L’articolo è interessante dall’inizio
alla fine, perché ripartendo dal lavoro critico di Cherchi sul rapporto tra arte, oggetto e significato, costituisce
un forte richiamo a considerare le conseguenze culturali del totale
sganciamento delle sue (dell'arte) forme dal “senso dell’esperienza “ e dal “valore dei
suoi contenuti”. Diventando scienza delle forme come tali, l’arte si chiude nel
cerchio autoreferenziale di una propria precaria semiologia che mette in scena,
senza connettersi con altro, i propri trionfi. Ed è così – dice Tagliagambe –
che si giunge alla “cancellazione della memoria”, alla perdita “del proprio
passato” e dunque al dissolvimento della propria identità. Citando di nuovo
Cherchi e De Martino, Tagliagambe lascia intendere che il senso dell’identità
della civiltà occidentale, perseguìta come riproduzione e assolutizzazione
dell’uguale e come impermeabilità al senso della differenza, è causa dello
smarrimento dell’identità stessa o, quanto meno, della sua banalizzazione.
Tagliagambe non si sofferma a dare una
spiegazione ulteriore su che cosa si intenda per identità; la quale, al lume del
mio naso profano, non può che riferirsi,
in questo caso, all’autoconfigurazione di una formazione sociale per mezzo di
condivise categorie comportamentali e di pensiero: la lingua, per esempio, le
divinità e i riti, la mitologia, ma ancor prima, i modi di procurarsi da vivere,
i ruoli sociali che da essi derivano e come s’incarnano nelle psicologie
individuali, insomma il suo sacro e il suo profano.
Per far capire come si formi e in che consista
l’identità, il Filosofo fa riferimento alla conquista dell’immagine di sé da
parte del bambino nella “fase dello specchio”, durante la quale egli “riconosce
sé e ciò che gli appartiene”. Sembrerebbe che un simile procedimento si
verifichi in riferimento a una formazione sociale.
Però dall’esempio citato, riesce arduo compiere
il salto logico nel “la fase di identificazione” di natura sociale - così credo
di capire, e non saprei dire se
collettiva oppure no - in corso in Sardegna, la quale segnerebbe il
“rovesciamento di questo processo di appropriazione” … Cioè il suo fallimento?
Come dire che lo specchio non è nelle
mani dei sardi stessi e che essi per incapacità e insipienza lo abbiano ceduto
ad altri? A chi? Agli stranieri italioti colonizzatori, come diceva il Poeta*,
oppure a una non meglio identificata industria culturale e politica, forse
nazionale, ma anche transnazionale, che ne ha alterato la curvatura a proprio
vantaggio? E che, se ho bene inteso, sia indispensabile che i Sardi ricusino,
rovescino come aliena l’immagine folklorizzata
in cui sono indotti a riconoscersi, per altro vergognandosene? Essa, come il ritratto di Dorian Gray,
sarebbe infatti divenuta una sorta di documento identitario impresentabile e
depressivo, dove si sarebbero depositate le tracce di tutti i nostri tratti
negativi del passato e del presente, e pertanto inibirebbe il minimo slancio
verso il futuro. Occorrerebbe disfarsene
e, con un atto di ribellione, trasformarla nel suo opposto ricuperando la
dimensione costruttiva del futuro.
Resta da capire il come, con quali
strutture istituzionali o libere e a quali soggetti affidare il progetto per un
nuovo corso, e come coinvolgere la generalità dei sardi, dato che la pratica
delle arti e la pur illuminata critica teorica, cosi come il punto di vista critico
della filosofia, e tutto quanto vischiosamente si muove nel campo della cultura
alta e di base (con i suoi ceppi granitici) non riesce a raggiungere le menti e
le volontà individuali, tenuto conto della dilagante depressione economica e culturale,
anche al livello di sapere strumentale. E si torna così al punto dolente della
politica e di come le sue formazioni organizzate si dimostrino incapaci di progettare un’economia sociale e
alcunché su di essa possa trovare supporto e fondamento.
Ma se una cittadina qualunque, quale io
sono, ritrosamente sarda, scavalcando i buoni consigli della timidezza e della
modestia, si è arrogata il compito di ripercorrere, a modo proprio, e correndo
il rischio di fraintendere clamorosamente un articolo così denso di
riferimenti, è perché il problema ivi delineato lo riconosce come sintomo
dolente del proprio vissuto, ma non può assumerne
il ragionamento con piena adesione.
Mi spiego. Le mie frequentazioni
abituali si svolgono in un milieu socioculturale di medio livello tra Cagliari
e il suo immediato retroterra, sia nella forma diretta che tramite la rete
informatica dei social e dei blog. Ebbene, io noto in questi miei conterranei una
duplicità schizofrenica: nel normale ménage quotidiano somigliano a tutti gli
altri di classe media italiana meridionale, scontenta, accidiosa, che arranca
per sbarcare il lunario, con i figli che non vogliono studiare perché non serve a niente, con i figli titolati
che non trovano lavoro, con la droga in famiglia, covando una rabbia impotente
contro i politici che pensano al proprio tornaconto, eccetera.
Ma appena si
profila un evento festivo religioso o civile, una commemorazione, una partita, un
convegno o un semplice reading di letteratura locale, e persino il mercatino periodico
a km zero, ecco che il sardo si traveste da sardo, secerne la melassa
insopportabile della sua
autoreferenzialità: si sente, più che diverso, speciale. E non c’è nessuna
vergogna, ma persino una smaccata autoesaltazione, talora condita di chiusure
razziali e di ferocia mercantile. Ma un piglio consimile lo ritrovi nelle
classi ex-operaie, quelle che hanno lottato fino allo stremo contro lo
smantellamento delle industrie e dei posti di lavoro. Il loro livello di
istruzione, certo più elementare rispetto alla classe media, si faceva ricco di
un’esperienza lavorativa, umana e sociale più aperta.
Oggi questo gruppo registra ricadute tremende nei pregiudizi e nei cortocircuiti mentali dai
quali per un certo tempo (e col favore di una più efficace scolarizzazione) credevamo si fossero e ci fossimo liberati.
E allora, non più all’improvviso, ma in
regime consuetudinario, si entra in una
uniformità obsoleta, come sottratta alle tarme, che non distingue tra mito e
storia, e nella storia, spesso richiamata all’ingrosso come fonte di verità incontestabili,
si fa poltiglia di classi e conflitti sociali, si perdono i nessi tra la nostra
insularità e i complessi intrecci col resto del mondo, si stenta a intuire la
differenza tra passato e presente, perché al primo si attribuiscono tratti e
categorie dell’attualità e per il presente si ripropongono atteggiamenti
ancestrali, ritenuti razionali e rassicuranti, anzi l’essenza stessa della “sardità”.
A fronte di queste esperienze, per altro
personali, non suffragate da studi sociologici, e le non peregrine sollecitazioni
dell’articolo citato, viene da domandarsi: quale fase di identificazione stiamo
percorrendo? Quella in cui ci si vergogna o quella in cui ci si esalta? E in
ogni caso a chi o a che cosa stiamo cercando di corrispondere? E se altri da noi sta manovrando e rendendo inautentico
il processo di identificazione, come
attrezzare le persone a riconoscere l’impostura e rovesciarla? Quali categorie conoscitive e quali atteggiamenti assumere per avviare un
nuovo gioco dialettico?
Infatti, se è vero, come è vero che i Sardi si sono vergognati nel passato di
quella loro immagine negativa, cui si riferisce Placido Cherchi per la penna di
Tagliagambe,(vigeva, allora l’effetto residuale di una postura politica e
culturale che scoraggiava i localismi perché intendeva rafforzare la dimensione
nazionalistica interna a profitto di scopi di tipo coloniale nelle propaggini
dello stato e all’esterno) tale lettura
oggi non sembra più né calzante, né esaustiva, se si considera anche la polarità
gaudiosa.
Il fatto è che le così dette identità
locali, anche perché ancorate al familismo amorale, diventano, a un certo stadio, pedine
variamente utilizzabili da poteri esterni, centrali e periferici : sia che tu
ti vergogni o che tu goda per l’immagine che ti viene affibbiata, nello
scacchiere politico sarai destinato a fare da supporto a interessi che tu non controlli.
E allora non devi fermarti all’immagine
che questo o quello specchio ti rimanda, ma devi rendere perspicui i meccanismi
che vi operano e capire a chi giovano e perché. E allora devi
poter operare lo spostamento tra specchi diversi e relativizzarlo, come faceva
Einstein nell’esperimento mentale che spiegava la sua teoria della relatività.
L’identità localistica e nazionalistica,
come l’abbiamo subita e come sta avvenendo mediante curiose retrocessioni, equivale,
in piccolo, all’operazione storicamente mastodontica che è stata compiuta sulle
donne dall’ordine patriarcale, con la sua rete di complicità capillari, con gli
intrecci non districabili di obblighi, con
proibizioni, punizioni e ambigui compensi. Essa ha potuto spingersi ad ampiezze
e profondità tali da inibire alla conoscenza immense aree di esistenza e di
realtà, rendendole compresse e distorte; è potuta penetrare così profondamente nella
formazione del sé personale femminile (e sollecitare in senso opposto il sé
maschile) da rendere un’infinità di donne estranee a se stesse per secoli e millenni e ancora oggi.
Comunque è indubbio, quali che siano i
sentimenti coinvolti, che la questione dell’identità e del suo rovesciamento
segni l’apertura di una faglia. E siccome in un società complessa i processi di
identificazione sono tanti e si
intersecano, le faglie aperte sono plurali. E si dà il caso che anche a livello individuale vi è chi, in questa e altre faglie, tenti,
con i mezzi che ha, di prendere posizione a occhi aperti.
Ora, allorché si parli di identità in cui vada
a riconoscersi un’intera popolazione, si fa io credo un’operazione fortemente ideologica: si esercita una
pressione verso la riduzione ad unum di particolarità specifiche, le quali, se giustamente
evidenziate, sono invece elementi costitutivi di forze motrici di cambiamento.
La faglia aperta, di cui accennavo, sembra
anche funzionare da serbatoio mitico in cui nativi e allogeni, turisti e ospiti
si precipitano per tempi brevi come in un lunapark onirico, dove è lecito e gradevole l’inganno vicendevole.
Lo specchio, in cui molti sardi, dall’esordio della televisione in poi, credono di ravvisarsi, risulta, secondo le
teste fredde e pensanti che ben pochi leggono o ascoltano, deformato dalla
spettacolarizzazione di alcuni tratti specifici, riproposti come condizioni
statiche e assolute, liberate da ogni problematicità e persino dai collegamenti
imprescindibili con le attività produttive, come invece avveniva quando le
popolazioni dei centri abitati, in periodi di temporanea stasi produttiva dell’anno
(agricola, pastorale, artigianale)) creavano le loro rappresentazioni, i loro
riti sacri piuttosto paganeggianti e vi partecipavano
nello stesso tempo come creatori, interpreti e spettatori.
Oggi, un oggi nato in un’alba del
dopoguerra, i Sardi sono divenuti
spettatori di un teatrino che parla di morti e morte cose. Le occasioni una volta deputate dalle comunità
sociali (e di comunità si trattava in quanto si conosceva l’uso comunitario delle
terre del demanio) sono arbitrarie, slegate dalla pratica di vita,
moltiplicabili a volontà secondo i principi della domanda e dell’offerta in
contesto ampiamente capitalistico, in cui qualunque cosa diventa merce, e in
quanto merce passa da una mano all’altra, oggetto di possesso e dunque
suscettibile di alterazioni conformi agli interessi del possessore.
Ecco, molti sardi credono che quelle
figurazioni “farloche” siano l’immagine della loro essenza; certuni
ingenuamente, altri con furbizia, si rappresentano così: miticamente selvaggi,
eticamente ineccepibili, religiosi, solidali, festaioli, puliti e addobbati nei
loro costumi addosso ai figuranti, le donne, figuranti anch’esse, ingioiellate
come regine, con la pelle levigata come le modelle dell’alta moda. Penso che si
azioni un meccanismo per cui la vuota tetraggine del presente facilita la fuga
nel sogno commercialmente confezionato. Il desiderio si sposta all’indietro; e
tacitamente, siccome gode nel riferire a sé quell’immagine, essa diventa
vera. A tal punto che, in fretta e furia e con i criteri più strani, vari
villaggi sono stati allestiti e anche rabberciati come piccoli musei domenicali
per il turismo interno. Per il medesimo motivo si inventano ab ovo tornei in costume,
sbandierate con sbandieratori di professione, corse allo stendardo … E molti sardi sono nostalgicamente convinti che il loro passato fiammeggiava così di ori e
colori, di modo che le immagini si
trasformano nel sogno palpabile, e la fede, nutrita dal piacere della
ripetizione, si rafforza. E conviene anche ai turisti forestieri che lo
spettacolo sia la copia realistica di un’esistenza sospesa tra passato e
presente, in virtù della facile proiezione del primo sul secondo; perché essi
pagano per poter assistere di persona
alla persistenza di un passato con i crismi dell’autenticità, della bontà,
della spontaneità, della genuinità e persino della selvatichezza. Tutto quello che nel mondo reale sembra
destinato a sparire in spaventose alterazioni. Dunque la loro presenza sul suolo isolano è per i Sardi la
prova dell’indiscutibile conferma di quella mitica dimensione che idealmente sembra unirli tutti, mercanti, compratori, imprenditori
di spettacoli, speculatori, fruitori, figuranti, abitanti anonimi, lavoratori
interinali e vittime.
Questo è stato il dono della politica
dell’ultimo trentennio.
Nel mio caso,( siamo ridotti a pensarci
come “casi”, casi clinici?) pur essendo sarda fino alle midolla e attaccata a
questo scoglio più che una patella, non mi sento presa nella rete ancestrale
delle parlate locali, né mi riconosco nel revival dilagante dei rituali
folcloristici, né tampoco in questa sorta di patriottismo dell’autenticità
parolaia isolana, che non riesce a
sognare ciò che avviene sotto il sole e praticamente sotto gli occhi di tutti: per
esempio, il decollo di bombardieri mortiferi dai nostri aeroporti militari. Silenzio-assenso.
Ecco che allora la mia identità culturale (e
credo di altri) è questa mia incredulità,
questa mia solitudine, che mi designa - fra coloro che credono o si sentono enfaticamente a casa propria,
con lingua ripristinata e “sentimentalizzata”(come ben poco lo fu per
l’addietro), con l’ abbigliamento festoso e fastoso del sogno, col canto del
sogno, con la morale del sogno, col familismo buono del sogno, la religione, la mitologia, le costumanze del
sogno, le nenie e i balli del sogno, gli ornamenti del sogno, il patriarcato
del sogno e il matriarcato di risulta – dicevo mi designa, come una
straniera o, peggio, un’apolide. Perché in definitiva neppure mi sento a pieno
titolo cittadina del modo europeo di concepire il resto del mondo e le sue
plaghe interne, né di concepire l’assoluta bontà dei suoi valori, perché pure
questi stanno rischiando di diventare gusci vuoti.
Dove sta,dunque, la mia identità se non fuori,
in un non-paese, nello sdegno degli inquietanti,
nell’odore detestabile degli invisibili.
Sdegno represso, spostato, ammutolito, calpestato, talora sublimato in
parole faticose, perché non c’è lingua che non trovi nei suoi recessi o nel
bric à brac del suo quotidiano i suoni e i segni per riscontri possibili di
verità scomode, quelle che gli specchi ben organizzati non riescono ad
assemblare e restituire alla mente e al cuore dubbiosi
Su tutto questo e sull’eco minacciosa
del suo moto tettonico, non pochi si concedono il paradiso di parole
autoconsolatorie, in sardo, in italiano e così via.
Ribellione proattiva? Chi è così
credibile oggi da farsene vessillifero e promuovere seguiti? Bisogna costruire
i caratteri e il carattere collettivo? Forse, sì. Ma questa istanza non pare
avere ancora padri e madri o, chi sa, virgulti o scuole.
Quella “buona” non
pare così buona!
Bianca Mannu
..........................................................*Francesco Masala