termico. Le donne mettiamo a bagnomaria le vene.
Ma oggi, stranamente il mare non c’è. Al suo posto una distesa biancastra in apnea. Un cielo (sarà cielo?) scialbo che non si sa dove cominci, perché l’immancabile profilo della Sella galleggia su vapori grigi. Nessuno in acqua.  Come in un sortilegio ogni moto è sospeso, persino i respiri, pensi. E aspetti.
Da oriente, dove il sole è appena una chiazza più chiara dietro tendaggi lattescenti,  si stacca un fiocco che volteggia … L’acqua, come per uno schiaffo a sorpresa dal sole denudato, ha un sussulto e un guizzo inspiratorio, si solleva cambia colore ed espira il fiato sulla riva. Il mare ha preso a respirare.     

domenica 22 luglio 2018

DA NONNA ANNETTA - brani estratti da In-croci XXII cap.

Nota - Questo titolo fa riferimento a due esperienze della protagonista Paloma in età infantile. Il cimitero, cui il titolo allude con la parola croci,  è occasione e luogo di una scoperta a un tempo tenera e dolorosa, ed è contemporaneamente stimolo per rivivere un'esperienza della morte più diretta e già vissuta da Paloma ai tempi dell'asilo, così che i due eventi s'intrecciano nella contemporaneità psicologica della decodificazione di un nome stampato su una piccola croce bianca.  (B. M.)    


XXII
In-croci 
C’è chi, venendo alla luce, viene accolto come i cani in chiesa, perché non gli si perdona la mancanza di denti; e chi, invece, pur mancando di molte cose ritenute umane, sembra incontrare tutti i favori.
I genitori, cioè coloro che entrano a far parte della categoria, si rivelano del tutto imprevedibili e stravaganti, difficili da interpretare e soddisfare.
L’essere cianotico, implume e straniero, chiamato al mondo senza essere “pre-interpellato”, si trova di punto in bianco, sguarnito di quasi tutto, a sopportare il peso di innumerevoli, antichi e nuovi, desideri, aspettative, scontenti, a cui non sarà in grado di corrispondere né ora né mai. E se, per puro accidente, vi corrisponderà, ne pagherà il prezzo.
Dichiaro di essere primogenita - benché non sia esattamente così e fra breve dirò il perché, se già non l’ho detto - quantunque il passare per tale, non abbia significato altro se non che mi siano toccate le perlustrazioni più incerte, più ardue e laboriose, dato che nessuno si presentò mai come fratello o sorella maggiore, né fu gravato/gravata di compiti o responsabilità a mio riguardo o per mio conto.
Sono nata da genitori, per allora considerati anziani: madre trentaquattrenne, padre quarantaseienne.
Mio padre, come accennato, era già stato padre di un bimbo, la cui vivacità, intelligenza e piacevolezza avevano gratificato l’orgoglio e sollecitato l’affetto del genitore. Morì quando era ancora molto piccolo, forse a causa di un’infezione intestinale, come allora accadeva a molti bimbi nel periodo della dentizione.
La madre e compagna di mio padre se ne tornò nella sua città, dove in breve diede alla luce una bimba alla quale fu dato un padre adottivo.
Ma tutto questo mi fu del tutto ignoto fino all’età di quindici anni.
Del passaggio di quel bimbo su questa terra, passato per me sola e temporaneamente sotto la specie “cugino”, appresi in una soleggiata e freddissima giornata di novembre, giorno dei morti, durante la rituale visita alle tombe dei nonni Mirau. Avevo circa sette anni e con entusiasmo tentavo di compitare ogni scritta. Non cessavo di fare commenti e di porre quesiti davanti ai cippi ornati di lugubri statue. Essendo morti in condizioni di povertà, sui tumuli dei miei nonni non v’erano che due croci di legno grezzo, prive di foto, e un cespo di gerani rossi, simili a quelli che ornavano la stazione dei treni.
Durante quella visita, fui attratta, però, da un campo disseminato di piccole croci bianche con le loro targhette abbrunate dal tempo. Qualcuno - non so più chi, né in quale altro tempo, né in quale occasione, ma certamente in un momento diverso da questo - mi disse anche che quel sito cimiteriale era il Limbo terrestre, ossia il luogo dove venivano inumati i bambini che non avevano ricevuto il battesimo e che dunque non potevano essere propriamente considerati cristiani, cioè degni di essere sepolti fra cristiani nel terreno consacrato, e che perciò non potevano essere accolti nel Paradiso.
Non mi sorprenderei affatto se quel mio “cuginetto” fosse morto senza battesimo e perciò considerato perso dal punto di vista cattolico, e perciò sepolto nel ghetto dei pagani. Mio padre era notoriamente ateo e accompagnato con donna more uxorio, senza sacramento. Ciò che in quel tempo - dopo la riconciliazione col Vaticano ratificata da Mussolini - era evento raro nei nostri villaggi, e considerato quasi scandaloso ed eversivo, specialmente se vissuto in modo palese e consapevole. Sottolineo la circostanza perché io stessa ho “rischiato” di far parte della marginale schiera dei “sospesi”. Se non lo sono stata è perché mio padre ha reso omaggio a mia madre, la quale volle che io fossi cristiana. Perciò senza pompa alcuna ne affidò la cura a sua madre, la quale, oltre che avola, mi fu madrina di battesimo.
***
“Perché bianche?” Chiesi stupita ai miei, poiché di croci bianche e tante insieme non ne avevo mai viste.
“Perché ogni croce bianca segna la tomba di un bambino” rispose mio padre.

È possibile – mi chiedo ora - ricordare eventi e rammentare gli stati d’animo che li accompagnarono e conservare memoria delle immagini del già vissuto che richiamarono alla mente? Mi rispondo: sì, è possibile. È possibile perché certe esperienze s’imprimono con una loro forza calma. Si producono non solo come stigma, ma come alfabeto, nette, decise e decisive. Sono i luoghi dell’intensità ricettiva - non importa tanto il loro colore affettivo. Là vanno a connettersi e ad acquisire densità figurale esperienze più ermetiche o sfumate.
Non so se la voce di mio padre abbia avuto, nel rispondermi, un sussulto retroattivo, però io credo che così sia stato; così come credo di aver colto scatti pupillari nello sguardo - peraltro già istruito - di mia madre. Tutti e due rimasero per qualche secondo sospesi - lo intuivo - a una mia reazione: gesto, voce, espressione. Sono certa di avere avuto un moto forte di cordoglio per quelle piccole tombe, quasi compiangessi la sorte di tanti me stessa abbandonati alla freddezza di quel suolo grigio, battuto dalla tramontana, e nel contempo mi rallegrassi di non essere fra loro. E ho memoria di ciò che mi tornò in mente davanti a quelle croci…
Nella luce di quel sole freddo, nel sibilo della tramontana, davanti alle croci, a una croce che inaspettatamente accenna a un che di noto e familiare, ancorché vacillante, io vivo, non un’emozione, piuttosto maneggio e sono già l’esito di una storia. Una storia senza storia, che m’introduce alla cifra lampeggiante della germinale esperienza dell’amore e dalla morte.
Io? Io, come piccola Paloma Mirau alle prese col proprio destino biologico e con i criptogrammi del suo inizio? Io, quel piccolo automa prevedibile e senza corazza, quello che la sua stessa trasparenza cela e confonde?
Sì, quello. E proprio quell’io armeggiava senza cautele e a cielo aperto intorno ai mattoni della propria crescente opacità.
Ma io anche questo, il manufatto attuale, il groviglio mobile che agita, mobilita, scompone e tiene insieme ciò che è corpo e ciò che non lo è o non lo è più: l’io e gli io di questa vecchia Paloma Mirau, innamorata delle matriosche. Lei si vuole una matriosca vivente - o almeno ci prova - intenta a custodire, smontare, assemblare, animare, estroflettere le sue piccole replicanti e inquiline.
Nessuno, tranne me, sa che cosa abbia attraversato la mente della piccola Paloma alla risposta di suo padre. Sì, egli poté leggerle sul viso un segno di compianto. Anche sua madre. Ma loro avevano i sensi disposti ad altro evento. Invece Paloma aveva già dietro agli occhi una ben più incisiva immagine della morte e, insieme con quella, il nido di una sua – e solo sua - palpitante avventura di vita.
E nel breve lasso di tempo intercorso tra l’informazione venuta da suo (cioè mio) padre e il puntamento dell’attenzione sulla targhetta della croce, su cui sua (cioè mia) madre aveva posato due pallide acetoselle fuori stagione, che punteggiavano, rade e pallidissime, il campo, lei, la Paloma di allora, visitò in silenzio quel suo intenso sito mentale. 

***
Dapprincipio non vide che gli spettri saltellanti del sole dietro le palpebre, intanto che teneva le mani giunte e le labbra serrate, come aveva ordinato suor Pierina. Al contempo si sentì avvolgere e attraversare il corpo da un violento profumo di fiori, dentro il quale avvertiva un equivoco sentore dolciastro che non dimenticò mai più.
Il cuore le battè forte dentro al petto quando i barbagli si acquietarono.
Era adagiato su una specie di console, fermo fermo, il capo giallino circondato dalla lanugine chiara dei capelli. Le manine, più gialle, abbandonate lungo i fianchi “ospitano” smorti fiori gialli. Il corpo quasi annullato dentro la vestina trinata del battesimo. Questa pende, graziosamente, dalla console e manda leggeri bagliori di nuvola.
“Morto, morto, morto, morto …” sembrava a Paloma di avere un tamburino risonante nel petto. A un cenno della suora si era levato un parlottio corale che le trasse da dentro la voce e la mandò lontana e straniera a formare l’eterno riposo come una nube minacciosa e sospesa nel cielo della stanza, mentre i suoi occhi s’appuntavano sulle ciglia del morticino, pronti a cogliervi un minimo battito.
In quella, da un angolo trascurato si levò un sospiro forte e cupo, quasi un lamento. S’era alzata dalla sedia una donna mai vista. Peppinetto, senza il grembiulino di percalle, ma con l’abitino festivo “a ometto” quasi la bloccò stringendo con le braccia le sue gambe. Lei se ne liberò con una dolcezza impregnata di dolore. Lo rimandò sul proprio seggiolino e avanzò verso la console avendo tra le mani una scatola guarnita di narcisi selvatici. Era la madre, pensò Paloma; e le parve altissima e dolce.
“Santino deve andare … Se volete, salutatelo adesso,” disse e guardò verso il gruppetto di bambini appena giunto.
Fu così che suor Pierina indusse la sua pattuglietta di bimbi in grembiule di percalle, quadrettato di azzurro o di rosso sul bianco, a sfiorare le ceree manine del morto. E così quel gelido contatto, annodato col sentore recessivo, ma singolare di quell’aria, fu per Paloma anche l’incontro perentorio e repellente con la sua propria precarietà, la cui immagine rimase, e rimane, acquattata eppure vigile dentro di lei.
Quella fu anche l’ultima volta in cui vide il piccolo compagno d’asilo, Peppinetto, in carne e ossa e senza lacrime, tale che quella sua forma infantile s’agglutinò e fissò con incancellabile persistenza e assolutezza nella sua memoria. Se, dopo di allora, si incrociarono per strada o a scuola, non si riconobbero. Lei continuò a “vederlo” accomunato all’immagine del fratellino morto, nel dinamismo ellittico della mente, ogni volta che gli automatismi dei suoi sensi venivano casualmente stimolati. Tale e quale come lo vedeva ora, al di qua della targa bruna su quella croce bianca, che si stava accingendo a decifrare.
Vedeva quel faccino d’agnello smarrito sentendone la piccola voce rompersi nel tremolo del pianto. Lo vedeva aggirarsi nel verminaio dei bimbi vocianti dentro il grande salone dell’asilo, il cestino azzurro appeso alla manina imbelle.
Lo scorse dall’alto della sua statura e precoce solitudine. Se ne imbibì come una spugna. Lo prese per mano consolandone il pianto. Di colpo si specchiò cresciuta sui vetri delle porte, e altro non lesse. Ogni giorno, per un lungo attimo circolare, camminò lungo le siepi del giardino stringendo nella sua quella manina, come un talismano. E quando fu l’ora –anch’essa ciclica - gli cavò la mela dal cestino e gli mise al collo il bavaglino che odorava di pesce e di formaggio.
“Gi … gi o … giov e … - no - giova n … Giovan … Giovanni! – Mi … Mirau!  Mirau? Come me?”.  E volse gli occhi carichi di stupore e di interrogativi dall’uno all’altro genitore.
In quelle brevi e semplici risposte, già riferite, s’acquietò al momento la mia ansia di verità.


lunedì 16 luglio 2018

Sotto l’ombrellone giallo-verde - liberi pensieri di Bianca


 Malgrado la problematica e dilagante proliferazione umana, il mare disegna oggi, purissimo, il suo orizzonte blu; e sotto il suo drappo mattinale, così setoso, nasconde perfettamente il suo fondo cimiteriale e dissimula con incredibile cosmesi neoformazioni inquietanti.
Oggi il mare giace nell’intervallo di una meteopatia sedata. Come in un dipinto antico (dove lo si presume colto nella sua prossimità allo stato virginale) appare placidamente amico nelle sue variegature d’azzurro, intento a duplicare un cielo popolato di trasparenze e nuvole fioccose.
Eppure, certamente, con le precipitazioni dei giorni scorsi, il cielo ha pianto gli ormai soliti veleni, ignorati dal pigro formicolio degli appassionati del bagno di sole che precede il successivo di acqua marina.
Tutto, quel tutto minimale dove può giungere l’occhio lucroso degli habitués, tutto è dolce, sommessamente buono per il gaudio dei frivoli, cioè  di tutti noi animaletti bipedi presenti sull’arenile dei Centomila (braccio quartese), intenti a imbalsamarci di creme, a spidocchiarci come scimmie, a commisurare la nostra con la pancia degli altri, confortati dalla modesta, ma splendida amenità del luogo,  del momento e del temporaneo privilegio.
Il destino, quello cinico e baro, chiamato a presentarsi di persona da un tribuno ambiguo, sembra viaggiare al momento ben oltre l’orizzonte, oppure, chi sa, nascondersi negli anfratti costieri o forse nei gadget spaziali, occhi lunghi e insidiosi, che il sole cancella nello sfolgorio dei raggi, un po’ causa e un po’ complice della nostra isolana sonnolenza colposa.
Noi, gente d’Isola e luogo di sbarchi provvidenziali quando butta tempesta, noi da millenni navighiamo soli o male accompagnati, e pare che quasi non ce ne accorgiamo. Astiosi tra noi, abbiamo lasciato che i lupi bianchi ci rosicchiassero fino alle budella, ché tanto abbiamo l’Origine e la genia Neolitica!
Ed è a causa di tale  ancestralità, (di cui andiamo talvolta fieri, talaltra vergognosi, riesumata nella sua crudezza, ma poi,  rivestita, per la sua commerciabilità, nelle varie esplosioni di sagre e di cortes adescanti, con addobbi da bric-à-brac allestiti alla 
buona con i rottami di qualche prosperità subalterna, peraltro vicinissima alla miseria servile degli ex valvassini) che siamo incapaci di vivere il nostro presente, di prefigurarci un futuro, magari condito d’acredine, ma diverso da una “balentìa” bacata in radice.
Di questo e d’altro mi arrovello dentro la mia non ingrata solitudine da spiaggia. E mi pare una vecchia galera alla deriva questa terra, non da marinai governata, ma  semplicemente usata da una filibusta di vecchie pantegane.
Contro di loro, noi (sa gentixedda) possiamo perfino arrabbiarci per un momento, ma non riusciamo a uscire dalla condizione di topi subordinati,  l’un contro l’altro in lite per qualche briciola sfuggita alla pantagruelica voracità dell’intero Areopago isolano e oltremarino.

martedì 10 luglio 2018

Un matto in giallo - brano dal XVII capitolo di DA NONNA ANNETTA

Nota - Dico subito che la riedizione  di stralci dell'opera non ha fini commerciali, dato che è probabile che non esistano copie del libro nelle librerie, né  sto pensando di proporne  una nuova edizione. 
Sono assai  felice del commento di Antonio Altana  precedentemente postato su questo blog, come di quello, più professionale di Giuliano Brenna su Larecherche.it, del 2013, se non erro.
Ma in qualità di autrice, che non ha avuto l'occasione di precisare
 perché e come sta dentro il libro,  vorrei chiarire che il fine dell'opera non è e non voleva essere un'autobiografia , né documentaria né romanzata. La mia presenza come personaggio infantile e poi come io narrante adulto ha senso e si giustifica come collettore di storie altrui.
Si delinea un  pezzo di mondo, popolato di persone: familiari affini, figure singolari e tratti distintivi di diverse comunità reali.
Ogni presenza, ogni figura o gruppo ha preso senso,non tanto in virtù della propria singolarità, ma in quanto tessera di un puzzle più grande. Senza un ragione apparente e senza alcun preconcetto sono andata a impattare in una sequela di storie o episodi che da soli sarebbero stati persino banali. 
La necessità della scrittura (non esauribile nella sola escussione narrativa, come ha sottolineato Altana) si è imposta quando  articolando fatti e considerazioni, sono emerse connessioni e ragioni
preminenti sopra le teste dei singoli
Ecco, un mondo che è esistito, è entrato costitutivamente nella mia ricettività sensoriale, con tutto il suo carico di problemi, affetti, disagi, concezioni di vita, frizioni e contrasti, ma anche di parole, di idee. Un materiale che ha fatto corpo e poi pressione per aprirsi una via d'uscita corale per via delle connessioni che io (forte della filosofia paterna) ho trovato il coraggio di affrontare dopo averci ponzato sopra per quasi vent'anni. E allora ho potuto incrementare la mia maturità provando ad articolare microcosmi col macrocosmo. ( B.M.)

Da

Un matto in giallo

A quattordici anni Serafino aveva preso a frequentare la carpenteria dei fratelli Simula, che accoglieva molti apprendisti. Erano i ragazzi della classe media del paese, quelli che si potevano permettere il lusso di sostenere i figli per il tempo necessario all’apprendimento di un vero mestiere. Giacché i figli dei più poveri scendevano già in galleria o andavano a scarriolare alle fornaci. Ma per Serafino la frequenza della carpenteria doveva essere breve e tale da consentirgli di acquisire qualche tecnica di base per fare il suo ingresso presso una falegnameria vera e propria, che costruiva e intagliava mobili in stile e che era molto selettiva nell’accogliere gli apprendisti. Nonno Mirau s’era particolarmente dato da fare e si era volentieri accollato il peso del mantenimento in apprendistato di Serafino, proprio considerando le capacità e la particolare sensibilità del ragazzo. Il quale, insomma, pareva destinato a un privilegio ulteriore: diventare un fine artigiano del legno.
Infatti nel volgere di un anno, il ragazzo aveva già cambiato ditta. E la sera dopo il lavoro, studiava e riproduceva su carta le venature e le particolarità dei diversi legnami, di cui si portava in casa i campioni. Attentissimo in Ditta, aveva messo gli occhi sui cataloghi e le pubblicazioni che il capomastro, signor Antonio - che era anche contitolare d’impresa - consultava frequentemente quando assumeva una nuova ordinazione. Fattosi coraggio, Serafino aveva chiesto il permesso di avere in prestito uno di quegli album, anche per una sola sera.
Questi sono strumenti di lavoro e costano … Mica si può darli in giro così, come figurine qualunque!”
“Sicuro. A me piacciono per studio”aggiunse l’apprendista in un soffio.
“Uhm. Sei arrivato ieri: non sai neppure la A dell’alfabeto del falegname.”
“È vero, signor Antonio. Però io ce la sto mettendo tutta. Guardi, se lei mi presta uno di quei libri, anche per una sola sera, io rinuncio alla paghetta del mese che lei ha promesso di darmi per questa fine anno …”
“Eh, come corri, ragazzo! Vedremo, vedremo.”
E pare che il  signor Antonio la scodellasse così, calda calda, anche a nonno Cesare, per dargli ad intendere che la promessa paghetta di Serafino poteva slittare per un buon mezzo anno. Fatto sta che una sera il mastro intagliatore, preso dal ghiribizzo della curiosità - vediamo cosa riesce a combinare - gli allungò uno degli album corredati di immagini e didascalie. Il giorno successivo Serafino tornò col libro in mano e un mazzetto di fogli nei quali aveva riprodotto a matita le immagini dell’album con una precisione e una bravura davvero singolari. Perciò il signor Antonio lo prese a benvolere e lo chiamava per farsi aiutare negli schizzi degli assemblaggi, quando il lavoro progettuale urgeva. A casa di nonno Mirau erano stati tutti contenti per lui e disposti a passar sopra a certe sue spigolosità caratteriali. Anzi Alfano gli aveva ordinato a proprie spese, dal Continente, una grossa pubblicazione sulla storia del mobile e degli stili.
La domenica, il vecchio gruppo dei compagni di carpenteria passava da casa per chiamare il loro antico compagno di lavoro e di giochi. Andavano per campi, alla ricerca di qualche frutto negli orti indifesi, di uccellini di nido, di bisce, di lucertole o semplicemente andavano per voglia di moto e gazzarra maschile. Nel gruppo, a mano a mano che si usciva dalla mentalità dell’infanzia, si parlava ad alta voce di donne, d’irruzioni ipotetiche in certe bicocche che sarebbe azzardato chiamare “case di piacere”, ma nelle quali era possibile essere iniziati alla pratica sessuale. Se era estate, i ragazzi si tuffavano a gara in “Su Carropu”, nel fossato della cava di arenaria. E quando la pelle, satura di sole, si era vestita della patina argillosa della roggia, allora qualcuno, guardando la lama della luce trapassare obliqua lo spessore equivoco e verdastro dell’acqua, evocava i morti annegati degli anni avanti. Un brivido allora saettava i dorsi e atterrava le inguini esaltate. Un altro allora, per sfida, di nuovo si lanciava e chiamava alla prova gli altri. L’irrisione e il frizzo cedevano talora il passo all’insolenza, e l’insulto accompagnava e seguiva il gesto rabbioso delle mani… Era così anche ai tempi di Alfano, pochi anni prima. Ma a quel tempo Alfano già fucinava presso la miniera.
Comunque stessero le cose, in famiglia ci si accorse che Serafino aveva smesso di partecipare a quelle scampagnate con quella compagnia. Com’è che non esci?” gli chiedeva qualche volta sua madre. “Non mi va.  Non c’è sugo a  torturare le bisce o a fare a botte come cretini . E poi, fare a botte è pericoloso”.
Ma le domeniche erano giorni lunghi e vuote le strade. Non si poteva crescere come mammole, nascosti tra il crescione e il mentastro, aspettando primavera …
Fu così che quella domenica soleggiata di maggio disse: Oh ma’, badate che esco”.
“E dove, figlio mio?”
“Uff! Esco”.
“Con i soliti?”
“Esco e basta”.
“Ma, da solo?”
“Sì... No. Non lo sooo”.
“Non tardare!”
“Eeeh!”
Erano già tutti a tavola - tutti tranne Pietro, che lavorava a Montorgiu, e Adelina che, sposa di fresco, pranzava a casa propria col marito - quando il cancelletto cigolò in cortile.Ci sei?” vociò nonna Magdalena. Nessuno rispose. Aglaia si fece sull’uscio e osservò: “C’è mica nessuno. Il signorino farà tardi. Ma noi si mangia, eh, che ho da finire il cucito!”.
Alfano e Lorenzo affondarono gli occhi nel piatto.
“Embeh! Uno non può andare a donne senza sbandierarlo a tutti?” esclamò l’intemperante Valerio, rompendo il silenzio e cercando di buttarla in facezia. Ma gli sguardi di tutti quasi gli troncarono in bocca la battuta. Un silenzio insolito accompagnò la consumazione del pasto. Poi i ragazzi si allontanarono, mentre nonno e nonna rimasero seduti a tavola, in attesa.
Il pomeriggio inoltrava e di Serafino neanche l’ombra. “Basta” - sbottò nonna guardando il marito –io sto in pensiero”.
“Ma io dove lo cerco?” fu la risposta angosciata di nonno che, levatosi in piedi, guardava di fuori senza saper prendere una decisione. I due stettero a guardarsi come se ciascuno, leggendo sul volto dell’altro il passaggio di un’ombra scura, non volesse darlo a vedere. Infatti tacevano. A quel punto Aglaia, si affacciò dalla sua stanza: “Niente, eh? Voi, papà e mamma, i maschietti di casa li viziate troppo! Al loro confronto, me mi trattate come una carcerata”. E la sua voce dal timbro argenteo sembrava voler rassicurare tutti.
Nonna Magdalena per un po’ si agitò pesantemente sulla sedia, poi si levò di scatto e cominciò a sparecchiare chiassosamente la tavola. Ma quando ebbe impilato i piatti per lavarli nel caldaio di rame con la cenere, mollò tutto, si asciugò le mani sul grembiule ed entrò nella camera dei figli. C’era solo Alfano che ricuperava il turno in officina, perché a sera doveva rimettersi in cammino per Montopinosu.
Che c’è, mamma?”
“Scusami se ti ho svegliato. Volevo dire ai tuoi fratelli che …”
“Sono usciti a posta. Non mi riesce lo stesso di dormire. Però sta’ tranquilla. Tornano presto, e tutti”.
Tornarono Lorenzo e Valerio: “A Su Carropu non c’è traccia di soste umane. Del resto non fa ancora così caldo!”
Nonna e nonno respirarono rumorosamente, come parzialmente sollevati.
Alfano si era alzato e si apprestava a uscire come se dovesse raggiungere la miniera. Andiamo. Portatevi un indumento pesante e dei bastoni. La borraccia dell’acqua l’ho nella sacca. Passo nella loggetta a prendere la lucerna di miniera …”
Valerio fece una smorfia ironica, ma si dispose a eseguire senza ulteriori commenti. I genitori stavano a guardare impensieriti e speranzosi, avendo rinunciato, per scaramanzia, a darsi un’altra spiegazione segreta e incomunicabile del fatto. O meglio, a nonna Magdalena martellavano nelle orecchie le parole di Serafino: Fare a botte … pericoloso … botte … botte … pericoloso botte …. Ma non erano passati che pochi minuti, quando la voce di Alfano li raggiunse, alterata, dalla loggetta situata nell’angolo remoto del cortile. Accorsero tutti.
Serafino era riverso nell’angolo tra la legna e il prospetto del forno. E già Alfano sollevandolo diceva che era solo svenuto. Lo portarono in casa e lo deposero sul letto. Nonna pretese che lo spogliassero per capire se reca dei segni”.
“Che segni?”
“Se ha fatto a botte …”
Non aveva segni.”Non sembra che l’abbiano picchiato” si dissero l’un l’altro.
Ma non ci fu verso di riportare il ragazzo alla coscienza. Da pallido divenne violentemente rosso sul volto e fu preda della febbre. Per diversi giorni stentò a riprendere conoscenza. Se ne vide un barlume verso il mattino dopo, ma poi sopraggiunse di nuovo la febbre.
Adelina, già col pancione, recava il ghiaccio in una busta di gomma. Lo prelevava dalla sua ghiacciaia sempre fornita, per fabbricare la carapigna, i sorbetti da vendere alle feste. “Adesso che nasce il bambino, beati voi se mi vedrete! Neppure dietro il banco potrò stare. Dovrà starci Cristoforo. Ma lui scalpita. Dice che qui così non si guadagna, qui. Dice che vuol partire. E forse sì, partiremo …”
Allora non si accedeva tanto facilmente agli ospedali, pochi e concentrati nelle città, specialmente se si abitava a distanze ragguardevoli. D’altronde il medico, avendo escluso contusioni, consigliava di aspettare il chiarimento del quadro clinico. Nonna e Aglaia si davano il turno con il ghiaccio e poi con le pezzuole umide. Solo dopo tre settimane la febbre ebbe un recesso e, accompagnandosi a copiose sudorazioni, in una notte cessò del tutto. Al mattino Serafino apparve come svuotato e con gli occhi vaghi come laghi brumosi. Non parlava. Il medico, contento, smorzava le ambasce di nonna: “Un po’ alla volta, che diamine!”.

Una mattina che erano tutti via, nonna Magdalena studiò da vicino il malato. Era pallido e smagrito, sì, però aveva i tratti più rilassati … Gli accarezzò i capelli e la fronte e con la voce trepidante e dolce gli chiese: “E allora, figlio mio, non mi vuoi raccontare che cosa ti è successo quel giorno?”.
“Ma voi, chi siete? Che volete da me?” gli fece eco Serafino con una voce irriconoscibile e roteando gli occhi in modo pauroso.
Nonna Magdalena si spaventò e pianse per la disperazione. E quando tutta la famiglia fu riunita ci si accordò per non chiedergli più nulla e per fare come se niente fosse accaduto. Magari, col tempo, tutto si sarebbe chiarito e aggiustato. Era noto a tutti che Serafino, pur essendo mite, non amava essere inquisito o pressato.
Avrà avuto uno spavento e, forse perciò, non ricorda niente davvero!” tagliò corto Aglaia.
Si trattava di aver pazienza e favorire il tranquillo ritorno alla normalità, aveva ribadito il medico, chiamato in soccorso. Più avanti nel tempo si sarebbe potuto condurlo a Cagliari da uno specialista del sistema nervoso, caso mai rivelasse il sintomo del malcaduco … “Ma non pare” aggiunse ancora il dottore per smorzare l’apprensione della madre. Anzi trovava inutile il suo controllo assiduo. Era meglio che lo chiamassero al bisogno.
I giorni passavano e il pensoso Serafino rimase assolutamente blindato e taciturno. Invitato a uscire di casa, si rifiutò testardamente rifugiandosi nel letto e chiudendo la porta della stanza a doppia mandata. Fece lo stesso quando lo invitarono a tornare al lavoro. Anzi questa volta aveva manifestato, insieme col rifiuto, una veemenza fisica e verbale che nessuno gli conosceva.
Passarono alcuni mesi senza che si potesse avere un indizio né di peggioramento né di ritorno alla normalità. Serafino aveva, sì, ripreso a bazzicare il cortile, ma unicamente per costruire gabbiette di stecchi, per grilli e cavallette, asseriva.
“Non se ne fa più niente di costui” aveva osservato un giorno Valerio, fissandolo con crudele oggettività.
“Infatti. E nulla ci si deve più aspettare da lui” gli fece sponda lo stesso Serafino, restando chino sugli stecchi che assemblava pazientemente con sottili pezzi di rafia e con una voce così impersonale come se parlasse di un altro.
La montagnola delle gabbiette cresceva sensibilmente, ossessivamente. Ora anche Alfano osservava il fratello con doloroso spavento. Pietro, Pietrino per tutti i familiari - quelle rare domeniche che poteva tornare a casa da Montorgiu - scuoteva il capo. “Mamma, babbo, non aspettate più; portatelo a Cagliari. Al costo della visita ci penso io”.
Pietrino dovette tornare di lì a poco perché era arrivata la cartolina di chiamata alle armi. L’Italia entrava in guerra e lui a Cagliari doveva andarci per forza, per vestire la divisa e partire.
Fu così che, un po’ per accompagnare Pietrino e un po’ con la speranza di ottenere da uno specialista una cura che riportasse il ragazzo alla normalità, partirono in quattro per Cagliari. All’arrivo Pietro scomparve dietro il portone di una bassa, ma ampia e grigia costruzione: la caserma. Loro tre montarono su un tram a cavalli e ritornarono alla Marina, non lontano dalla stazione ferroviaria.
La visita non chiarì un bel niente, ma costò intero l’ultimo salario di Pietrino. Ebbero una ricetta per un ricostituente. Fu tutto. Verso l’ora della partenza videro un soldato avvicinarsi alla loro panchina … Serafino fece uno scatto di gioiosa sorpresa: “Pietrì, sembri un altro! Ma io ti preferisco in borghese”.
“Anch’io mi preferirei come piace a te” gli rispose il fratello con ironia un po’ amara. Però si diceva rallegrato perché gli avevano concesso tre ore per salutare il fratello malato. Non sapeva ancora la precisa data di partenza, ma disse loro che era meglio che non tornassero nel capoluogo. Perché tanto il saluto si sarebbe ridotto in un agitare il fazzolettino sul molo e piangere come a un funerale.
Nonna Magdalena - racconta mio padre - pianse silenziosamente per giorni e giorni; e ricominciava ogni volta che Alfano ripartiva per la miniera di Montopinosu, perché le pareva che i figli – tanto quello che era partito, quanto il più cagionevole dei tre che restavano in paese, come quest’altro che arrivava per ripartire - glieli strappassero ripetutamente e senza fine dalla carne viva delle viscere.