Sogni. Gemmare sogni come foglie
decidue - palpitanti sulle soglie
d’un giorno breve di novembre
che riverso si scioglie nelle ombre
Raccoglierli inumiditi sulle corde
dei fili tesi tra le parole sorde -
quasi rondini in procinto di partire -
Sogni. Gemmare sogni come foglie
decidue - palpitanti sulle soglie
d’un giorno breve di novembre
che riverso si scioglie nelle ombre
Raccoglierli inumiditi sulle corde
dei fili tesi tra le parole sorde -
quasi rondini in procinto di partire -
Per flâneurs e flâneuses, la Natura – questo cerchio
che ci sovrasta e comprende – è fonte di meraviglie e sorprese, anche perché
noi, gente di scuola, siamo (fortunatamente
per noi) esonerati dal misurarci con lei dal lato lavorativo. Prendiamo la
penna e non il vomere, per non citare che un esempio.
Ti svegli un mattino e trovi la rugiada sulle vecchie stoppie degli sterri. E non vedi ancora la peluria verdolina che contende d’un niente la preminenza del giallo ocra delle dure zolle, che l’estate usava come lenti ustorie per comunicare al mondo il suo governo. Talvolta l’autunno – persino troppo generoso – ci regala/propina piogge e piovaschi. E ci lava del ricordo sbracato del solleone – assunto al tempo (impersonale magia del mercato e dei suoi agenti!) come promotore di spot pubblicitari di marine azzurrissime, popolate di fanciulle con l’ombelico all’aria e finanche coi capezzoli ventosi, al cielo erti. ( Si avverte che i commissionari – forse anonimi come il padronato delle multinazionali– siano certamente maschi? O sono femmine per maschi? Il focus è sicuramente maschiocentrico.)
Sono le autunnali baruffe d’aria a farci trovare altra misura. Con tuoni gioviali o con refoli sottili sciamanti dalle rotonde nuvolette, l’autunno (concetto molto mobile) ci conduce, per successive velature e tramite un solicello saltellante, al suo colpo di teatro: fondali e quinte da sogno ospitano défilé che s’imbevono di trasparenze blu.
Non è trascorsa un’era eppure cercherai invano di scorgere l’ocra gialla dell’enfasi solare … Son nate case intanto, sì, coi tetti nuovi ed i camini pretenziosi, ma in mezzo a orti di erbe nuove e senza nome, tenere e felici come spose.
Case nuove,
sì, ma in assenza di bambini neri o giallini, in presenza – forse virtuale – di
pochi bianchini inviati in culla a stare chiusi in asili sorvegliati. Così il silenzio nel giorno spalancato è
pressoché assoluto e garantito. E i cani – solitari dentro le stole d’erba
inglese – si sentono oberati dall’eccesso di quiete. Si chiamano allora l’un
l’altro, sia pure flebilmente (perché,
quando il silenzio è troppo grande, persino i cani stanno a cuccia intimiditi!)
per essere sicuri di essere vivi, benché con l’obbligo di guardia.
E non voglia il cielo che un giorno o una sera, questa Natura, tramite la sua immensa corte d’alberi, d’uccelli, d’insetti e di cani alla catena, sbarri la strada ai pendolari di ritorno proibendo loro l’ingresso perché sprovvisti di greenpass.
Tu, bijou
Caramellina, hm! Caramellina mia!
Già inventata e vestita come lui
crede di volere fin da ieri
quando succhiava al seno
col latte di sua madre
il gusto del futuro
desiderio
Tu- invece - “sans souci”
tu - che dicono mancante di concetto -
tu - nata per dispetto alla madre
sognante una procura
col sigillo d’un re –
un re di nobile casato –
sia pure d’orizzonte limitato …
Tu – nata contro la voglia del padre
di guardarsi nello specchio replicato
da un Delfino vergato
che ascenderà rampante
a un trono più … importante!
Tu - entità mutante
in bestiola seducente -
già loquace sgambetti
– perle/ rose/confetti -
tra le braccia di papà.
Incredibilmente fresca –
spuntata a sorpresa
dal riso d’una nuvola –
tu mattutina allodola -
tu goccia curiosa
del mondo di quaggiù -
sognavi e ancora sogni
che il Destino oppure il Fato
t’abbia scelto e designato
da sempre e per l’eterno
sulla Terra e nell’Averno
al ruolo vivente di bijou.
Molto bene ora sai tu
come finisce il decoro
che decorare non può più.
Nota - La cultura dell'immagine. Le donne, specialmente giovani e belle, diventano oggetti decorativi. Quasi inavvertitamente si finisce per cancellare nell'immagine la donna reale. Talora la stessa donna reale mostra, in vari casi, di aver difficoltà a distinguere il suo essere reale, nodo di problemi e relazioni complesse, con l'immagine fissa, depurata della fisicità e della psiche viventi. L'immagine raggruma ed eccede. A ben riflettere è la proiezione astratta di desideri, concezioni, finalità, costruiti altrove e per scopi anche molto diversi da quelli che le immagini sembrano rappresentare.
Che cosa volevo significare partendo dalle immagini che invadono lo sfondo fisico in cui ci muoviamo? Volevo far notare che siamo tanto colpiti stravolti e contemporaneamente anche attratti dall'orrore per l'irreversibilità dell'atto di violenza, che culmina con l'aggressione fisica, da avere difficoltà a ravvisare il filo tenace della continuità che collega quell'atto alle negazioni, alle denigrazioni e omissioni di rispetto quotidiani, reiterati in un' atmosfera di tolleranza silenziosa che rasenta la rassegnazione e la cecità.
La violenza si alimenta di quotidianità malate che si vivono come questioni banali che, forse, non bisogna enfatizzare e forse - crediamo - di poter anche ignorare per evitarci il dolore, la mortificazione che salta fuori di brutto quando interroghiamo dappresso la nostra quotidianità relazionale.
Noticina- M'incorono di Logudorese. Tento una "libera" traduzione in italiano della bellissima strofa di
presentazione. La piazzo in coda, chiedendo scusa ad Antonio per l'imprecisione. Ringrazio l'Autore del ritratto di Atropo.Sa morte cale ultima cumpanza
in custos versos guasi carignada
Bianca in nieddu l’at pintada
ma mai la cunsiderat istranza.
Asie in custos versos collocada
deo puru su sale de una ranza
apo agnantu cale siat oro
cun sas otavas de su logudoro.
Imbisitas de Antropo
A fregura niedda e imberritada
cun tremores pitzinnos nos istigat
cando a giannitos cun nois corcada
unu male indetzisu chi s’impigat
a bantzigos e nenias resada:
Non como, no – su tempus no nos ligat
e dende puntas dulches proe de sonnu
birbante nos cumandat cale donnu.
Ma cun mortale istratzos fala e piga
torrat in oru de sas pibiristas
cando sa vida mudat in fadiga
su pasare in istoja a tramas tristas
poi de una die prus nemiga
ch’intontonida su connotu pistas.
Chi de s’andanta tua su lugore
mudat in umbra totu su vigore
chi astrat alfabetos in pedriscias
e insegus fues brincos de s’ingannu
pro chi su giogu sas noderas liscias
isolvet de uraganu assurdu dannu :
che trista marioneta bramas friscias
in isoladu cras bentosu afannu
chena divessa logica e ladinu
de bessire dae tempus che felinu
illonghende su murru a sos galanos
e prus pretzisos eternos momentos
de sos tebios rajos solianos
o in su bafu ch’at perdidu alentos
iscalcheddadu cun ammentos vanos
ue frazat picados sos intentos
e d’esister a impositu fortzadu
in donzi interpellantzia marcadu.
Presentazione tradotta
in questi versi quasi vezzeggiata
Bianca l’ha dipinta in nero
ma mai la considera un’intrusa
Come ritratta in questi versi
anche io – piccola scaglia di sale –
la vesto - come fossero d’oro -
con le ottave del Logudoro.
Visite
di Atropo
Incappucciata e in veste nera se la
figura ognuna/o
tremando infantilmente al ritorno del
mitico profilo
quando - compagno di letto - uggiola come noia
un male indeciso e pellegrino che ninnando vocalizza:
“Non ora - c’è tempo – c’è … tempo –
ancora … non è l’ora …”
E sul frizzo birichino più dolce
signoreggia il sonno.
Ma più funereo straccio torna a claudicare
sui bordi semispenti delle ciglia
quando la vita inclina alla fatica
dello stare in giaciglio incattivito
dopo il più cattivo giorno capovolto:
così straniata/o che non ti riconosci
più.
Sulla tua china trascolora la luce
ancor di più verso un livore d’ombra
che gela gli alfabeti sulla soglia.
Tu fuggi all’indietro sulla capriola
dell’inganno - ma il gioco scioglie le
corde
all’uragano degli assurdi: triste
saltimbanco di volizioni postume.
Non c‘è rimedio a questa solitudine
ventosa –
non altra logica se non questa:
di uscire dal tempo nel singolare
modo del gatto – allungarsi del muso
a cogliere l’attimo unico ed eterno
di tepore in una traccia di sole
o in un baffo sbiadito di memoria
dove dilegua il tuo graffito d’esistenza
con la prescrizione assoluta
d’ogn’ istanza.
Noticina- Ringrazio di cuore i siti che mi hanno permesso di usare le immagini
Era il 1956 quando il filosofo ebreo e tedesco Günther Anders scrisse
questo passaggio all’interno del suo libro.. :
"Per soffocare in anticipo ogni rivolta,
non bisogna essere violenti.
I metodi del genere di Hitler sono superati.
Basta creare un condizionamento collettivo così potente
che l'idea stessa di rivolta non verrà nemmeno
più alla mente degli uomini.
L' ideale sarebbe quello
di formattare gli individui
fin dalla nascita
limitando le loro
abilità biologiche innate.
In secondo luogo,
si continuerebbe il condizionamento
riducendo drasticamente l'istruzione,
per riportarla ad una forma di inserimento professionale.
Un individuo ignorante
ha solo un orizzonte
di pensiero limitato
e più il suo pensiero è limitato
a preoccupazioni mediocri,
meno può rivoltarsi.
Bisogna fare in modo
che l'accesso al sapere diventi sempre
più difficile e elitario.
Il divario tra il popolo
e la scienza,
che l'informazione
destinata al grande pubblico
sia anestetizzata
da qualsiasi contenuto sovversivo.
Niente filosofia.
Anche in questo caso bisogna usare
la persuasione
e non la violenza diretta:
si diffonderanno massicciamente,
attraverso la televisione,
divertimenti che adulano sempre l'emotività o l'istintivo.
Affronteremo gli spiriti con ciò che è futile e giocoso.
E' buono,
in chiacchiere
e musica incessante,
impedire allo spirito di pensare.
Metteremo la sessualità al primo posto degli interessi umani.
Come tranquillante sociale, non c'è niente di meglio.
In generale si farà in modo di bandire
la serietà dell'esistenza,
di ridicolizzare tutto ciò
che ha un valore elevato,
di mantenere una costante apologia della leggerezza;
in modo che l'euforia della pubblicità
diventi lo standard
della felicità umana.
E il modello della libertà.
Il condizionamento produrrà così da sé tale integrazione,
che l'unica paura,
che dovrà essere mantenuta,
sarà quella di essere esclusi dal sistema
e quindi di non poter
più accedere alle condizioni necessarie alla felicità.
L' uomo di massa,
così prodotto,
deve essere trattato
come quello che è:
un vitello,
e deve essere monitorato come deve essere un gregge.
Tutto cio' che permette
di far addormentare
la sua lucidità
e' un bene sociale,
il che metterebbe
a repentaglio il suo risveglio deve essere ridicolizzato, soffocato,
Ogni dottrina che mette
in discussione il sistema deve prima essere
designata come
sovversiva e terrorista
e coloro che la sostengono dovranno poi essere trattati come tali. "
Günther Anders, "L'uomo è antiquato" 1956
sull’ambigua soavità di questi
avvallamenti:
canti e lamenti e brevi assopimenti
Del gran cielo gli infrequenti pianti
sostentano l’argento degli ulivi
e – a monte – il verde
scampato
all’empietà dei roghi
riprende a nereggiare
fingendo il vigore che non ha
a consolo degli affannati Campidanti[1]
E sta come muschio portentoso
attaccato alle costole spolpate
di troppo antichi greppi
a sfidare probabili olocausti
L’estate dell’agro – anche fuori di
stagione –
si vendica con afe di subumana densità –
carezza ai ditteri – decollati dai tiepidi
acquitrini -
il tempo breve della loro vita
con feraci pasti di sangue ovino e cacche
E quello stesso verde – di più verde
inganno –
pare chinarsi sulla valle anela per
smussare
l’assillo debordante delle stoppie
Noi vecchi – avvezzi a interrogare il
cielo -
spiamo l’incerta gravidanza delle nuvole
come se avesse ancora senso
trarre auspici da un fattuale ribelle
alla già fragile costanza del saputo
E quelle – sì – sgravano di colpo e
tutte -
dove e come non si sarebbe immaginato
Così termina - o uomo – la tua palese
storditezza:
ancora la mandi abbigliata in una foggia
ch’era – dicevi - di fatale innocenza -
che ora etichetti come stile
di “economica necessità”.
Se ti stupisce la luna
colta a occhieggiare
- neonata – l’oro di ponente
non hai colpa
Se col suo lato oscuro
disdegna la luna
le nuvole a baffo di fumo
uscito dalla pipa di Dio
Non ha colpa quel baffo
indice di sacrosanto vizio
se a lei nasconde
la strizzatina d’occhi tremolante
d’una Venere sola
che
nell’argentato firmamento
ce la mette tutta
a perdurar lucente
Anche la voce - trafugata
nel guizzo perenne dell’istante -
sventola insonora
in una tristezza di memorie:
fumo che si disfa
e
mi cancella ogni riparo –
anche la pelle
Non l’ombra - ma l’intero silenzio
cade da un cielo senza stelle
come una polvere
a comprimere il respiro nell’affanno
che disconosce il suo destino
E mi complica l’agio
del trapasso.
A s’ultima bortada
Arrughidas o mes’istudadas
lumeras biddas de s’intragna tua –
leant caminu inconnotu
ch’ispibinat iscazos de fumadigos.
Moer de velas e remos presu a tzipos
forsis da unu Deus chi non ti amat
o dae fadu chi non si declarat.
Pro chi testarda aspresa de respiru
azulit cussas betzas franzas tuas
a remare continu
acherra a cussa basa disprejada.
Est custa umanidade de su fadu:
chi mirat s’imbidibile – ma non su chi
prevedit
forsis pro disizare s’evidente.
Misteriosu in tempus e usantzia
fadu marcadu a caldu
cun andare isfrenadu
in bundas de inferchidas ganas –
balu moribundas – e como apuntziadas
apagadas dae mossos d’aria istraca.
Fit avreschende cando ti sigheit
che ivelu cussas noas.
Tempus inchesu de ispantu e giogu
fit su tou chena lacanas – a iscias
birdes:
chena timores de bi poder bisare
s’ausentzia tua briva de assustu –
che brincare una die de iscola.
Cunfortada: dias aer apidu alas –
A s’ultima bortada.
Arrughidas o mes’istudadas
lumeras biddas de s’intragna tua –
leant caminu inconnotu
ch’ispibinat iscazos de fumadigos.
Moer de velas e remos presu a tzipos
forsis da unu Deus chi non ti amat
o dae fadu chi non si declarat.
Pro chi testarda aspresa de respiru
azulit cussas betzas franzas tuas
a remare continu
acherra a cussa basa disprejada.
Est custa umanidade de su fadu:
chi mirat s’imbidibile – ma non su chi
prevedit
forsis pro disizare s’evidente.
Misteriosu in tempus e usantzia
fadu marcadu a caldu
cun andare isfrenadu
in bundas de inferchidas ganas –
balu moribundas – e como apuntziadas
apagadas dae mossos d’aria istraca.
Fit avreschende cando ti sigheit
che ivelu cussas noas.
Tempus inchesu de ispantu e giogu
fit su tou chena lacanas – a iscias
birdes:
chena timores de bi poder bisare
s’ausentzia tua briva de assustu –
che brincare una die de iscola.
Cunfortada: dias aer apidu alas –
Cunfortada: dias aer apidu alas –
morta: onzi bene mundanu
dias aer biadamente lassad’andare –
asi comente – finghende – sa mannedda
ti cumbinchiat chi olende dae susu
aiat apidu sighidu onzi tou cuntentu
onzi birde ispassizu in donzi padru
onzi duda de mundu innoghe in basciu.
S’ingurdimine deidade de Cromo
Tancat in mitu s’angustia de ratza.
Ma est tou su tempus matanosu de sa coa:
Non restat che andare aisetende –
A sulos e isbrufos – chena ghia su coro
–
Oriolada in fundu a unu letu –
partida in anneos cuntrapostos:
si currer a s’istatzione sua
o fingher de iscosire a caru fadu
una o prus pasadas de ispera…
comente si su simplitze poi
diat poder cun ispinas dare rosas.
che tale poi poterat abberrer
punzu tancadu pro ti dare colpu
- como! – cussu pinzu chena nome –
cussu - non cunfessadu –
chi a su poi cuadu as arribbadu
che aparinadu contu
pro nou iscampu da ultima sorte.
Vana! – comente ischias e coment’ischis.
Un’apuntu:
Su nostru tempus de gosu,
intro s’istrinta musarola de su covid,
si ch’iscudet in su respinghidu
cunsideru
de sos iscascios acabbadores longos e curtzos
trancuiglios o dolorosos e de botu los
burrat
dae oros de pessu, oriolos chi sunt
frecuentes
in sos betzos. Issos (e deo tra issos)
unu pagu
leant allizu dae sos rajos de s’issoro
sole
moribundu e poi unu pagu s’arritzant
illonghende-si pro aggantzare rajos
manzaniles
chi esistint abbia in s’ammentu.
All'ultima svolta -
Affiochite o semispente
le luci della tua città interiore -
prendi un cammino ignoto
che sgrana frane di fuliggine.
Di vele e remi il moto è messo ai ceppi
forse da un Dio che non ti ama
forse dal Caso che non si dichiara.
Eppure l’asperità caparbia del respiro
eccita tuoi obsoleti lembi
a remare e remare
verso il Capolinea detestato.
È questa l’umanità del Fato:
vedere l’invisibile – ignorare il
prevedibile
e poi – forse - volere l’irrefutabile.
Misterioso nel tempo e nella prassi
fu impresso a caldo il Fato
con cadenza irreversibile
sul rigoglio di appetiti inoculati –
ancora un poco vivi – adesso rastremati
–
che paghi a boccate d’aria stanca.
Era appena l’alba quando ti raggiunse
come rivelazione la Novella.
Il tempo fiammante di sorprese e giochi
era tuo senza frontiere - a verde aiola:
senza patemi potevi vagheggiare
la tua assenza priva di spavento –
come bigiare una giornata a scuola.
Rassicurata: avresti avuto ali -
se morta - e ogni bene mondano
avresti beatamente sorvolato –
così come - mentendo - la nonna
ti persuadeva che volando da lassù
avrebbe seguito ogni tua gioia
ogni tuo verde spasso su ogni prato
ogni tuo dubbio sul mondo di quaggiù.
L’ingordigia e la deità di Crono
chiudono in mito l’angoscia della
specie.
Ma tuo è il tempo faticoso della coda:
non resta che andare rimanendo -
a soffi e sbuffi - in folle il cardias –
smaniosa in fondo a un letto -
divisa in ansie contrapposte:
se affrettarti alla Stazione ovvia
o fingere di scucire al Fato esoso
una o più soste speranzose …
Come se il semplice Poi
potesse con le spine dare rose.
Come se quel Poi potesse aprire
il chiuso pugno per donarti d’un colpo
- ora! – quel bene senza nome -
quello – non confessato –
che al Poi segretamente hai riservato
come saldo di conto
per altro scampo dalla finale sorte.
Inutilmente!- come sapevi e sai.