sabato 28 ottobre 2023
Verbi e di-verbi: Lettera al guerriero - di Bianca Mannu in Sulla go...

Lettera al guerriero - di Bianca Mannu in Sulla gobba del tempo (antologia di 4 Autori -2017)
Un desiderio d’alba nuova
congelato nell’intima sutura
del corpo con la mente
sanguinando vive
in quest’adesso di polvere - di sabbia -
di voci abbaianti e grinte ottuse -
di cieli infranti precipitare orrendamente
su ogni palpito di vita
L’ora e il suo futuro - diamante nero -
ritorna simile al passato
come se quel suo orrore
non potesse trovare sepoltura
ma coprisse maledicendo
dal suo marcio sudario
ogni fraternità possibile
Tempo presente: luogo dell’assurdo
Si sopravvive - quando si sopravvive -
come in un cattivo sogno -
quasi che le ragioni postume
di coloro che non poterono mostrarle
si fossero animate nei viventi
come sete d’ inestinguibile vendetta
contro chi forse
contro chi non traeva dalle ecatombi
giovamento
Un’ingiustizia enorme pretende acquetarsi
in omologa ingiustizia
Per questa via il tempo della vita
- d'ogni vita -
rimane incatenato all’angoscia del possibile:
coltivi la paura e la stordisci
danzando il sabba della morte
Quando il silenzio tornerà nella canna
del tuo mostruoso carro
o dentro la fusoliera del tuo moderno bombardiere -
quando il silenzio salirà dai cimiteri -
sarà ancora la voce flebile del vento
a farti tremare di paura
o guerriero d’una cattiva patria.
"Nonostante il carattere
persistente e duraturo del mito del guerriero, Fallaci lo scompone con l’arma
del logos ovvero dell’argomentazione razionale e logica. È
un compito attribuito in maniera corale, oltre che all’autrice stessa
(narratore) e all’intelletto in generale (figura del Professore, emblema dello
studioso). Inoltre, hanno voce in capitolo alcuni importanti rappresentanti
dell’esercito stesso nonché, cosa interessante, gli individui marginalizzati e
periferici sia nella struttura romanzesca sia quella sociale (soldato
omosessuale e soldati semplici). La decostruzione del mito del guerriero si
effettua per mezzo di alcune strategie quali la critica della guerra
contrastata dall’elogio della vita, la contestazione della professione di
soldato e la messa in ridicolo del culto del fallo, strategie che ora si
cercherà di analizzare."

martedì 10 ottobre 2023
ARSA in Dove trasvola il falco Ed.Thoth - Bianca Mannu
Arsa
fuori dal tempo
una larva di storia
tra schegge e
scorie
incompatibili
Come un fuori
la guardo
devastarmi dentro
col calcagno di fuoco
premuto

lunedì 2 ottobre 2023
Vertigine - graffito in Quot dies - Bianca Mannu
Ritagliava uno
spazio
d’orrore
euclideo
sotto i passi …
Come un pane,
azzimo e
raffermo,
il colle,
camuffato
nella
precarietà perenne
dei nuovi
abituri,
di colpo
mostrava
-
sfacciatamente glauca -
la mollica a
perpendicolo
su un fondo
d’acqua
ruvida di sassi
verdemente
lanuginosi
d’umida
vecchiezza.
In quell’iride
cieca
un’angusta
misura d’assoluto:
obliqua aleggiò
l’ombra
d’un possibile
volo …
- Un balzo, poi
… più niente.
E la madre,
grande,
si stagliò nera
sull’orlo
e follemente
giocò
con la
vertigine bianca
della bimba
senza gridi.

lunedì 25 settembre 2023
Verbi e di-verbi: Cattiva infinità - graffito in versi liberi - Bian...

Cattiva infinità - graffito in versi liberi - Bianca Mannu
CATTIVA INFINITA’
cattiva
infinità di
sbattimenti
d’imposte,
su sciacquio ineguale
d’acqua
fuggente
che scioglie –
raccoglie,
nel risucchio
d’un gorgo,
vane, taciute
voglie;
rombi – sibili
d’automi
domesticamente
selvaggi,
brontolii di
casseruole
con scoppiettii
di fiamma,
gorgogli di
solite pentole,
rumori di cocci
incrostati,
strofinii di
rudi posate
su fondi
ingobbiti di teglie,
scampanellate
irritanti,
squilli
pungenti,
sibilanti
messaggi,
stridenti
passaggi
dai toni
sommessi
agli scoppi di
voce
in frastuono
d’odori
tra gelidi
umori,
immediati
rossori,
subitanei
pallori,
vergogne
fissate
nel cibo sul
piatto
e, con esso,
ingoiate.

sabato 2 settembre 2023
Il signor Vannacci - Bianca Mannu
Di lui molti, come me, non sapevano l’esistenza, tampoco erano informati della sua condizione di alto graduato delle Forze Armate Italiane. Adesso sanno e so.
Egli, per
via di una forte pulsione comunicativa e plausibilmente regolativa del
disordine imperante, ha dato alle stampe un libro con cui ha voluto annunciare
la sua “nuova” Weltanschauung.
Sono stata costretta, persino io che non esisto sotto
spoglie pensanti, a sorbirmi la noiosa ridda delle reazioni e interpretazioni
al neon dei mass media, Costituzione italiana alla mano, ora rivisitata con le
lenti della sinistra, ora ripassata per gli astigmatismi imbarazzati della
destra. Per colmo di bizzarria, la destra del Ministro Crosetto, presa alla
sprovvista, ha minacciato la degradazione dell’alto militare, mentre la destra
di Salvini gli ha offerto il meglio:
la candidatura alle europee.
Il Presidente della Repubblica gli ha lanciato di
striscio un fervorino dissuasivo, ma pacifico e paterno.
Non mi soffermo sulle dichiarazioni soft dei
professori di diritto, di alcuni magistrati in pensione, né sui reportage di
certi giornalisti entusiasti del successo del libro al botteghino. Manco avesse
riscritto La teoria delle monadi, per
ricordare agli umani del ventunesimo secolo che “il
possibile” è per loro del tutto fuori portata.
Egli si volta semplicemente indietro e prende a sistemare
la pericolante situazione delle cose capovolte secondo la ratio del mondo d’una volta, dove l'evidenza perpetuata e nobilitata dalla tradizione indicava il “noi”, dotato d'infule sacre, idonei a delimitare tempo e spazio a tutti gli “altri”.
A questo punto dell’infinita diatriba mediatica suscitata dal libro di Vannacci, mi
sento tirata per i capelli a dire ciò che segue, forte della mia debolezza in
titoli e stellette, ma d’anni ricca e di quelle esperienze che segnano la
discrepanza tra la pietraia dogmatica gradita a “lor signori” e il mio alieno dovervi
tirare i passi evitando possibilmente di soccombervi. Sfugge al sig. Vannacci la conclamata evidenza che neppure
il mondo minerale permane in assoluta staticità, come ben sappiamo.
Il fatto è che il delirio del potere alimenta il
volere di imbragare corpo e mente a tutti coloro che il potere non l’hanno.
Come?
Con l’impoverimento, la colpevolizzazione, la paura
servile: «Sei disoccupata, sei occupata e
povera? Mica vero! Intanto mangi meglio dei ricchi, perché hai la furbizia di
“vendemmiare” gli orti di straforo e i
bidoni dei mercati, campi troppo a lungo
e perciò costi, sei molle, pigra, manchi d’inventiva e di spirito di
adattamento, sei un peso sociale. Vuoi vivere a spese dell’erario, eh?» (Ho usato il femminile perché non esclude)
E si fomenta il senso di disprezzo per i
gruppi di cittadini bisognosi di
sostegno, come se l’erario (il monte del gettito e le risorse di stato) sia il
miracoloso frutto del capitale esosamente accumulato dai magnati (in buona parte stipato nei caveaux dei
paradisi fiscali) e non il frutto del lavoro umano estratto in forma di
profitto, di mancate garanzie, gravato di tasse sul salario e sui consumi, per
servizi sociali non erogati. (Cito
Caivano per mille e mille altri inferni).
Il gap sociale isola i periferici nativi e si
combina, complicandosi, con quello razziale così da scatenare guerre tra
poveri, foriere della depressione sociale, della subalternità culturale e dell’annientamento
sistematico dei soccombenti designati.
Vecchia storia, ma sempre pericolosamente attuali
i suoi lieviti. In Germania uno dei lieviti fu un libello intitolato Mein Kampf
di Adolf Hitler, che indicò la minoranza
ebraica responsabile della sconfitta della Prima Guerra Mondiale e del
conseguente disastro economico; poi con la stessa logica furono perseguite sia
le altre minoranze etniche che quelle politiche e religiose.
Anche noi italiani, in scarpe di cartone e vecchi
moschetti ad armacollo, antesignani dei Nazi, abbiamo a suo tempo biecamente e stupidamente assunto
atteggiamenti primatisti e orrendamente persecutori verso le popolazioni delle
colonie e, in patria, contro i dissidenti politici e altre minoranze.
Proprio non abbiamo bisogno di un MEIN KAMPF, né vecchio
né nuovo in formato sedici.
Dopo quella carneficina senza valori e senza onore
quale fu la II Guerra Mondiale nessuno, nessun umano gallonato o meno, dovrebbe
avere l’ardire di sostenere il proprio
diritto ad aggiungere nefandezze a quelle già giudicate dalla storia, né
spacciare come diritto di libera espressione il denegato primatismo socioculturale
sotto l’ombrello della Costituzione democratica e repubblicana d’Italia
Nessuno ha più il diritto e l’occhio bronzeo per
permettersi di stilare la nota dei belli, dei buoni, dei bravi, dei comme il
faut , dei sempre salvati, di “noi” contro “loro” spinti sulla strada della
degradazione.
Non è sufficiente darsi il titolo di Solone per
diventare credibile.
Bisogna studiarlo davvero il pensiero filosofico
nel suo emergere, nel suo articolarsi politico, nel suo complicarsi con le
istanze di classe, nel suo variare, rettificarsi e persino autoconfutarsi, prima
di proporsi a testimone impossibile di una irragione artatamente costruita.
Giordano Bruno, panteista assoluto fino ad
attingere il più puro confine materialista (come
Benedetto Spinoza), fu sostenitore della, allora “pericolosa”, concezione
copernicana, come fu elaboratore di altre straordinarie intuizioni. Egli, come
Galileo, era in anticipo sul tempo persistente degli indiscutibili dogmi e ha
pagato sul rogo il diritto di discutere il Sapere del Potere di allora. Avere la tempra umana e filosofica di un
Bruno!
Dunque mi chiedo e chiedo a chiunque: è libero il
Nostro Generale di aprire una campagna ideologica a favore del discrimine
sociale, dell’odio primatista omofobo e del ripristino dell’ordinamento
familistico patriarcale.
Rispondo no; né lui, né altri da posizioni di
potere.
Come privato cittadino, forse sì, ma con un po’di
grano salis, se possibile. Del resto l'arringa da rasoterra fa meno spettacolo.
Comunque fare campagna ideologica sulla base di un
sentire personale rivolto a dileggio delle persone del mondo civile prossimo o
lontano, è detestabile. Oltre che sbagliato, è privo di senso perché ridicolo.

mercoledì 29 marzo 2023
martedì 26 luglio 2022
Vibrazioni - versi inediti di Bianca Mannu
Vibra di cromo il giallo euclideo
indosso alle scarpate vergini.
Severe fioriture – albini grumi –
vestono gli ulivi di canizie
che il vento – pettinando - depone
sulle zolle già rasate e smosse
dentro recinti riassestati
a scongiuro di fiammifere intenzioni.
Verzicando in silenzio
spiattellano alla precocità
della calura i loro pampini dentati
le vigne in parata sulle zolle -
d’ogni altro stelo ossessivamente ripulite -
aleggiano come ombrelli
i loro palmi tra le spire
dei cirri e su corimbi neonati
che già cullano umorali eventi.
Immensi e sonoramente atavici
sfilano nel vespro i greggi:
smagrite perché di vello
hanno i pastori denudato le bestie -
lunghi musi penitenti
nel saio assottigliato
color dell’acqua sporca.
Dimessa veste conviene
forse a questa stasi: covato
“en plaine air” il tramenio della fatica
si spinge l’occhio esoso al frutto
che un poco sguscia dall’ambigua
digitalità di Crono e molto oscilla
sulla stadera indecifrabile di Ade.
Noticina o piccola premessa di ordine personale - Data la mia età o, forse, la mia noia verso un presente che non si decide a passare per incontrarsi faccia a faccia con una più consapevole logica, ho diradato la mia navigazione in fb e persino la mia attività in questo blog. Però penso e scrivo ancora testardamente. Il luogo dove attualmente risiedo s'impone alla mia riflessione emotiva; questa, incurante della poeticità generalmente praticata, si fa strada verso una parola che vorrebbe essere qualcosa di più elaborato rispetto, sia al pianto nostalgico per un eden perduto, quanto un dire cauto verso il sorriso di chi si esalta compiacendosi di dar voce al bello assoluto. Altresì rivendico la distanza da una nota spese o da un promemoria per gli acquisti: cerco di ricuperare la carica simbolica della mitologia per alludere al nostro dramma attuale. (BM)
giovedì 23 marzo 2023
Da Bianca Mannu per “D’oro e di cemento”- romanzo di Maria Rosa Giannalia
Da Bianca Mannu per “D’oro e di cemento”- romanzo di
Maria Rosa Giannalia
D’oro e di cemento: titolo icastico e bellissimo perché
sintesi granitica del romanzo di Maria Rosa Giannalia , nel suo riferimento
veritiero alla vicenda storica e sociale che ha interessato la Sicilia occidentale
nella seconda metà del Novecento. Anche solo per questo, il romanzo si staglia
come opera di realismo letterario, senza farsi cronaca o indulgere alla coreografia
poliziesca, invalsa in opere di genere.
Il tessuto narrativo si snoda coniugando l’uso perfetto dell’italiano
con il sottofondo melodico e iterativo del siciliano, anche al netto dei
richiami dialettali che connotano specificatamente, prima gli anni immaturi, poi i momenti psicologici e le temperie
umorali giovanili, e, dopo ancora, i discorsi interiori e l’interlocuzione, viepiù
distante e critica, del protagonista narratore con il suo mentore (il “parrino”
Michele) e infine quella con il giudice istruttore (presenza assente, come un
Dio senza deità).
Lo stile narrativo,
davvero particolare e significativo, si fa mondo e risuona come una musica che si articoli su tonalità
diverse e variazioni a strappi, ottenuti
dall’emersione brusca di motti e proverbi dialettali, punti sintomatici del
granitico legame etico culturale limitato e denso di ambiguità , cui Mimmino è costretto ad appoggiarsi non avendo potuto beneficiare di modelli culturali
di confronto prima e fuori dal suo precoce ingaggio nel mestiere. Su quel magro sostrato va a
stagliarsi il conflitto interiore del protagonista alle prese con le istanze
educative primigenie credule e gli effetti
ambivalenti, tra fascinazione e coercizione, del mondo fisicamente
incombente, reale e ambiguo.
Un altro elemento strutturale e di notevole efficacia realistica
è la considerevole competenza e disinvoltura con cui l’Autrice entra e ci
conduce nel cerchio professionale di
Michele e del giovanissimo Mimmino. Forte di questa conoscenza (quasi diretta),
Giannalia rende linguisticamente palpabile (senza mai indurre alla noia) la
ratio edile dentro la vita del protagonista, raccontando come ne diriga i sogni, ne motivi le fatiche, ne
giustifichi le scelte “amicali” e i cogenti legami d’interesse e fedeltà al
gruppo e ai capi, insieme con l’accoglimento dei rischi immediati e possibili, peraltro
pensati come controllabili ad libitum, per via della divisione dei compiti
operativi nell’ambito della cosca stessa, come l’Autrice sottolinea.
In effetti è proprio la forma mentis acquisita tramite la
pratica edile e il caotico portato
culturale di riferimento (ostaggio di parecchie confusioni concettuali, come
quella tra timidità caratteriale di una
persona e la presunta mitezza/bontà, ritenuta inossidabile perché costitutiva) a suscitare
in Mimmino il progetto allettante - da
prospettare all’uomo d’onore di una cosca esistente, ma ancora di poco respiro
- circa la possibile trasformazione
degli agrumeti in aree edificabili, con esiti molto remunerativi nei convincenti
precalcoli.
In effetti il romanzo, condotto in punta di una ben calibrata prosa
narrativa, è il percorso di educazione e autoeducazione di Mimmino. Entità
umana nell’albore della vita, si presenta segnato dal sentimento d’ingenua
identificazione con l’alter ego Michele, il buono . Ecco Mimmino, adolescente
operaio dipendente e povero, affidato a se stesso, ricco di desideri, sogni, e afflitto da
piccole scaramucce interiori; lo ritroviamo quasi maturo, sguarnito di veri
fondamenti umani, preso nei tentativi ben poco fruttuosi di corrispondere a una ideale consistenza fondata sulla bravura
professionale; eccolo ancora librarsi, nel
segno della promozione del sé e dell’ego, per proporsi a un mondo ristretto di
figure dalle referenze ambigue, mettendo in gioco la sua professionalità, ma sopra
tutto la sua aperta compatibilità morale verso l’avidità altrui, peraltro paludata
d’affabilità e d’intenzioni coperte, di cui già aveva indiretta esperienza;
infine eccolo disfarsi di ogni autocontrollo
volitivo e propendere per la facile
accettazione della via breve delle collusioni e delle prevaricazioni, verso la
scalata economica e il successo sociale …
Come cieco e sordo, precipita nella polvere della
caduta, nella irrefutabile condizione del proprio fallimento umano e della contestuale carcerazione … Il carcere,
sola casella sanzionatrice del suo crollo. Guardarsi denudato di colpo, non
solo imputato, ma proprio amputato dell’aureola dell’onorabilità umana e
dell’amabilità familiare, per l’eternità della vita e della già iniziata nuova generazione.
Infine il maturo Mimmino si
avverte privo anche del minimo desiderio di adire a una sorta di ricupero
sociale mediante la dissociazione e la delazione. Il ricorso a tale pratica
tribunalizia significherebbe potersi tirar fuori a buon mercato dalle
responsabilità assunte con le proprie scelte e assicurarsi una sorta di
sussistenza oscurata e protetta a carico della comunità sociale indistinta. Ora
la sua maturazione fulminea si commisura con l’impraticabilità personale di una
tale opzione: i fatti non si possono né disfare né bypassare. I fatti sono le
tessere episodiche e parziali di un sistema di relazioni irriducibile alla
partizione degli umani in schiera dei buoni e in quella dei cattivi, oppure
nella distinzione tra chi ce l’ha fatta senza incidenti di percorso e appare a
sé e a tutti come “a posto”, e chi –
fallito per colpa orrenda e per hybris – non potrà mai guardarsi allo specchio o
negli occhi del proprio figlio, né tollerare una specie di morte civile a stipendio
garantito.
Qui l’Autrice, nei panni
interiori di Mimmino, dimostra una sottigliezza concettuale e argomentativa, che
sembra lambire il margine delle teorie eticopolitiche volte alla ricerca
teorica e pratica delle palingenesi umane sistemiche … L’apocalisse o la
rinascita – pensa Mimmino - o è per tutti
o non è, poiché le “verità” parziali sono farsa, accomodamenti vani, incapaci
di sradicare i mali sociali e di bonificare profondamente le coscienze
individuali; meno che mai quelle che sono rimaste consapevolmente invischiate
per ignoranza, avidità e senso di prepotenza, in segrete pratiche di potere e
torti umani insuperabili .

domenica 26 febbraio 2023
CANTILENA DEL COSMO PIO - versi inediti di Bianca Mannu
un pugno d’abitanti dai gesti gentili
stanno stretti in silenzio robusto
praticato e offerto in olocausto
all’alterna voracità dei tagliaerba.
Se oggi canta il tuo – il mio starà in
riserva
domani il mio canterà il canto della
cerva:
brani classici.
2
Le “domus” lievitando sui bassi atavici
o dal suolo issandosi come cespi strabici
flirtano coi cirri dagli occhi dell’altana
e all’ospite stupito fanno moine con le
verande
dove insuperbita ristagna l’aria
rusticana.
3
Ciascuna casa ha la sua castellana
che spazza e sciorina le lenzuola:
un poco oscilla tra l’essere La Fata
e ben figurare nel ruolo di Befana.
Stessa lei che cura le rose dell’aiola
e per profitto - mai per minimo diletto
-
il retro del cortile coltiva da
ortolana.
4
I triangoli di prato sul suolo di
prospetto -
li rade lei al noto modo inglese
suonando civilmente a turni e intese
la musica del tagliaerba tecnoevo.
Perché così va il trend nel nostro bel
paese.
Andrà così finché il seccume del primevo
– Dio guardi! - non torni ad avanzar
pretese
sull’uliveto, sulla vigna ed il maggese
…
5
Andrà così finché la Fata o la Befana
di uscire nauseata dal budino
mollare l’orto il prato ed il bucato
piantare il perbenismo crasso
e l’imposto uggioso femminino
scagliare con impeto nel fosso!
6
Prevale invece il vezzo dell’abusata usanza
indotta dalla fisima di ubbidire alla
natura
dove si giura che regni sacra la
costanza.
Pur menomato d’ampiezza e di virtù – il prato
sta lì come ci fosse sempre stato
e
non ricorda il ruolo antico di pastura
aspira a definirsi emblema di onoranza.
7
Malignino pure i lividi vicini
stupiscano gli alieni ficcanaso
e
sulla sua pelle ogni cane invidioso
si gratti la molestia di certi brufolini
–
benigno rimasuglio trasformato
d’obliate zuffe per abigeato.
8
Non si sa più tra queste case
se nell’antico s’accendessero contese
tra i comiti del Re con spada e cappa –
e i contadini digiuni con la zappa.
Ai primi: titoli d’acque terre con
armenti -
anche di braghe gl’infimi mancanti
vincolati a pigliar mai mercede
e loro stirpi mai poter mutar di sede.
9
Ma i miti abitanti di questo paese
ancora tengono nove candele accese
a Santu Jacu - mediatore presso Dio
della storica miracolosa clonazione
dei bruti agresti a umana condizione.
10
Verdeggia intanto l’autunno solatio
sulla collina
la pioggia irride l’aridità che altrove
uccide.
E
ride d’acqua e sole la lucida berlina
dietro il cancello a spirali stile
liberty -
ride dall’ultima volta che inghiottì
un pieno favoloso di benzina
nel bel mezzo della guerra in Ukraina.
11
Qualcosa d’altro e di natura nuova
all’occhio altrui porge e nasconde:
cosa trabocchi e qual ritorno d’onda
viaggi
tra il nido di coppo e la leggera
alcova?
Che pietra s’abbatta sui petrosi staggi?
O sono anticipi di originali fogge?
Dentoni a schiera: gale per gronde?
dall’interno di certe grandi uova
di fasciame murario e ferree sponde.
Ogni uovo vale una teca in prova
che - in maschera - arcani privilegi
cova?
12
Il curioso – da fuori – tenta intravedere -
ma estrapola il niente o raffigura il dentroper analogia con quanto crede di sapere.
Il serio cerca e trova - pare portento
e insieme scoperta d’inattesa bizzarria.
E scaglie trova! - di luci nette e toni
décapés
degli ampi schermi di metallo brûlé :
sarà l’ultima trovata di chi ha lanciato
il probabile trendy in “stile intimité”?
13
Allo zenit il sole inonda campi e strade:
nulla si muove e al vento manca il
fiato.
Una coppia di tortore soltanto
lancia di cuore il suo amoroso canto
- Shi Shin Pin! – esclama lei
- Dìmmì di sì! – risponde lui
- Sì tì dìssi - ancora lei
E il dramma batte ancora sul tre
in-de-fi-ni-ta-men-te!
14
Similmente i notiziari TV
ripetono con enfasi meccanica
i luoghi comuni e le vecchie novità
per i marziani distratti di quaggiù
assenti per affari o per lavoro
oppure occupati a compulsare
le lunatiche classifiche del calcio
in un momento di casuale intralcio
ai tassativi ritmi della produzione.
15
Ma verso l’ora del meriggiare aromatico
dei cibi posti a sfrigolare con l’erbatico -
quasi risposta a irrefrenabile richiamo
-
si volge al desco ogni esausto Adamo.
E ancora ostaggio della gualcita tuta
o della divisa d’ufficio che non muta
- un felide smunto ed affamato –
aggredisce furioso quanto sta nel
piatto:
ingollando un boccone dopo l’altro
respira grosso e mai gli sembra tanto.
16
Entrato in fase di masticamento
il suo occhio da grifagno
si fa molle si fa stagno
indi strabuzza - fiammella al vento -
alfine illanguidisce per incanto
indi sta chiuso nell’abbraccio santo.
17
Non
è l’abbraccio di Santu Jacu
non è l’abbraccio di Gesù
ma di un narcos molto antico
molto più vecchio di Belzebù.
Il suo nome suona Morfeo
e non è pezzo da museo
autentico nume – incorporeo illusionista
-
che il bene umano mai perde di vista.
Nume che ottunde con coltri d’ovatta
i troppi bailamme della giornata -
che attenua la vista – rallenta il cuore
–
asciuga il pianto su lutti e terrore.
18
Nelle brume di Morfeo
sembra ieri e l’altro ieri
il tempo d’ogni oggi
E d’ogni stagione - questa pare
proprio la copia originale.
Nota dell'autrice
Ringrazio i siti generosi che hanno donato foto e immagini.
La ratio del villaggio globale si attorce in eterna emergenza senza capirla e capirsi, dunque senza imboccare la via di una discorsività non guerreggiata.
