lunedì 28 agosto 2017

LEI - PO di Bianca Mannu

Nota informativa- Poesia iniziale di
FABELLAE -  silloge pubblicata nel 2006


LEI -PO
L'avevo in sospetto.
Mi lavorava dentro.
Mi sconvolgeva la routine
d'ape operaia.
Frequentarla è un lusso
- mi dicevo -
fuori della mia portata.
M' esigeva
complice e scaltra.
M'esortava
a praticare scomputi di tempo
che non credevo mio.
E io?
Io non tolleravo
i rimorsi di coscienza.
Vivevo-campavo così - attaccata alla mia zolla-
- senza peraltro avvertire sicurezza -
paurosa che ogni aria
di parola piena volesse
intrufolarsi nella mente
moltiplicando ingovernata
sensi ed accezioni
o
potesse dar vento
ai quesiti censurati
chiusi in cantina di decantazione.
Quando cedette la mia gleba,
fu proprio lei a sostenermi
perchè non franassi anch'io.
Ma non mi risparmiò
la vertigine del volo.
Ora son qua
a tentare i miei voletti
- con e senza rete -
E
invoco Lei per l'approvazione
che
in via provvisoria
talora mi concede.
Talaltra volta il prolungato
suo silenzio mi sgomenta.
Annaspo timorosa d'averla
- per sbaglio – chiusa fuori
- o peggio -
uccisa per strangolamento.
Cerco.
E la trovo allora
nella notte mia più fonda,
nella ferita mia
che geme come nuova.
La scorgo ancora là
- alta e lontana-
dove regna indiscussa
ostensa a cielo aperto.
Ma è come se

non la riconoscessi.


Dalla Prefazione di Valeria Pala
«Filosofia e poesia, accostate spesso con intento ironico in alcuni componimenti, sono entrambe forme gnoseologiche, ma la prima offre una rappresentazione perlustrante, neutra e socializzabile dell’uomo nella sua accezione minore, mentre la seconda, mettendo esplicitamente in discussione le false certezze del soggetto cartesiano e del soggetto epicureo modernamente intesi, si configura come senso assoluto, incomunicabile e alieno rispetto alla giurisdizione dell’umano. Proprio in virtù di questo la poesia, paradossalmente,è più atta a risarcire e a mitigare il dolore universale di fronte alla ferocia dell’esistenza… » 

martedì 22 agosto 2017

I dopo "mai più" - poesia inedita di Bianca Mannu

Piccole e immani … Guerre!
Non conta chi vince - non conta chi perde  

Propositi spettrali risalgono in flati
per le spole impure che ordiscono il futuro

Ancora e ancora mi scontro coi “mai più”
gridati in ginocchio sopra i cimiteri

Ogni fine sarà piuttosto tregua!
Conterà chi  di quel buio retaggio sa giovarsi
presentandosi alla conta dei disastri -
destra sul cuore afflitto per l’attimo di lutto

Sotto pelle discretamente calcola gli avanzi
come esiti d’imprevedibile accidente
 da cui dice di prendere istruzioni
e già se ne ascrive il merito

Prospera come fungo il suo appetito
sulle necessarie alterazioni
delle materie … organiche  

Per diletto la pancia tutta gli trema
 ed il pensiero dilagando esulta


Ma già misura - come per eco - il rammarico
di non aver abbastanza tempo e corpo
per trasformare la privata abbondanza  …
… in ciò … che persino la bestia a sé nasconde

Nota - Questa poesia è stata pubblicata anche su www.larecherche.it

lunedì 14 agosto 2017

Come goccia - poesia inedita di Bianca Mannu


Come goccia

Scaturita
dal tunnel del pensiero
s’affaccia una parola
sul labbro del tempo
assorto a comporne
il suono di goccia
che s’allunghi dal tetto –
ora che spiove

Molle goccia
in tensione d’amore
per l’umano suolo
suo alveo e destino

S’allunga ed oscilla
tremando
già antica -
incapace a ricordare
il sorriso primigenio
delle sue molecole
gemmate
dal cinereo fiammeggiare
di nembi.










Noticina - C'è forse bisogno di dirlo? Forse, no. Ma non è male ricordare come può essere dolce il gocciare dell'acqua sul suolo che la desiderava. Così è della parola che non sempre è pietra. Ringrazio il sito che mi ha regalato queste belle immagini. B. M.

venerdì 28 luglio 2017

L'IMPREVISTO - Poesia della raccolta "Sbalzi di coscienza" di Giuseppa Sicura

L’imprevisto

Esulta l’inflessibile Signora
strofina le dita
e a furor di pancia
presto (dice)
sul piatto della bilancia
il peso della pena
eguaglierà al misfatto
ma … considerato l’atto
(dovuto)
e l’ampia forbice di tempo
(con salto di secolo)
dal popolo pare voglia
l’osanna
con messa cantata e aureola

applausi infiniti si aspetta
medaglie al valore
farà coniare per gli addetti
e a faccia tosta
definisce “imprevisto”
l’insolente gesto
che al danno ha aggiunto
la beffa
un quid illegittimo
(a voce di tutti) figlio
d’ intese e poteri occulti.

Ѐ colma l’iride e la misura
turbinoso il vento
il muro del limite … infranto!

A imperitura vergogna
d’ambo le parti
quel bacio farabutto
sarà in grassetto scritto
tra le pagine della storia

alla gogna … alla gogna Signora!

Nota
Pubblico volentieri sul mio blog questa elegante e misteriosa poesia di G. Sicura, facente parte della raccolta ancora inedita, citata nel titolo.
Poesia misteriosa specialmente in virtù della raffinata costruzione allegorica che si estende per l’intero componimento.
L’allegoria è, come è noto, una figura retorica che espone, attraverso uno o più significati superficiali, dei significati reconditi. In certo senso è simile alla metafora. Ma, mentre questa riguarda un’espressione singola, l’allegoria concerne i traslati di un intero discorso. Inoltre, mentre il significato metaforico può essere colto per via intuitiva o emozionale, l’allegoria richiede un’interpretazione razionale che si fonda su un bagaglio di conoscenze e di raffigurazioni assai elaborato. 
In questo caso ciò che dovrebbe orientare l’inizio dell’interpretazione è il sostantivo personificante Signora, volutamente “maiuscolato” e accompagnato da aggettivo (inflessibile), quindi da verbi e sostantivi che accentuano la personificazione con accenti verbali di autorevolezza (dice,  vuole l’osanna, farà coniare, definisce) che presto diventano pretese autoritarie, al punto che un atto poi definito “imprevisto” , manifestamente “insolente, illegittimo” scaturisce da intese innominabili. Dunque la Signora ha partorito,  per relazione illecita, un figlio imprevisto, il cui padre deve restare ignoto.
Ma a questo punto del discorso, a ben intendere, s’è introdotta di soppiatto un’istanza giudicante che non è la Signora, non è il genitore ignoto,  ma una terza entità che  irrompe con piglio  autoritario, non si qualifica, quasi che non ce ne fosse bisogno, e, come fosse appostata lì da indefinito tempo per osservare e sancire, ha l’audacia di dichiarare come visibile ed esecrabile ciò che, pur essendo stato visto, non si stagliava nel reale come effetto illegittimo e beffardo, quale in effetti è sotto il suo sguardo  di colpo severo. Chi sarà mai questa terza istanza innominata che insiste  pronunciando la sua filippica con una mitragliata di bellissime metafore nell’unica terzina della composizione? E che, sedendo  tra  “le parti” (presumo tra la Signora e il suo oscuro partner), sancisce che il figlio è un “bacio farabutto” , la cui esistenza illegale sarà evidenziata negli annali della storia, a perenne infamia della Signora? Forse è l'onestà.
Lascerei agli eventuali lettori l’identificazione delle varie entità qui allegorizzate, oltre le cui “maschere” o assenze di volto,  potranno riconoscere  entità perverse variamente complici nella gestione criminogena del potere nel mondo attuale e entità collettive sane, a cui sembra non resti altra sorte che quella del dissenso morale rispetto alle infamie, e l’impegno  a  curarne la sanzione negativa negli annali della storia.
Comunque la si pensi, è impossibile non cogliere in questa poesia una vis critica profondamente sofferta, che non intende fotografare  i connotati visibili ed evidenti del mondo reale, piuttosto proporsi come una sua crucciata radiografia.(Bianca Mannu)





domenica 25 giugno 2017

TRENO - inedita di Bianca Mannu

Treno.- Del pendolare, come sottotitolo.
Metafora di realtà che corrono, non solo su binari sbagliati, ma sulle nostre quotidiane contrade, e che, stolidamente, troppo presto rimuoviamo e mettiamo sul conto di quelli che non sono da reputarsi rilevanti, a differenza delle folle di celebratori di bellezze, già marmoree.  
Metafora fastidiosa che si ha fastidio a registrare come "poetica", è ovvio.
Ma che poeti sono quelli  che "sospirano" in "poetese" alla luna?
Credono di essere parenti del grande Recanatese, ma non sono minimamente comparabili al "pastore errante" che s'interroga sul senso dell'umana esistenza e persino su quello della cultura e della  storia.
Qui io pubblico per chi ha voglia di dare un'occhiata, senza mio profitto e con buona pace di editori
con la sciocca "puzzetta sotto il naso". - B.M.



Sfila uscendo dalla notte la cornuta ferrovia
Allunga del sole nuovo i riverberi fiammanti
e di suoi veli gloriosi avvolge un metallico pene
scagliato a trapassare spazi – a frazionare tempi.

Tu vecchio agricoltore – già sul campo
a sorvegliare la salute delle piante –
ne avverti lontana  la furia scalpitante
che d’un subito irrompe di persona
a mitragliare l’aria - a tentare la saldezza 
con cui ogni ulivo fa nodo con la terra.

Appassionato di rigogli e vitali grovigli
che connettono il cielo con la terra
neppure disdegni la foga
e l’agile scioltezza dell’umano: sei
intimo alla terra – a transumanze aduso.

Rulla mitraglia e scrolla il rettile d’acciai
rotando  su rotaie a sprizzare scintille
e tormentare gli smorti cespugli delle prode 
Corre all’indietro un mondo di cieli afosi
sugli ulivi canuti -sulle radure arse -  sui letti di pietraie
dove grida la sete inestinguibile dei giunchi.

 Retrocede la strada ferrata dilagando
in subitaneo silenzio la sua finta stoltezza.
E un qualcosa -  un residuo – un irreale oggetto
collassa -  punto nero di matita – e svanisce 
muto – come abraso da silenziose dita.

Ma tu flaneur – poeta del tempo evanescente –

tu ne scavalchi il tiro e sei davanti ad esso 
a impattarne di nuovo la misura
ad avvertirne l’avventarsi rabbioso
a immaginare il dipanarsi del moto
su  tondi piedi d’acciaio: ta ta ta tam!
ta ta ta tam!-tatam-tatam-tatam!

Salta sopra il tuo occhio etereo
ed esibisce per te il proprio  armato
ventre – impunemente! – e ti suona
un vibrato assillante: ta-tatà- tatam
ta-tatà-tatam tatam tatam tatam!
Iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!

Non c’è luogo nel tuo estro zelante
capace a contenere – a intercettare
il verticale intento della  corsa
a mancare l’abbraccio fisico letale
 l’obbligato squasso – il collass … sssss! 
Silenzio dall’abisso sparso al sole!





Taci! Taci! Taciiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!
Ancora non tuo il dovere di elaborare
rabbia strazio e consolante pianto
né con scelte parole tessere corone
o stendere inopportuno manto.
 
Continua a vedere in apparente vita
quella corsa spararsi sulla piana
dimenando il carico di umani  scodellati
sopra le panche lucide per l’uso -
gli sguardi trasognati sui segmenti cavi
dei montanti – quasi favi – ripostigli -
giacigli neutri di pensieri erranti …

Dillo innocente il rettile rischioso
che corrisponde al mandato  di  investire -
 in altro tempo-oggetto -  questo di pendolari
tempo diseguale e fratto- costretto a rannicchiarsi
 per pudore di possibili sue pieghe sensuali
 sotto palpebre cadenti
o a posarsi come apatico ente sui poligoni
pulsanti dei cellulari …

Trattieni  o poeta sulla tua retina sognante
l’ombra di miti corpi abbandonati
al basculaggio delle notti brevi 
e dei giorni  antelucani
irti di dissonanti richiami
e di molesti gravami  -
eppure sugo dolce di vita …

E il mare ?– Di fuori - a oriente?
È poco più di un niente di seta
che tradisce appena il blu.

domenica 11 giugno 2017

Macchinismo - versi inediti di Bianca Mannu

Scroscia la sua ferraglia sulle gomme -
come un’autostrada la statale qua sotto - inferocita
Furiosamente retrocede  la sua lunga faccia
di piombo in stato di fusione
sotto i pneumatici ruggenti

Per quanto urli e strida
la sua mascella pretende mantenersi ortogonale:
ai raggi del sole meridiano espone proterva
l’ insegna inconfondibile dell’artificio umano

Niente a che vedere con la terribilità sublime
dell’acqua stravolta che rimbomba
buia assassina … e strepita sue geometrie
imprevedibili da ostinato fattore di natura

Scroscia e stride - come indiscussa - l’arroganza
del nostro  familiare manufatto  
sulle nostre paure addormentate
nei crani disattivi – blindati
entro dispositivi di sistema

Sbraita sugli orli dei viadotti – gasata e tronfia –
dove echeggiano delle nostre sciagure
le sirene e dei cani abbandonati le canee
allo scoccare d’ogni solstizio estivo

Svegliarsi – addormentarsi - svegliarsi
ri-addormentarsi e ri-svegliarsi
(orribile  nenia pendolare) nella gola degli urti
tra i fumi dell’attrito e il singhiozzo dei clacson –

tra ermetici silenzi e il pulsare dei fari –
tra le sirene perforanti e l’intervallo infetto
trafitto da voci – quasi pigolii  pungenti
di atterrati redivivi  gementi

L’archiviazione postuma procede segnando
sul conto delle funeste coincidenze
l’ennesimo misfatto - quasi che
un possente vulnus - forse più ineluttabile
della gagliarda perfidia personale -
sia fatalmente inscritto nell’umano come tale

Così ogni figlio di madre bipede –
senza più domande – impara  sul campo
a vivere e ad archiviare esiti simili e diversi
quali prodotti di questa variabile spettrale 
che cade pronta da un cielo sempre verticale

a imprimere  il suo definitivo  ruggito
a calcoli … perfetti! – … A meno che Allah -
o chi ne ostenti la procura -  
se ne attribuisca cura e “merito”!

Nota - A cose fatte viene da chiedersi: ma i nostri paesaggi abituali, quelli che l'uomo ha concepito per dire no ai suoi presunti limiti, creandone così di nuovi  e più inquietanti, quelli che furano molto del nostro tempo e della nostra vita rivelando la tragica ambiguità dell'umana volontà di potenza, sono soggetti possibili per la poesia? 
Mi sentirei di rispondere: forse,sì - e sottolineo il forse, perché non spetta a me dire se i miei versi colgono il segno - se si libera l'idea di poesia dalla sua prigione effusiva, sentimentale e moraleggiante che si maschera con un ermetismo di maniera.
Per la curiosità degli eventuali lettori certifico che questa composizione è del 2016, dunque anteriore ai recenti e deprecati eccidi col camion a firma Isis, a Berlino.

sabato 3 giugno 2017

Folklore: specchio ingannatore


Riflessioni sull' articolo di Silvano Tagliagambe 
 L’eredità preziosa di Placido Cherchi in www.sardegnasoprattutto.com

"La fase di identificazione che stiamo attraversando in Sardegna, secondo Placido Cherchi, segna il rovesciamento di questo processo di appropriazione della propria immagine come parte costitutiva di sé. È infatti quella del momento in cui la rappresentazione tremolante e sfuocata di noi stessi ci viene restituita dallo specchio di una sorta di credito esterno: si tratta, cioè, del momento in cui ci si riscopre attraverso gli occhi degli altri. Ma questa immagine che salta fuori non è, a ben vedere, la nostra: è altra cosa da noi e dal nostro mondo, è folklore, è spettacolo, è l’espressione di una politica folklorizzata che parassita il bisogno di identità della gente e lo anestetizza, svuotando quel bisogno e quell’esigenza nel momento stesso in cui proclama enfaticamente di promuoverli e di valorizzarli." (citazione)

NOTA
L’articolo è interessante dall’inizio alla fine, perché ripartendo dal lavoro critico di Cherchi sul  rapporto tra arte, oggetto e significato, costituisce un forte richiamo a considerare le conseguenze culturali del totale sganciamento delle sue (dell'arte) forme dal “senso dell’esperienza “ e dal “valore dei suoi contenuti”. Diventando scienza delle forme come tali, l’arte si chiude nel cerchio autoreferenziale di una propria precaria semiologia che mette in scena, senza connettersi con altro, i propri trionfi. Ed è così – dice Tagliagambe – che si giunge alla “cancellazione della memoria”, alla perdita “del proprio passato” e dunque al dissolvimento della propria identità. Citando di nuovo Cherchi e De Martino, Tagliagambe lascia intendere che il senso dell’identità della civiltà occidentale, perseguìta come riproduzione e assolutizzazione dell’uguale e come impermeabilità al senso della differenza, è causa dello smarrimento dell’identità stessa o, quanto meno, della sua banalizzazione.
Tagliagambe non si sofferma a dare una spiegazione ulteriore su che cosa si intenda per identità; la quale, al lume del mio naso profano,  non può che riferirsi, in questo caso, all’autoconfigurazione di una formazione sociale per mezzo di condivise categorie comportamentali e di pensiero: la lingua, per esempio, le divinità e i riti, la mitologia, ma ancor prima, i modi di procurarsi da vivere, i ruoli sociali che da essi derivano e come s’incarnano nelle psicologie individuali, insomma il suo sacro e il suo profano.  
Per far capire come si formi e in che consista l’identità, il Filosofo fa riferimento alla conquista dell’immagine di sé da parte del bambino nella “fase dello specchio”, durante la quale egli “riconosce sé e ciò che gli appartiene”. Sembrerebbe che un simile procedimento si verifichi in riferimento a una formazione sociale.
Però dall’esempio citato, riesce arduo compiere il salto logico nel “la fase di identificazione” di natura sociale - così credo di capire,  e non saprei dire se collettiva oppure no - in corso in Sardegna, la quale segnerebbe il “rovesciamento di questo processo di appropriazione” … Cioè il suo fallimento?
Come dire che lo specchio non è nelle mani dei sardi stessi e che essi per incapacità e insipienza lo abbiano ceduto ad altri? A chi? Agli stranieri italioti colonizzatori, come diceva il Poeta*, oppure a una non meglio identificata industria culturale e politica, forse nazionale, ma anche transnazionale, che ne ha alterato la curvatura a proprio vantaggio? E che, se ho bene inteso, sia indispensabile che i Sardi ricusino, rovescino come aliena l’immagine folklorizzata  in cui sono indotti a riconoscersi, per altro vergognandosene?  Essa, come il ritratto di Dorian Gray, sarebbe infatti divenuta  una sorta di documento identitario impresentabile e depressivo, dove si sarebbero depositate le tracce di tutti i nostri tratti negativi del passato e del presente, e pertanto inibirebbe il minimo slancio verso il futuro.  Occorrerebbe disfarsene e, con un atto di ribellione, trasformarla nel suo opposto ricuperando la dimensione costruttiva del futuro.
Resta da capire il come, con quali strutture istituzionali o libere e a quali soggetti affidare il progetto per un nuovo corso, e come coinvolgere la generalità dei sardi, dato che la pratica delle arti e la pur illuminata critica teorica, cosi come il punto di vista critico della filosofia, e tutto quanto vischiosamente si muove nel campo della cultura alta e di base (con i suoi ceppi granitici) non riesce a raggiungere le menti e le volontà individuali, tenuto conto della dilagante depressione economica e culturale, anche al livello di sapere strumentale. E si torna così al punto dolente della politica e di come le sue formazioni organizzate si dimostrino  incapaci di progettare un’economia sociale e alcunché su di essa possa trovare supporto e fondamento.
Ma se una cittadina qualunque, quale io sono, ritrosamente sarda, scavalcando i buoni consigli della timidezza e della modestia, si è arrogata il compito di ripercorrere, a modo proprio, e correndo il rischio di fraintendere clamorosamente un articolo così denso di riferimenti, è perché il problema ivi delineato lo riconosce come sintomo dolente del proprio vissuto, ma  non può assumerne il ragionamento con piena adesione.
Mi spiego. Le mie frequentazioni abituali si svolgono in un milieu socioculturale di medio livello tra Cagliari e il suo immediato retroterra, sia nella forma diretta che tramite la rete informatica dei social e dei blog. Ebbene, io noto in questi miei conterranei una duplicità schizofrenica: nel normale ménage quotidiano somigliano a tutti gli altri di classe media italiana meridionale, scontenta, accidiosa, che arranca per sbarcare il lunario, con i figli che non vogliono studiare perché non serve a niente, con i figli titolati che non trovano lavoro, con la droga in famiglia, covando una rabbia impotente contro i politici che pensano al proprio tornaconto, eccetera. 
Ma appena si profila un evento festivo religioso o civile, una commemorazione, una partita, un convegno o un semplice reading di letteratura locale, e persino il mercatino periodico a km zero, ecco che il sardo si traveste da sardo, secerne la melassa insopportabile  della sua autoreferenzialità: si sente, più che diverso, speciale. E non c’è nessuna vergogna, ma persino una smaccata autoesaltazione, talora condita di chiusure razziali e di ferocia mercantile. Ma un piglio consimile lo ritrovi nelle classi ex-operaie, quelle che hanno lottato fino allo stremo contro lo smantellamento delle industrie e dei posti di lavoro. Il loro livello di istruzione, certo più elementare rispetto alla classe media, si faceva ricco di un’esperienza lavorativa, umana e sociale più aperta. Oggi questo gruppo registra ricadute tremende  nei pregiudizi e nei cortocircuiti mentali dai quali per un certo tempo (e col favore di una più efficace scolarizzazione) credevamo si fossero e ci fossimo liberati.
E allora, non più all’improvviso, ma in regime consuetudinario, si entra in una uniformità obsoleta, come sottratta alle tarme, che non distingue tra mito e storia, e nella storia, spesso richiamata all’ingrosso come fonte di verità incontestabili, si fa poltiglia di classi e conflitti sociali, si perdono i nessi tra la nostra insularità e i complessi intrecci col resto del mondo, si stenta a intuire la differenza tra passato e presente, perché al primo si attribuiscono tratti e categorie dell’attualità e per il presente si ripropongono atteggiamenti ancestrali, ritenuti razionali e rassicuranti, anzi l’essenza stessa della “sardità”. 
A fronte di queste esperienze, per altro personali, non suffragate da studi sociologici, e le non peregrine sollecitazioni dell’articolo citato, viene da domandarsi: quale fase di identificazione stiamo percorrendo? Quella in cui ci si vergogna o quella in cui ci si esalta? E in ogni caso a chi o a che cosa stiamo cercando di corrispondere?  E se altri da noi sta manovrando e rendendo inautentico il processo di identificazione, come attrezzare le persone a riconoscere l’impostura e rovesciarla? Quali categorie conoscitive e quali atteggiamenti assumere per avviare un nuovo gioco dialettico?
Infatti, se è vero, come è vero  che i Sardi si sono vergognati nel passato di quella loro immagine negativa, cui si riferisce Placido Cherchi per la penna di Tagliagambe,(vigeva, allora l’effetto residuale di una postura politica e culturale che scoraggiava i localismi perché intendeva rafforzare la dimensione nazionalistica interna a profitto di scopi di tipo coloniale nelle propaggini dello stato e all’esterno)   tale lettura oggi non sembra più né calzante, né esaustiva, se si considera anche la polarità gaudiosa.
Il fatto è che le così dette identità locali, anche perché ancorate al familismo amorale, diventano, a un certo stadio, pedine variamente utilizzabili da poteri esterni, centrali e periferici : sia che tu ti vergogni o che tu goda per l’immagine che ti viene affibbiata, nello scacchiere politico sarai destinato a fare da supporto a interessi che tu non controlli. E allora non  devi fermarti all’immagine che questo o quello specchio ti rimanda, ma devi rendere perspicui i meccanismi  che vi operano  e capire a chi giovano e perché. E allora devi poter operare lo spostamento tra specchi diversi e relativizzarlo, come faceva Einstein nell’esperimento mentale che spiegava la sua teoria della relatività.
L’identità localistica e nazionalistica, come l’abbiamo subita e come sta avvenendo mediante curiose retrocessioni, equivale, in piccolo, all’operazione storicamente mastodontica che è stata compiuta sulle donne dall’ordine patriarcale, con la sua rete di complicità capillari, con gli intrecci  non districabili di obblighi, con proibizioni, punizioni e ambigui compensi. Essa ha potuto spingersi ad ampiezze e profondità tali da inibire alla conoscenza immense aree di esistenza e di realtà, rendendole compresse e distorte; è potuta penetrare così profondamente nella formazione del sé personale femminile (e sollecitare in senso opposto il sé maschile) da rendere un’infinità di donne estranee a se stesse  per secoli e millenni e ancora oggi.
Comunque è indubbio, quali che siano i sentimenti coinvolti, che la questione dell’identità e del suo rovesciamento segni l’apertura di una faglia. E siccome in un società complessa i processi di identificazione sono tanti e  si intersecano, le faglie aperte sono plurali. E si dà il caso  che anche a livello individuale  vi è chi, in questa e altre faglie, tenti, con i mezzi che ha, di prendere posizione a occhi aperti.
 Ora, allorché si parli di identità in cui vada a riconoscersi un’intera popolazione, si fa io credo un’operazione  fortemente ideologica: si esercita una pressione verso la riduzione ad unum di particolarità specifiche, le quali, se giustamente evidenziate, sono invece elementi costitutivi di forze motrici di cambiamento.
La faglia aperta, di cui accennavo, sembra anche funzionare da serbatoio mitico in cui nativi e allogeni, turisti e ospiti si precipitano per tempi brevi come in un lunapark  onirico, dove è lecito e gradevole l’inganno vicendevole. Lo specchio, in cui molti sardi, dall’esordio della televisione in poi,  credono di ravvisarsi, risulta, secondo le teste fredde e pensanti che ben pochi leggono o ascoltano, deformato dalla spettacolarizzazione di alcuni tratti specifici, riproposti come condizioni statiche e assolute, liberate da ogni problematicità e persino dai collegamenti imprescindibili con le attività produttive, come invece avveniva quando le popolazioni dei centri abitati, in periodi di temporanea stasi produttiva dell’anno (agricola, pastorale, artigianale)) creavano le loro rappresentazioni, i loro riti sacri piuttosto  paganeggianti e vi partecipavano nello stesso tempo come creatori, interpreti e spettatori.  
Oggi, un oggi nato in un’alba del dopoguerra,  i Sardi sono divenuti spettatori di un teatrino che parla di morti e morte cose.  Le occasioni una volta deputate dalle comunità sociali (e di comunità si trattava in quanto si conosceva l’uso comunitario delle terre del demanio) sono arbitrarie, slegate dalla pratica di vita, moltiplicabili a volontà secondo i principi della domanda e dell’offerta in contesto ampiamente capitalistico, in cui qualunque cosa diventa merce, e in quanto merce passa da una mano all’altra, oggetto di possesso e dunque suscettibile di alterazioni conformi agli interessi del possessore.
Ecco, molti sardi credono che quelle figurazioni “farloche” siano l’immagine della loro essenza; certuni ingenuamente, altri con furbizia, si rappresentano così: miticamente selvaggi, eticamente ineccepibili, religiosi, solidali, festaioli, puliti e addobbati nei loro costumi addosso ai figuranti, le donne, figuranti anch’esse, ingioiellate come regine, con la pelle levigata come le modelle dell’alta moda. Penso che si azioni un meccanismo per cui la vuota tetraggine del presente facilita la fuga nel sogno commercialmente confezionato. Il desiderio si sposta all’indietro; e tacitamente, siccome gode nel riferire a sé quell’immagine, essa diventa vera. A tal punto che, in fretta e furia e con i criteri più strani, vari villaggi sono stati allestiti e anche rabberciati come piccoli musei domenicali per il turismo interno. Per il medesimo motivo si inventano ab ovo tornei in costume, sbandierate con sbandieratori di professione, corse allo stendardo … E molti sardi sono nostalgicamente convinti che il loro passato fiammeggiava così di ori e colori, di modo che  le immagini si trasformano nel sogno palpabile, e la fede, nutrita dal piacere della ripetizione, si rafforza. E conviene anche ai turisti forestieri che lo spettacolo sia la copia realistica di un’esistenza sospesa tra passato e presente, in virtù della facile proiezione del primo sul secondo; perché essi pagano per poter assistere di persona alla persistenza di un passato con i crismi dell’autenticità, della bontà, della spontaneità, della genuinità e persino della selvatichezza. Tutto quello che nel mondo reale sembra destinato a sparire in spaventose alterazioni. Dunque la loro presenza sul suolo isolano è per i Sardi la prova dell’indiscutibile conferma di quella mitica dimensione che idealmente  sembra unirli tutti, mercanti, compratori, imprenditori di spettacoli, speculatori, fruitori, figuranti, abitanti anonimi, lavoratori interinali e vittime.
Questo è stato il dono della politica dell’ultimo trentennio.
Nel mio caso,( siamo ridotti a pensarci come “casi”, casi clinici?) pur essendo sarda fino alle midolla e attaccata a questo scoglio più che una patella, non mi sento presa nella rete ancestrale delle parlate locali, né mi riconosco nel revival dilagante dei rituali folcloristici, né tampoco in questa sorta di patriottismo dell’autenticità parolaia isolana,  che non riesce a sognare ciò che avviene sotto il sole e praticamente sotto gli occhi di tutti: per esempio, il decollo di bombardieri mortiferi dai nostri aeroporti militari. Silenzio-assenso.
Ecco che allora la mia identità culturale (e credo di altri)  è questa mia incredulità, questa mia solitudine, che mi designa - fra coloro che credono o si sentono enfaticamente a casa propria, con lingua ripristinata e “sentimentalizzata”(come ben poco lo fu per l’addietro), con l’ abbigliamento festoso e fastoso del sogno, col canto del sogno, con la morale del sogno, col familismo buono del sogno, la  religione, la mitologia, le costumanze del sogno, le nenie e i balli del sogno, gli ornamenti del sogno, il patriarcato del sogno e il matriarcato di risulta dicevo mi designa, come una straniera o, peggio, un’apolide. Perché in definitiva neppure mi sento a pieno titolo cittadina del modo europeo di concepire il resto del mondo e le sue plaghe interne, né di concepire l’assoluta bontà dei suoi valori, perché pure questi stanno rischiando di diventare gusci vuoti.
Dove sta,dunque, la mia identità se non fuori,  in un non-paese, nello sdegno degli inquietanti, nell’odore detestabile degli invisibili.  Sdegno represso, spostato, ammutolito, calpestato, talora sublimato in parole faticose, perché non c’è lingua che non trovi nei suoi recessi o nel bric à brac del suo quotidiano i suoni e i segni per riscontri possibili di verità scomode, quelle che gli specchi ben organizzati non riescono ad assemblare e restituire alla mente e al cuore dubbiosi
Su tutto questo e sull’eco minacciosa del suo moto tettonico, non pochi si concedono il paradiso di parole autoconsolatorie, in sardo, in italiano e così via.
Ribellione proattiva? Chi è così credibile oggi da farsene vessillifero e promuovere seguiti? Bisogna costruire i caratteri e il carattere collettivo? Forse, sì. Ma questa istanza non pare avere ancora padri e madri o, chi sa, virgulti o scuole.

Quella “buona” non pare così buona! 
                                                                                        Bianca Mannu
..........................................................*Francesco Masala