La piscina incantata
Sm … ar – smar …
ri – i … ta a a…
prima per sorte
e poi per scelta.
…Mi sono smarrita…
tra le radiografie
dove già sono scheletro.
…Mi sono smarrita…
tra le ricette crittografate
tra le «impegnative»
che sciupano
il tessuto sottile
dei miei contatti umani
che sfibrano
la mia esistenza sociale.
… Mi ero assopita …
tra le voci del corpo
come fossero liberi suoni
privi di destino e di scopo.
Ma erano oscuri richiami
trasfusi in un vento
oblioso e sicario.
Campane a martello
-idioma perduto-
traversano la mia storditezza.
Costretta.
All’ufficio protesti
riscuoto -con tassa di mora-
avvisi inerti e negletti.
M’imbatto nei miei malumori -
strinata e straniata in frammenti -
senza potermi incontrare.
Li bagno e li assemblo
con liquide liane
adoprando l’umore smorfioso
d’una piscina deserta.
Fingo affogare il mio male
nell’acqua clorata
in quel suo tepore uterino
che
chiude fuori il vento
e il malcontento
del giorno invernale.
il brivido
dell’annegamento
con immersioni fasulle
in un metro di fondo
equamente spartito
tra mattonelle celesti.
E mi volto – supina -
tempestando l’acqua sorniona
con le mie pale scomposte
per
respirare a bocconi
un’aria liquida di sapore basico
per
tossire e tossire
un’aspirazione di luce
in una geometria sfocata.
Il cielo resta - irraggiungibile
come vestigio di sogno resuscitato -
a sfumare oltre i lucernai
oltre
la trascendenza dei cirri.
La mente sbologna
nel dorso corporeo
le sue paure
fidando nella tenuta
di superfici stagne
Ora sto -
quale una/uno
che gode ancora di briciole
di prosperità in declino -
a galleggiare dondolando
come su una culla -
così cedevole -
così benignamente inaffidabile -
ma così
assolutamente morbida
da escludere il concetto di angolo
a profitto di quello di seno
che accoglie - senza reggerle -
le deprecate mollezze -
slavine morali su cedimenti d’ossa.
vanno a pesca di nuvole filiformi
assurdamente intrappolate
nella scacchiera dei lucernai
- incongruità degli spazi.
Il sole vive a tratti.
Ed è subito fantasma cilindrico
teso a congiungere poligoni di cielo
con le geometrie cavernose
di questo bagno lustrale.
Qui - al di sopra dei tropici -
l’acqua sciaborda ancora
nei centri di modesto benessere.
Anche in questo prisma
- che scimmiotta
la fresca cilestrità di fonti inviolate -
l’acqua gloglotta nei tubi -
genio romano antico docet.
Acqua
-mansuefatta in vasca-
ha pretese da specchio
Ma chioccola - cortese -
per impulso di corpi alieni.
E appanna per essi
la fragile sua limpidezza.
Lasciata alla piana
sua solitudine inerziale
si distende – adagio - a dormire
ciangottando ai raggi devitalizzati
d’uno spettro di sole.
Fusi di corpuscoli accesi
- tremanti per memoria di vita -
cedono i frantumi
alla rete diafana
d’una sinuosa nebbiolina
ch’evolve senza suono
a piangere
addosso alle vetrate di gelo
addosso alle facce dei muri
inutilmente dipinti di atmosfere celesti
Qui e ora
io
- fascio di sensi che di me
come di nessun altro dice -
qui mi congiungo
con la mia stanchezza precoce.
E lei - l’acqua prigiona -
risponde con brevi gocciolii
al proprio affrancamento dal mio peso
che invece mi ritorna addosso
come una maledizione.
Nota – Sono stata a lungo indecisa se riproporla al pubblico, in
un momento, come questo, tragico al punto che la condizione di solitudine e di
isolamento, faticosissima, è presupposto imprescindibile di senso solidale, in mancanza
di ogni comfort, anche minimamente
affettivo esplicito. Inoltre sono stata a lungo indecisa se postarne solo uno stralcio,quello
iniziale, nel quale si fa più aperto riferimento agli effetti della
patologia. Ma poi ho considerato che la seconda parte è metafora dell’allora imminente progressivo tracollo
economico e sociale con l’incremento del senso di abbandono e di stanchezza
dell’individuo che incontra solo la propria impotenza.
Il testo in oggetto è nato durante una sorta di
convalescenza, successiva a un evento di difficoltà sanitaria personale che
peraltro coincideva con i primi contraccolpi della crisi finanziaria del 2008, in cui si vivevano guai collettivi e personali, in un silenzio generale, dimentico di ogni concretezza, nello
sgretolamento delle garanzie economiche e sanitarie prima conosciute. Per
contro permaneva assordante e depistante il ben noto estetismo e l’altrettanto nota ideologia
solipsista secondo cui ognuno deve egoisticamente badare a se stesso con le proprie risorse
economiche e morali.Ma queste si rivelavano per i più sempre più inadeguate e più inutili rispetto alla
dilagante solitudine dei momenti difficili, in assenza di operante solidarietà strutturata, quasi che l'individuo colpito fosse anche il solo colpevole e censurabile per le sue difficoltà.
Il titolo della poesia fa esplicito riferimento al capolavoro di
Tomas Mann, La Montagna incantata. In qualche modo la malattia o le difficoltà
del corpo tracciano un solco tra l’individuo e il corpo sociale. Il disagio
raggiunge inarrestabilmente anche individui sensibili che fanno parte delle
classi agiate e che non hanno remore economiche nel cercare e trovare le
migliori terapie. Stranamente, però, queste terapie non funzionano.
Vale anche il contrario, e cioè che le lacerazioni economiche sociali
ed etiche (per esempio guerre, gravi disastri naturali, epidemie) provocano scosse
psicologiche così gravi da rendere gli individui indifesi agli attacchi delle
malattie e alle conseguenze depressive. Si assiste a una resa collettiva alla morte,
morte sociale, morte fisica, tracollo culturale: decadenza generale, ma senza che si manifesti chiaramente l'emersione di qualche salutare consapevolezza. BM
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