lunedì 11 maggio 2015

Parole squillanti - tratta da Tra fori di senso di Bianca Mannu



Parole squillanti

Non sono le parole squillanti
case piene di campanelli
o di arredi sonanti.
Certo vi troverai  le arpe
al posto dei cancelli.
Campati a vela – svettano campanili
sul tetto  di richiami dai cortili.
Camere per appelli – tante –
e stanze di grido – alte –
esposte alle fughe cardinali
delle finestre aperte.
Non mancano camere deserte
con timpani speciali
per archiviarci inopinati tuoni.
Gorgheggi sui balconi
e alzate di fischi tra le gronde.
Per essi tremano le onde
sensibili dell’aria nei dintorni
sfessurando ance di corni
e tubi lamentosi  di clarini
dispersi  in bagni e magazzini.
Sotto le scale o giù  nella cantina-
confinati – gli urli della pancia.
Una manciata di sibili in cucina.
Ma nella veranda – come in una plancia –
trombe d’argento tubano nel vento.
Intanto scale di note – a tortiglioni –
orchestrano corse di trilli da soprano
per innalzarli al più nobile vano.
Solfeggi e vocalizzi sui bassi toni
indugiano sulle soglie dei portoni
o sgusciano veloci negli androni.
Come straniero venuto di lontano
spetezzando col tuo clacson
dal piano della strada
cercherai un garage – invano.
Esibendo con faccia tosta
la tua poca educazione
arriverai al diapason
della sopportazione
delle sillabe in sosta
d’attesa di gestione.
Poi partirai rombando
verso altra contrada.
.Ma quando –
quando e sopra il tutto –
la notte si distenda fonda
per strati di silenzio –
allora è dello spazio – muto –
il tempo e l’onda …
Forse lì ogni senso sprofonda.

Nota Le parole, i loro accostamenti inusuali e un poco strampalati creano significati paradossali , decostruiscono gli schemi consueti della comunicazione e tuttavia riescono ad alludere obliquamente e ironicamente a situazioni che viviamo comunemente nelle quali siamo consegnati ad effetti stranianti. B.M.   


venerdì 8 maggio 2015

Esperienza e Esperientzia

Esperienza

Ho vissuto millenni
nella minaccia del verbo ruggente
precipitando nel baratro
della parola mancata.
Ho oscillato e sobbalzato
lungo l’arco ambiguo del gesto
che non smette di fendere
il vorticoso etere del senso ancestrale.


Sono rimasta sepolta
sotto lastre di silenzio
e raccontarmi pensieri
senza parole possibili
- il cuore convulso e assottigliato -
- chiusa in un tempo sterile-
come in una bara vuota.


Mi sono ammaestrata
all’osmosi presensoriale
con la terra e col buio umido
dove fermenta il senso.


Sono sgusciata infine
dall’epicentro fortunoso d’un sisma
come un lemure incolore
per suggere col corpo intorpidito
il veleno bruciante del sole.
Per vivere e vivermi.


Finché avrò guizzo d’intelletto
soffio ossigenante e cuore
- lucida intensione-
scaverò segni/parole –mio sangue
già antico e captivo -
con l’unghia della mente
sulla silicea sordità di questa
Babele planetaria
che frange in pulviscolo il Presente
e uguaglia ai suoi frammenti
ogni germe di Futuro.

Bianca Mannu
da TRA FORI DI SENSO



Esperientzia
Apo bìvidu milli annos
minetas de chistiones uruladas
ruende in s'ispèrrumu 
de sa paràula non nada.
Apo bantzigadu in assuconu
fatu s'arcu malignu de sa mossa
chi no acabbat de ferrer
mulinosas aeras de sensu ancestrale.


So restada interrada
suta lastras de mudore
e contende-mi pessos
chena paràulas adatas
-coro a bòrtulu e isfinigadu-
-tancada in unu tempus annòsigu-
comente unu baule bòidu.


Mi so domada
a su primu isolver sensoriale
cun sa terra e s'ùmidu iscuru
ue fremmentat su sensu.


So isdegada in finis
dae coro tzentrale de donosu terremotu
che lèmure iscoloridu
pro suer cun carena sonnida
sa brujadora lua de su sole.
Biver e mi biver.


Fintzas chi ap'aer iscoitu de sentidu,
sulu ossigenarzu e coro
- lutziga giagadura -
apo a iscavare/ paraulas - samben meu
gia antigu e afrancadore -
chin s'ungia de s'atile
subra granitica surdera de custa
Babele planetaria
chi firchinat in pruer su presente
e aparinat a sos biculos suos

donzi sirigu de su cras.
Torrada in logudoresu de

Antonio Altana

 Nota 
Esperienza /Esperientzia. Due  testi  fratelli, anzi, no: due composizioni sorelle.  Il tema sembra uno, l’esperienza.
Quale esperienza?
Eh,no; non si tratta  di una o due esperienze riferite a  connotazioni  specifiche o determinate. Si tratta del  faticoso e angoscioso processo con cui  l’irrimediabile corporeità si sveglia in volizione ancestrale ancora compressa e ostacolata dalla propria carenza d’essere, che cerca annodarsi  con barlumi di immagini-pensiero ancora imbelli.  Tra collassi e riprese di vigore, è il senso che acchiappa le parole ungulate. È il senso che corre  fra i segni /linguaggio e che irrora di intensità e vigore i nostri  interiori nessi col mondo.
Quel  nodo di senso e linguaggio può diventare strumento duttile e forte a scalfire sembianza e sostanza dell’apparente assolutezza  della giostra mondana.   Perché è dell’uomo  lasciare il segno e fare dei suoi segni  dominio e legge del branco; ma è degli umani tentare di cambiare verso a quelle logiche.
In siffatta dimensione ogni persona  può riconoscersi in questa Esperienza/Esperientzia, in questa ricerca,  talvolta solitaria e profonda  d’assoluto, come un bisogno d’incontrare nell’altro, in molti altri, la migliore  parte di sé, di modo che la costruzione di senso ci coinvolga tutti e non chiuda fuori più nessuno .
Ed è  per questa possibilità poco evidente che il senso non staziona nei corpi pur avendo con essi  stretta relazione, ma  trapassa per la trama delle lingue e dei linguaggi, si rimodula  negli echi, nelle vibrazioni, nelle particolari sonorità e persiste circolando tra accoglienti diversità.
Sono felice che l’amico Antonio abbia riscritto Esperienza  come Esperientzia in quella sua lingua sardo-logudorese bellissima che io, campidanese imbarbarita e estraniata, decifro con fatica, ma che rileggendo comprimo per farla risuonare dentro i miei magri ricordi di viaggio nel Logudoro.
  

giovedì 7 maggio 2015

Verbi e di-verbi: Recensione di Giuseppe Roberto Atzori a Tra fori ...

Verbi e di-verbi: Recensione di Giuseppe Roberto Atzori a Tra fori ...: Un titolo perfetto, un gioco di parole che annuncia il filo conduttore dell’intero lavoro dell’autrice Bianca Mannu: tra fori di senso, che...

Recensione di Giuseppe Roberto Atzori a Tra fori di senso – poesie di Bianca Mannu

Un titolo perfetto, un gioco di parole che annuncia il filo conduttore dell’intero lavoro dell’autrice Bianca Mannu: tra fori di senso, che possiamo leggere anche come trafori di senso.Qualcosa è rimasto tra un vuoto e l’altro e costituisce il messaggio, oppure qualcosa è stato scavato direttamente nel senso stesso?Vuoti e pieni ésili o pesanti, spazi comunicanti che si aprono l’un l’altro attraverso stretti passaggi: è un’idea d’aria e di luce filtrate, di immagini intraviste, di movimento che passa setacciato - tra le parole.

Ma questo non basta. Anche il termine senso entra a far parte del gioco dinamico che si dipana a partire dal titolo: senso sta per significato, per direzione, oppure ancora per percezione sensoriale?La parola senso, in questo caso, riesce magicamente a raccogliere, con pari valenza, tutte queste sue accezioni. Perché magico è l’intero lavoro svolto da Bianca Mannu: un rincorrersi di significati, verso tutte le direzioni possibili è un fuggire e tornare ostinato di lemmi, un continuo nascondere e svelare sensazioni.

Una solida cultura letteraria è la base fondante delle sue scelte linguistiche; abbiamo di fronte una personalità dotata di una sensibilità fine, matura e al contempo attenta al presente, che riesce ad unire in alchemici versi qualcosa che sprigiona una sensazione che sa insieme di presente, di passato e di futuro. Per capire a fondo le righe bisogna conoscere di persona l’autrice: una donna a dir poco sorprendente. Immediata, spontanea, alla mano. Brillante e poliedrica artista.O ancora meglio, è necessario sentir leggere ciò che scrive per capire, anche attraverso la sua voce, la sua interpretazione, la sua cinesica e la sua prossemica, ciò che intende comunicare.

Innanzi tutto Bianca Mannu battezza le sue come “composizioni” e non come poesie. Delle composizioni che oserei definire non solo “accattivanti”, ma pure “singolari”, vista la difficoltà nel poterle inquadrare in una corrente stilistica. Se paragonassimo ognuno dei lavori compositivi ad un oggetto d’arte o d’artigianato, potremmo parlare di lavoro d’intaglio, d’intarsio, di ricamo, di cesellatura, o perfino di un lavoro d’orologeria. Questo perché tutto è raffinato, selezionato, levigato, abbinato e incastrato con un gusto ed una maestria che rivela un impegno di ricerca del vocabolo, un’insistenza sulla riesumazione del termine “esatto”, tale da creare quasi un certo imbarazzo in chi fruisce. Questo è l’intento dichiarato esplicitamente dall’autrice: insistere sulla parola fino a tornare indietro alla sua essenza di logos

Anche l’attenzione alla sintassi non passa certo inosservata.Chi conosce il significato di tutti i lemmi che Bianca Mannu ha coraggiosamente inserito nei suoi versi? Poche persone.Si tratta forse di una letteratura per iniziati? Di eleganti e compiaciuti giochi di virtuosismo su voci vetuste e auliche? Siamo di fronte ad uno di quegli autori che vuol dar sfoggio del proprio sapere? La risposta a tutte le precedenti domande è No. 

Bianca Mannu scrive prima di tutto per sé, lo fa per esprimersi, svuotarsi, lasciare tracce. Pubblica senza troppi dubbi o pentimenti, ripesca dal passato, rimaneggia smaliziatamente, senza fisime taglia, riadatta e definisce.Ma soprattutto scrive senza voler piacere a tutti ad ogni costo e senza ambire a diventare un’autrice per le masse, rifiuta di essere la tipica personalità che potremmo definire pop. Al contrario, vuole scrivere per creare stimoli: “Se un lettore non conosce una delle parole… è meglio: la cerca nel dizionario e impara qualcosa”. E non teme nemmeno che il suo libro venga aperto, scrutato superficialmente ed immediatamente accantonato per il suo difficile fascino, per la sua occulta missione didattica. 

Il suo è un sorprendente atteggiamento di attaccamento alla lingua, porta avanti una filosofia totalmente contraria al livellamento culturale che viviamo quotidianamente nel cedere sotto ai colpi di falce messi in atto dai mezzi di comunicazione di massa, sempre più sempliciotti e banali.Eppure non si tratta di una purista dell’Italiano: accanto a termini quali singulti, proteo o preconizzare, possiamo incontrare clacson, garage, DNA, action painting e doléances. I casi sono vari: parole straniere d’effetto scelte ad hoc, altri stranierismi più consueti già facenti parte del nostro dizionario, ma anche termini desunti dalla terminologia scientifica e dalla tecnologia.

Altro dato interessante è quello delle tematiche scelte: Bianca Mannu guarda al passato, lo fa per “distruggerlo” nel presente e per vivere con impeto l’avvenire. Il trascorso appare e riappare come fosse quasi un incubo ricorrente e di rado si configura come un tempo di “memorie” da voler rivivere o da rievocare con mestizia e nostalgia: ”Taluni miei pensieri / e certe immagini tue / si tengono per mano / senza volersi bene”. Il ricordo dell’avvenuto è carico d’ombre e spettri sempre vivi: sono tuttavia entità destinate a soccombere sotto la reazione energica dell’autrice, che con l’atto poetico, e poi concretamente nella vita, affronta di petto il dolore, guardandolo diritto negli occhi. Tutto è descritto attraverso un approccio pesantemente fisico, orgogliosamente sanguigno, con i sensi aperti alla ricettività fin quasi all’estremizzazione iper-realistica. 

Pertanto desumiamo che la raffinata scelta lessicale non sia finalizzata a conferire al lettore sensazioni di leggiadria o di spensierata eleganza, di femminil grazia spesa in una Primavera dai capelli al vento. Tutt’altro: emerge una visione dell’esistenza vissuta di pancia, dipinta a tinte acide, dagli odori acri, dalle superfici scabre e taglienti. Come visto attraverso una lente vagamente deformante, il mondo di Bianca Mannu è scomodo e inospitale, a tratti asettico, gelido come il cristallo e perfino infetto, oppure fatto di polvere, fango e polistirolo. Ogni riferimento alla sensorialità è ben evidenziato.Del proprio universo l’autrice nota le pecche, le pene, gli aspetti squallidi e nauseanti, ridicoli e fastidiosi. Parla della degenerazione fisica e cita di continuo immagini concrete di oggetti, luoghi e materiali come metafore interiori di un disagio pressoché perenne. Persino parla della sua “diurna voglia di morte”. 

Se poi però affondiamo la vanga della nostra attenzione sul senso finale di ognuno dei piccoli capolavori compositivi, non possiamo che restare sorpresi: tutto quel combattere tra le spire del negativo, si rivela in conclusione uno sforzo vitale animato da una speranza sorprendente, da una positività onnipresente, benché strisciante e mutizzata, ma finalmente determinante nel farci capire che in fondo, nonostante la rabbia, la solitudine, lo strazio, ogni esperienza vale la pena d’esser vissuta.I seguenti versi risultano essere, in tal senso, particolarmente significativi: “Finché avrò guizzo d’intelletto / soffio ossigenante e cuore / - lucida intensione - / scaverò segni/parole – mio sangue / già antico e captivo - / con l’unghia della mente / sulla silicea sordità / di questa Babele planetaria”.

La sua percezione del mondo è quindi, oltre all’allucinazione della trasfigurazione poetica del sentimento, estremamente lucida e contemporanea. La sua è una visione consapevole, un’indagine compiuta da chi sa di aver vissuto tanto e di essere arrivata ad un punto importante di un cammino: “Del tempo che mi resta / ho miope lo sguardo”. Ma non c’è lacrima, piuttosto cinismo e autoironia, o meglio la volontà di auto-ritrarsi nuda e cruda. Tuttavia si scorgono qua e là minuscole pennellate di lirismo e di intima tenerezza: “E il risveglio spolvera l’aurora / d’una benigna nostalgia / che percorre il possibile imminente”. 

 L’autrice crede nella tecnologia, che lei stessa utilizza per la sua arte, e soprattutto crede nella gente, nelle capacità dei giovani, nelle loro idee, nei loro sogni. Per questo suo essere tanto ispirata quanto stabile, coi piedi ben fissi per terra, non manca di far spirito sulla categoria “poeti”, nella quale non si identifica, e sul loro “poetare” messo in pratica attraverso il piangersi addosso, l’atteggiarsi da esse Un titolo perfetto, un gioco di parole che annuncia il filo conduttore dell’intero lavoro dell’autrice Bianca Mannu: tra fori di senso, che possiamo leggere anche come trafori di senso.

Qualcosa è rimasto tra un vuoto e l’altro e costituisce il messaggio, oppure qualcosa è stato scavato direttamente nel senso stesso?Vuoti e pieni ésili o pesanti, spazi comunicanti che si aprono l’un l’altro attraverso stretti passaggi: è un’idea d’aria e di luce filtrate, di immagini intraviste, di movimento che passa setacciato - tra le parole.

Ma questo non basta. Anche il termine senso entra a far parte del gioco dinamico che si dipana a partire dal titolo: senso sta per significato, per direzione, oppure ancora per percezione sensoriale?La parola senso, in questo caso, riesce magicamente a raccogliere, con pari valenza, tutte queste sue accezioni. Perché magico è l’intero lavoro svolto da Bianca Mannu: un rincorrersi di significati, verso tutte le direzioni possibili è un fuggire e tornare ostinato di lemmi, un continuo nascondere e svelare sensazioni.

Una solida cultura letteraria è la base fondante delle sue scelte linguistiche; abbiamo di fronte una personalità dotata di una sensibilità fine, matura e al contempo attenta al presente, che riesce ad unire in alchemici versi qualcosa che sprigiona una sensazione che sa insieme di presente, di passato e di futuro. Per capire a fondo le righe bisogna conoscere di persona l’autrice: una donna a dir poco sorprendente. Immediata, spontanea, alla mano. Brillante e poliedrica artista.O ancora meglio, è necessario sentir leggere ciò che scrive per capire, anche attraverso la sua voce, la sua interpretazione, la sua cinesica e la sua prossemica, ciò che intende comunicare.

Innanzi tutto Bianca Mannu battezza le sue come “composizioni” e non come poesie. Delle composizioni che oserei definire non solo “accattivanti”, ma pure “singolari”, vista la difficoltà nel poterle inquadrare in una corrente stilistica. Se paragonassimo ognuno dei lavori compositivi ad un oggetto d’arte o d’artigianato, potremmo parlare di lavoro d’intaglio, d’intarsio, di ricamo, di cesellatura, o perfino di un lavoro d’oreficeria. Questo perché tutto è raffinato, selezionato, levigato, abbinato e incastrato con un gusto ed una maestria che rivela un impegno di ricerca del vocabolo, un’insistenza sulla riesumazione del termine “esatto”, tale da creare quasi un certo imbarazzo in chi fruisce. Questo è l’intento dichiarato esplicitamente dall’autrice: insistere sulla parola fino a tornare indietro alla sua essenza di logos. Anche l’attenzione alla sintassi non passa certo inosservata.Chi conosce il significato di tutti i lemmi che Bianca Mannu ha coraggiosamente inserito nei suoi versi? Poche persone.Si tratta forse di una letteratura per iniziati? Di eleganti e compiaciuti giochi di virtuosismo su voci vetuste e auliche? Siamo di fronte ad uno di quegli autori che vuol dar sfoggio del proprio sapere?

 La risposta a tutte le precedenti domande è No. Bianca Mannu scrive prima di tutto per sé, lo fa per esprimersi, svuotarsi, lasciare tracce. Pubblica senza troppi dubbi o pentimenti, ripesca dal passato, rimaneggia smaliziatamente, senza fisime taglia, riadatta e definisce.Ma soprattutto scrive senza voler piacere a tutti ad ogni costo e senza ambire a diventare un’autrice per le masse, rifiuta di essere la tipica personalità che potremmo definire pop. Al contrario, vuole scrivere per creare stimoli: “Se un lettore non conosce una delle parole… è meglio: la cerca nel dizionario e impara qualcosa”. E non teme nemmeno che il suo libro venga aperto, scrutato superficialmente ed immediatamente accantonato per il suo difficile fascino, per la sua occulta missione didattica. 

Il suo è un sorprendente atteggiamento di attaccamento alla lingua, porta avanti una filosofia totalmente contraria al livellamento culturale che viviamo quotidianamente nel cedere sotto ai colpi di falce messi in atto dai mezzi di comunicazione di massa, sempre più sempliciotti e banali.Eppure non si tratta di una purista dell’Italiano: accanto a termini quali singultiproteo o preconizzare, possiamo incontrare clacsongarageDNAaction painting e doléances. I casi sono vari: parole straniere d’effetto scelte ad hoc, altri stranierismi più consueti già facenti parte del nostro dizionario, ma anche termini desunti dalla terminologia scientifica e dalla tecnologia.

Altro dato interessante è quello delle tematiche scelte: Bianca Mannu guarda al passato, lo fa per “distruggerlo” nel presente e per vivere con impeto l’avvenire. Il trascorso appare e riappare come fosse quasi un incubo ricorrente e di rado si configura come un tempo di “memorie” da voler rivivere o da rievocare con mestizia e nostalgia: ”Taluni miei pensieri / e certe immagini tue / si tengono per mano / senza volersi bene”. Il ricordo dell’avvenuto è carico d’ombre e spettri sempre vivi: sono tuttavia entità destinate a soccombere sotto la reazione energica dell’autrice, che con l’atto poetico, e poi concretamente nella vita, affronta di petto il dolore, guardandolo diritto negli occhi.

 Tutto è descritto attraverso un approccio pesantemente fisico, orgogliosamente sanguigno, con i sensi aperti alla ricettività fin quasi all’estremizzazione iper-realistica. Pertanto desumiamo che la raffinata scelta lessicale non sia finalizzata a conferire al lettore sensazioni di leggiadria o di spensierata eleganza, di femminil grazia spesa in una Primavera dai capelli al vento. Tutt’altro: emerge una visione dell’esistenza vissuta di pancia, dipinta a tinte acide, dagli odori acri, dalle superfici scabre e taglienti. Come visto attraverso una lente vagamente deformante, il mondo di Bianca Mannu è scomodo e inospitale, a tratti asettico, gelido come il cristallo e perfino infetto, oppure fatto di polvere, fango e polistirolo. Ogni riferimento alla sensorialità è ben evidenziato.Del proprio universo l’autrice nota le pecche, le pene, gli aspetti squallidi e nauseanti, ridicoli e fastidiosi. Parla della degenerazione fisica e cita di continuo immagini concrete di oggetti, luoghi e materiali come metafore interiori di un disagio pressoché perenne. Persino parla della sua “diurna voglia di morte”.

Se poi però affondiamo la vanga della nostra attenzione sul senso finale di ognuno dei piccoli capolavori compositivi, non possiamo che restare sorpresi: tutto quel combattere tra le spire del negativo, si rivela in conclusione uno sforzo vitale animato da una speranza sorprendente, da una positività onnipresente, benché strisciante e mutizzata, ma finalmente determinante nel farci capire che in fondo, nonostante la rabbia, la solitudine, lo strazio, ogni esperienza vale la pena d’esser vissuta.

I seguenti versi risultano essere, in tal senso, particolarmente significativi: “Finché avrò guizzo d’intelletto / soffio ossigenante e cuore / - lucida intensione - / scaverò segni/parole – mio sangue / già antico e captivo - / con l’unghia della mente / sulla silicea sordità / di questa Babele planetaria”.La sua percezione del mondo è quindi, oltre all’allucinazione della trasfigurazione poetica del sentimento, estremamente lucida e contemporanea. La sua è una visione consapevole, un’indagine compiuta da chi sa di aver vissuto tanto e di essere arrivata ad un punto importante di un cammino: “Del tempo che mi resta / ho miope lo sguardo”. Ma non c’è lacrima, piuttosto cinismo e autoironia, o meglio la volontà di auto-ritrarsi nuda e cruda. Tuttavia si scorgono qua e là minuscole pennellate di lirismo e di intima tenerezza: “E il risveglio spolvera l’aurora / d’una benigna nostalgia / che percorre il possibile imminente”.  

L’autrice crede nella tecnologia, che lei stessa utilizza per la sua arte, e soprattutto crede nella gente, nelle capacità dei giovani, nelle loro idee, nei loro sogni. Per questo suo essere tanto ispirata quanto stabile, coi piedi ben fissi per terra, non manca di far spirito sulla categoria “poeti”, nella quale non si identifica, e sul loro “poetare” messo in pratica attraverso il piangersi addosso, l’atteggiarsi da esseri diversi, egocentrici, agrodolci e perennemente sconsolati.

 Non resta che leggere e apprezzare le composizioni di Bianca Mannu, leggere e rileggere per cogliere con la dovuta calma i sensi traforati e i sensi risparmiati tra – i - fori delle sue parole.

venerdì 1 maggio 2015

In un’altra serie - inedita di Bianca Mannu con breve nota

Oggi, Primo Maggio, impossibile festa. 
I tenaci si sono incontrati a Ragusa affratellandosi con quelli che arrivano dal Sud.
I più giovani s'ubriacano di musica e di chiasso nella primavera romana che non promette frutti.
A Milano l'Italia soddisfatta e tronfia di potere, di soldi, di goduria, celebra i suoi fasti ed esulta, come se il suo peso su tutti i deprivati fosse lieve, anzi come se quei tutti, schiacciati, non contassero; e anzi dovessero unirsi all'esultanza che li esclude.   
Ma a Milano lo schiaffo dello scialo fa rabbia. E la rabbia è una compagnia discutibile, certo. Ma chiediamoci: chi ha messo su il cantiere della rabbia, chi l'ha coltivato oltre i limiti? 
Perché i filosofi a contratto della TV sono così strabici da evitare
di connettere i problemi?
Dunque sono triste e vado a trovare coloro che sono stati o stanno per essere collocati 
In un'altra serie
Eri «io»  un attimo prima
del bando di sequestro –
prima dell’esplosione sabbiosa
nel cervello 
dove era già caduto
l’uranio impoverito del licenziamento.
Impossibile  «io»
nell’istantaneo tremito
di foglia
sull’assurda spoglia
dell’umano tempo.
Uscita dal senso
né viva né morta -
anche la rabbia
abortisce
con l’inutile sudore

Divelta e  muta
una vecchia canna
oscilli adesso
come cieco  avanzo d’alluvione
che scorrendo
ti prescrive aliena -
immondizia sulla proda. 
E stai
come se con le pinze
ti stipasse agonizzante
nella turpe sequela d’insepolti
ancora in cerca di recesso
per disfarsi.

Non sa di niente il nome
se non congiunto
al feroce attributo d’incapiente .
Questo pare non sporchi
il pensiero e la bocca
di chi ti cita in numero
per  indicare  una fraternità
piuttosto ingrata
che un giorno o un’ora avanti
avresti urlando denegata.
Ora - senza benvolere -
sei candidata ad occupare
il budello della gora
o a sbandare tra le pile
del ponte del  viadotto
come animale dannato
agli inferi cerchi
del “civile assetto”.

mercoledì 29 aprile 2015

Resistere /poetare

Resistere e lottare è pregiudiziale quando l’imminenza della situazione drammatica lo richieda.
Anche il/la poeta, la/lo scrittore, il /la pensatrice sono/è prima di tutto essere umano civile, che condivide i problemi e le ansie dei molti con la sensibilità che gli/le è propria. Soppesa senza troppo contarsi e sceglie il senso del suo esistere ora come uomo e in qualche modo sospende alla sua umana tensione  attuale ciò che  forse sarà materia di parola piena. Forse non ci potrà essere poesia senza questa profonda adesione all’umano.
Poesia è anche prassi etica? Sì e no. Ma è meglio sì. Perché, come sostiene Quasimodo, il poeta è assediato dalla società asservita al potere, essa vuole fregiarsi di lui e asseggettarvelo; ma,  nella misura in cui l’intensione poetica lo abita e lo motiva egli vi resiste. È e  resta eminentemente solo.  


Alle fronde dei salici

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.


Premio Nobel per la letteratura nel 1959

lunedì 27 aprile 2015

Resistenza - Commento con poesia di Alfonso Gatto

Resistenza è  virtù delle persone che - mentre stanno subendo decisioni altrui, dunque imposte, o che scontano esiti del proprio consenso magari sbagliato oppure quasi estorto con inganni - contrastano, agiscono ostacolando quelle decisioni.
Resistenza  è opporsi delle persone (così dette semplici che semplici non sono) col loro vivere/fare quotidiano a un sistema che, per perpetuare il suo potere, innesca/ha innescato un processo che impazzisce e che, pur di conservarsi il potere, diviene perno di scontro insanabile tra i suoi stessi cittadini, mettendo a rischio mortale la sopravvivenza dell’intero gruppo sociale.
Resistenza è risorsa e risposta alternativa di popolazioni solitamente inermi, laboriose, capaci di logica pratica, ma destituite di potere politico e giuridico, esposte al ricatto e alla marginalizzazione/esclusione dalle decisioni che i centri del potere confiscano per sé, infrangendo ogni limite.
Ecco perché è stata chiamata Resistenza la reazione, ormai storicamente definita a partire dall’8 settembre 1943, di una parte non maggioritaria di italiani contro il governo Repubblichino (di Salò) e l’occupazione tedesca.
Certo, senza le Forze Alleate, la situazione italiana avrebbe conosciuto l’abisso. Ma le decisioni prese all’unisono da gruppi politicamente e territorialmente diversi della Penisola e disposti a correre i massimi rischi, ha incoraggiato ampie frazioni della popolazione civile a schierarsi dalla loro parte aiutandoli, sostenendoli, riconoscendosi nel loro operato e cooperando apertamente per cacciare i tedeschi dai nostri territori metropolitani. Un esempio per tutti, le Giornate di Napoli.
In quel modo, quella parte di cittadini si è assunta la responsabilità, a prezzo di tante vite e sofferenze durissime, di restituire al popolo italiano la sua compromessa dignità e ha reso poi necessaria e reale la costituzione dello Stato Italiano democratico.
Dovremmo però rimanere consapevolmente distanti dalle celebrazioni “d’ufficio” gonfie di retorica. La retorica falsifica e sminuisce l’apporto smisurato da parte di chi si sacrificò allora e di chi anche oggi si espone al sacrificio del proprio personale interesse, pur non avendo rilevanza pubblica, per difendere principi di giustizia sociale  e morale. La resistenza dovrebbe essere un atteggiamento permanente contro lo strapotere di chiunque pretenda di erigere baluardi e steccati sociali e razziali contro qualcuno o gruppi. La resistenza è efficace quanti più cittadini vi partecipano, quanta maggiore consapevolezza sorregge quei comportamenti che sono l’essenza di vera inclusione e crescita civile.
Mi piace perciò ospitare in questa pagina una poesia di Alfonso Gatto tratta da «La storia delle vittime».

martedì 21 aprile 2015

Se meno che un sogno - inedita di Bianca Mannu

Se meno che un sogno -
forse vago indizio
o refolo
impigliato al rostro
d’una memoria immemore -
si sveglia in un adesso di schianto –
tu – col sangue che fugge – vai -
caparbiamente vai
dietro alla tua fame di vita –
come un gamete all’ovulo…
annusando nella rifa mortale
un profilo d’alba esangue
smentito dalla sorte
sbocciata dall’estro avaro
dei figli del dio maggiore.


Un passaggio per il Nord-
infernale annerirsi dell’azzurro
in un sudario molle.
Infilare  fiato e sistoli
tra morte e morte
per arpionare il volto ghignoso
d’altre pretestuose croci.
Cortina buia – il futuro.
Pietra - il cuore umano
che chiede al ventre l’intelletto


Son convocati a complici gli dei
dai loro piccoli custodi 
armati fino ai denti 
per nuove strategie d’annientamento ?
Davanti gli altari  -
vuote le orbite di sguardo
sopra gli  olocausti -
stanno in attonito silenzio
come chi non sa perché
 il dio frequenti al momento altri distretti
Forse - semplicemente - non sono più
né mai sono esistiti – gli dei –
se non come dito -
troppo umano dito del potere -
puntato (e poi negato)
verso inferni già istituiti.


Sei solo  - uomo.
Tua eternità è la specie.
Tutte le briglie strapperà la specie
dalle mani del piccolo sciamano,
dalle mani del grande imperatore
dalle mani del soldato inferocito
dalle mani dell’avido borghese.
Ma sarà il solco praticato
nel ricordo  delle piccole vittime
a custodire il seme delle piante
più infestanti. 







domenica 19 aprile 2015

Giocare a "La tua morte è mia vita " E che vita!

"Mors tua, vita mea" era, presumibilmente un saggio motto per significare che nel ciclo naturale della vita, il trapasso di una generazione di viventi dovesse lasciare spazio alla vita della generazione successiva.
Oggi pare invece che l'opulenza postmoderna, ottenuta togliendo ai molti esseri, e al pianeta stesso, il diritto ad accettabili condizioni di esistenza, debba condensarsi insensatamente nelle mani di alcuni, senza che vi sia il minimo conato di desiderio di esistenza oltre il proprio fradicio ventre e l'immediata genia.
Non si esprime alcuna solidarietà operativa per le moltitudini di poveri, prodotti della logica cumulativa fredda e perversa di quei Mida, anzi si soffia sulla pancia egoista del pidocchio di qui e di quello di là, contro il povero di là : investire denaro sul tracollo totale di altri, non importa chi, non importa come, a man salva e persino con tranquilla coscienza, perché così posso diventar ricco da un giorno all'altro, o posso diventare ancora più ricco e controllare la mia ricchezza contro i bisogni urgenti e inevasi di altri. E così la vita degli ultimi, che pure è una vita di cacca, deve ogni giorno misurarsi con i denti e le unghie dell'ultimissimo, ancora più orribile.
La ricchissima Europa fa del mare il suo filo spinato, fa dell'inclemenza meteorologica e della  micidiale lotta politica dei subalterni e degli esclusi il suo baluardo e il suo miserevole alibi. Non vuole guardare ciò che pure ha prodotto col suo dominio e la sua egemonia . E dove non c'è mare, c'è la mutria della sua stupida presunzione: dove l'individuo, ridotto alla corporeità dei suoi immediati bisogni, essendo nella condizione di monade solitaria della propria impotenza, deve pensare/inventare senza sosta modi per sopravvivere, anche contro quelli come lui, deve divenire l'umano imbestiato.. Eccoci tutti ridotti a lotte ferine, aggressioni per una spettrale salvezza tra disperati e fra loro e noi penultimi, immenso residuo della decadenza, a cui del "noi" rimane il negativo di ciurma incattivita . Perché così, chi ha potere elude la possibilità di essere individuato come causa efficiente e può meglio regnare. Monarchi di denaro, senza nobiltà, usurai, schiavisti per mezzo di anonime strutture, per interposti schiavisti e scherani, tutti coinvolti in un gioco di complicità da cui non si esce: la struttura perversa perverte e riproduce le condizioni della propria perversione.  
Tristemente, come non constatare che ciò che credevi un limite si sposta e tocca una nuova aberrazione?.

Chi voglia può seguire il seguente link

http://www.huffingtonpost.it/2015/04/07/syrian-journey-videogioco-bbc-utenti-rifugiati-siriani_n_7016036.html  

giovedì 16 aprile 2015

Report dalle cuspidi modulari - composizione inedita di Bianca Mannu

Curve tendenziali di numeri/profitto
segni dall’apparenza inerme
rivolti al cielo o al suolo
d’un misterioso quadrato cartesiano …
Come traiettorie d’aquiloni
cancellati alla vista
da siderali lontananze
s’incidono
s’intrecciano come gioco di voli
in un cielo  di cristalli liquidi
vietato al passaggio
di nuvoli e di venti …

Sono spie d’eventi/effetto –
capital gain realissimi e virtuali
difesi nei caveaux
Sono  vettori di valori
monetari
spinti da cupidi voleri
verso vertici di poteri  
tramite incitamenti per tattiche speciali
da sviluppare fuori scena
nelle quinte dei capannoni
alle bocche degli altiforni
nei cunicoli delle miniere
nelle modernissime
galere d’assemblaggio
di gadget e di high tech.

Dicono sia il senso del progresso
se l’operaio reprime
il suo bisogno d’andare al cesso
per meritarsi il posto di lavoro
e il favoloso tesoro
d’un miserabile mensile…
A tentare un’altra strada
si finisce come in Cile
o come in Argentina
oppure si accede
al “comunismo della Cina”
dove si condivide smog a tranci
e si appendono ai ganci educativi
i dissidenti …
I buoni affari rendono amici
gli antichi contendenti!

È il portato dell’economia globale  
quasi una sorta di condizione
meteorica impersonale…
Passerebbe  come evento naturale
se non si vedesse il dito 
a indicare il grado d’appetito
in abito sociale
di certi uomini stempiati
seriamente impegnati
in un plausibile gioco
di procedura tecnica –
neutrale algoritmo - dicono -
procedura razionale d’innocue abilità
apprese per sorte e familiarità.

Cenni di freddo desiderio e  calcolo         
nel moto misurato della mano 
su quelle X di piglio svettante
d’apparenza un po’ casuale
e un po’ disciplinata –
disegnate come fregi di pregio
sulle scacchiere/schermo - lassù –
ai piani alti di sontuosi grattacieli
Lì – curiosamente – si dice -
siamo tutti ben rappresentati
nella forma essenziale di numeri
spogliati di tutti gli accidenti.
Tutti lì formalmente uguali -
Vedi, la democrazia?!

Dal loro eminente piano
i signori del momento -
o forse per commissione
i loro abili scrivani -
si chinano appena
sulla nostra infinitesima esistenza:
studiano la tendenza
e decidono il gioco delle partite
d’algebra sociale.

“Qual è lo scarto per eccesso o per difetto –
il limite  – chiediamo - insomma
del quoziente stabilito o forse appetito?”
Convinta e secca la risposta:
“Questo non si può preordinare!
Questo dipende dalle linee di forza.”
“Dalla forza del dito?”
chiederebbe  Simplicio.
Ma quale dito mai!

Il dito  sono acque
son sottosuolo e mare
sono miniere e campi
sono stabilimenti e scuole
sono i pensieri introdotti
nelle teste dei  pensanti
con senso e senza assenso –
da discriminare!
Sono carceri e armamenti
per spegnere fermenti di dissenso
dovunque occorra l’assoluto
bisogno di quiete sociale.
Il dito affusolato del magnate
e quello asservito del commesso
infervorati lungo vettori ascensionali
sono la mossa gentile
d’una caccia spietata
ai muscoli e alle vite
di chi muove il badile
di chi apre le strade
di chi suda e  non vale
la sua stessa vita.

Dove mai siederà la pace -
se non nei cimiteri -
finché il quoziente
dell’imprescindibile equazione
dello scambio organico e sociale
spinto sull’alto crinale
dell’appetito personale
dell’interesse unilaterale
dei pachidermi umani
sta per principio etico e morale
di interessi così detti generali
a coprire gli orrendi genitali

del Leviatano capitale.

Nota Sarà poesia, non sarà poesia? Qualunque cosa sia, certo non serve, non vuole servire da cremagliera per portare l'acqua del consenso ai piani alti, dove stanno i regnanti sulla meteorologia sociale.
Si parla di default della Grecia, come se non ci si potesse riferire alla sua popolazione come a degli esseri umani - la maggioranza dei quali è in paurose condizioni di povertà, anche se i nostri media hanno ripreso il vecchio silenzio - ma a dei sassi che possono essere ammassati, spostati, triturati, ridotti in polvere, "asfaltati". Essi sono già vittime della loro classe dirigente,  così come i milioni di italiani ridotti in povertà sono le vittime designate a pagare con la loro pelle, la valanga di mostruosità politiche e economiche della propria classe dirigente.E a tutti costoro altri se ne aggiungono continuamente, stretti alla catena strangolante dei potentati mondiali furiosamente presi dall'accumulo e dalla sussunzione di ogni risorsa naturale e umana attuale e possibile al loro esclusivo profitto. Non ho potuto evitare ancora una volta con scoramento, di pensare che la logica perversa che ci tormenta, che sta scaraventando in un baratro incolmabile  una grande porzione di cittadini, è quella degli usurai, ma di gran lunga più perversa, perché ha asservito e sciupato, con le forze della gioventù, anche la forza dell'immaginazione.
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