sull’ambigua soavità di questi
avvallamenti:
canti e lamenti e brevi assopimenti
Del gran cielo gli infrequenti pianti
sostentano l’argento degli ulivi
e – a monte – il verde
scampato
all’empietà dei roghi
riprende a nereggiare
fingendo il vigore che non ha
a consolo degli affannati Campidanti[1]
E sta come muschio portentoso
attaccato alle costole spolpate
di troppo antichi greppi
a sfidare probabili olocausti
L’estate dell’agro – anche fuori di
stagione –
si vendica con afe di subumana densità –
carezza ai ditteri – decollati dai tiepidi
acquitrini -
il tempo breve della loro vita
con feraci pasti di sangue ovino e cacche
E quello stesso verde – di più verde
inganno –
pare chinarsi sulla valle anela per
smussare
l’assillo debordante delle stoppie
Noi vecchi – avvezzi a interrogare il
cielo -
spiamo l’incerta gravidanza delle nuvole
come se avesse ancora senso
trarre auspici da un fattuale ribelle
alla già fragile costanza del saputo
E quelle – sì – sgravano di colpo e
tutte -
dove e come non si sarebbe immaginato
Così termina - o uomo – la tua palese
storditezza:
ancora la mandi abbigliata in una foggia
ch’era – dicevi - di fatale innocenza -
che ora etichetti come stile
di “economica necessità”.
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