Un
occhio, lì per lì anonimo, come una macchina invisibile del tempo, dei luoghi e
dell’anima, che, oscillando tra dentro e fuori, tessa l’arazzo mobile di un
piccolo agglomerato umano, a cominciare dalla geografia di un interno
significativo, caput mundi (casa e studio notarile, con notaio e famiglia), che rotoli a tentoni verso un passato introvabile nel
cimitero di croci smemorate, e da lì verso un presente, già storicamente morto,
eppure obbligato da una regola invisibile a perpetuarsi sui tracciati fisici
del discrimine sociale: la tronfia evidenza delle magioni patrizie che si
fronteggiano sul Corso, i manufatti abitativi spontanei di Seùna, gli ampi
fortilizi dei pastori
a San Pietro, tutti a significare ordinamenti, proibizioni e induzioni, che
solo i nativi assumono come propria terribile
pelle.
Il
ricordare è attivare due logiche, quella tra il mito e l’oggettività dei fatti
di cui si è stati testimoni, e quella interrogante, soggettiva, esterna e
giudicante. Quest’incontro rende possibile la narrazione scritta, che estrae nodi
logici e attribuisce evidenza a tratti comportamentali e motivazioni che muovono
il mondo e le vite dalla soglia inferiore della parola.
Nuoro,
la vera protagonista del racconto, è
divisa in tre parti come la Gallia di Cesare. Esse rispecchiano le tre
categorie sociali che le abitano: contadini,
pastori e signori. Nuoro è Nuoro ed è mondo, “nido di corvi”, cioè patria di
uomini che - malgrado l’ubbidienza all’uso di “fare le parti” con l’eccedenza
di un bene, oppure fare «sa paradura» col dono di bestiame a chi, per
disgrazia, ne rimane privo - “non hanno amici”, non conoscono la compassione
per lo sfortunato o l’ impoverito.
Si direbbe che quel mondo, di poco più di
7.000 anime, manchi di un minimo di coesione sociale; invece, paradossalmente,
trova il suo collante nella pressione dell’interesse acquisitivo individuale
verso beni materiali altrui, perché il raggiungimento, legale o meno, di quel
possesso, suscitando intorno desiderio e invidia, incrementa la stima sociale per il possessore o il pretendente
vittorioso, indipendentemente dal valore effettivo dell’oggetto agognato.
Un’avidità
triste e perversa pervade e avvelena le
motivazioni degli individui di tutte le categorie sociali, come delle loro
larvali associazioni, le quali si rivelano strumentali all’interesse immediato
di un maggiorente o di un prepotente. L’avidità è il sintomo tragico che
pervade la vita di tutti, trovando il suo compimento nella morte fisica,
preceduta dallo sfacelo economico, personale e talora familiare, mentre
sprofonda senza residui nella cimiteriale mancanza di memoria civile e storica.
Nuoro
è sede vescovile. E si deve al trasferimento vescovile da Galtellì a Nuoro, la
trasformazione del villaggio in capoluogo. Dunque le gerarchie religiose hanno
una singolare importanza nella vita della città e sono viste come ascensore
sociale da certi piccoli proprietari dei paesi circonvicini o famiglie di signori decaduti, ma i gradi
superiori (vescovi e arcipreti ) sono ancor più un obiettivo di potere che facilita il rientro nella legalità delle
stirpi pastore asserragliate dentro le loro case alte, circondate da cortili
ampi come tanche e difese da recinti e portoni.
Che
ne è, in simile contesto, delle relazioni tra uomini e donne, su cui dovrebbe
fondarsi la continuità culturale e storica del gruppo sociale? Pressoché prive di reciproca empatia, quelle
relazioni sembrano non avere esito diverso dalla procreazione e dalla rigida
trasmissione de “su connotu”, l’etos
tradizionale sotto il segno della legge patriarcale più impermeabile, la quale
si combina, presso i più poveri, con la
massima espropriazione di lavoro e l’assoluta subalternità femminile. Le donne,
di stirpe plebea o patrizia, non hanno statuti di dignità sociale. Sono
strumenti per altri fini, e come strumenti si percepiscono e soffrono senza
capire la logica della loro condizione.
Però, come talora accade anche nelle più rozze
formazioni sociali, dai loro trascurati o marginali interstizi emerge il
fermento d’una possibile resistenza (per esempio la resistenza recessiva di
donna Vincenza); oppure sorge, mediante la carne e la mente di un singolare
vivente, l’inquietudine analitica e dirimente che cerca in sé o attorno a sé un
senso; magari tenta di
inventarselo. Ma l’innegabile insensatezza
della natura e dell’uomo, pur nel cambiamento dei moduli sociali e culturali
per via di adattamenti legnosi a richiami d’oltremonte o d’oltremare,
continuerà come tale, per incoercibile costituzione
dell’umano. Sebbene agiamo come se perseguissimo uno scopo, esso non è nell’obbligato
traguardo del vivere (cioè la morte, il nulla), è nel tempo sospeso della
durata della vita e nei modi, terragni o elevati, di spenderla, secondo quanto le
qualità individuali e le circostanze consentono, stando alla concezione dello
Scrittore.
Toccherà
proprio a Sebastiano junior, allo Scrittore che cela dietro quel nome la condizione
di figlio, appunto … È suo l’occhio anonimo, è sua la mente trasformata in
macchina del tempo e dell’anima; tocca a lui ricomporre col ricordo la Nuoro
del suo tempo fanciullo, l’antitesi di Atene, la ferita ombelicale dell’umano
consorzio . E di tale esumazione fa il suo scopo e il suo premio, certo inutili
secondo il nostro Autore, in quanto non mutano la natura e gli effetti dei
fatti, ma forse gettano luce d’intelligenza sulle umane cose, mentre dura la
vita di chi considera e riflette.
Ultimo
nato della numerosa prole del citato notaio - in virtù della sua naturale
sensibilità e di un salvifico distacco culturale e morale, germinato sul
crinale dell’incipiente conflitto sociale e culturale (sub specie di disaccordo
coniugale) tra suo padre, Don Sebastiano, e sua madre, Donna Vincenza. Un distacco maturatosi
con gli studi giuridici, i contatti con altre costumanze e una eminente
tensione etica e poetica. Con tale
supporto si fa capace di ricomporre e in
qualche modo ridare vita e umano congedo alla congerie nuorese pre e
postbellica del Primo Novecento.
Il
predetto conflitto coniugale tra Don Sebastiano e la consorte Donna Vincenza , il matrimonio imploso e la
sostanziale incomunicabilità del fratello Ludovico con Celestina Mannu, così
come la folle alienazione di Gonaria e di altre donne destinate alla perdita
totale del perimetro personale, non sono
le eccezioni a una regolazione
tranquilla dei rapporti sociali e di genere, sono gli effetti devastanti della
logica strutturale divisiva e gerarchica del Padre legislatore (il grande
Altro, direbbe Lacan) che si impone come la forma naturale assoluta del mondo.
Lo specchio dentato entro il quale la metà compressa ed espropriata del mondo
si percepisce, cioè le donne, è una macchina deformante in cui il mandato patriarcale
continua a infilarle e manipolarle, e che il motto di don Sebastiano verso sua
moglie ben compendia: “Tu sei al mondo perché c’è posto”. La natura astratta
del “posto” implica il dissolvimento di
ogni tensione e criterio autoctoni del femminile, riconducibili a istanze che
il predominio patriarcale non sa e non vuole considerare .
Nota
Devo alla mia amica Maria Concetta Rosa Giannalia questa mia attuale rilettura del formidabile scrittore, giurista di professione, il quale negli ultimi anni della sua vita, mosso dall'insistenza dei suoi ricordi giovanili, ci ha regalato uno dei più bei romanzi italiani del Novecento.
La Prof. Giannalia ha recentemente inaugurato presso la Biblioteca Comunale di Quartu Sant'Elena un corso di animazione culturale volto alla promozione della lettura di opere di qualità e di stile.