giovedì 23 marzo 2017

Col solito giro di chiave - poesia inedita di Bianca Mannu

La condizione umana dei Nessuno che frequentano il Presente


Col solito giro di chiave

Il solito giro di chiave
parendo atto decisivo
di lungimirante prudenza
degrada a gesto di scongiuro
con rinnovo a scadenza




Pare - perciò non è garante
 di Sicurezza alcuna - un cane finto
accucciato sopra lo zerbino
dove il mio vizio si converte
 in gioco all’inganno 
del tempo  sulla sorte - ogni  sera -
prima di andare in braccio
alla mia piccola morte





Il  fermo dello scrocco
scatta a sanzione della  Solitudine
che circola da padrona
in ogni mio ambito -
che mi sfida sorniona
balzando dall’andito
fino alla mia poltrona -
che mi insegue persino
sull’avvallo del mio capo
sul cuscino del sogno
e il suo naufragio mattutino



La “nata per accogliere” - sciupata -
reclama con premura
nuova veste
nel caso  che - il cielo lo volesse! –
un agognato ospite
si degnasse - per le feste –
di essere quarto con me
con la mia Solitudine bisbetica
e il mio  Guardiano di stucco
sul grembo suo bacucco.

Noticina- Ringrazio i siti che  mi hanno offerto in prestito le loro graziose e insostituibili immagini.(B.M.)

domenica 12 marzo 2017

Forse fu Giove - tratta da Alluci scalzi - silloge poetica di Bianca Mannu

Breve considerazione. Quest'anno l'8 marzo si è svolto con una forte varietà di iniziative e con una specifica connotazione di lotta culturale-politica, con risvolti anche sindacali. E finalmente abbiamo avuto la sensazione che non fosse la stanca ripetizione di un rito. L'aspetto più immediato, e forse quello più direttamente connesso a una sensibilità diffusa, è quello contro il così detto femminicidio. Ma in qualche contesto si è percepita l'insistenza sulla spettacolarità dei fatti criminosi in ambito familiare, con una propensione al commento cronachistico suggerito dalle ricostruzioni televisive, e, ad opera della parola dei cosi detti esperti, abbiamo assistito a un'accentuazione dei connotati psichiatrici delle devianze caratteriali, tale che il legame con la quotidianità non criminale restava del tutto eclissata. In particolare veniva del tutto trascurato il nesso tra la natura ancora fortemente patriarcale e androgina del sistema storico-sociale esistente e i fatti aggressivi sulle figure femminili; e non si accennava minimamente all'importanza effettuale della trasmissione culturale e educativa, semiconsapevole o del tutto inconsapevole, dei modelli percettivi sui ruoli di genere, di cui le stesse donne, specialmente le madri, sono veicolo.

Nella cultura diffusa si continua a pensare, erroneamente, che l'elemento primario costitutivo del sociale sia l'individuo nel suo stato naturale di maschio o di femmina. Al contrario, è la forma sociale a decidere delle psicologie individuali e degli statuti che la società nel suo insieme conferisce loro. 

La composizione che segue, racconta metaforicamente come, tramite l'orientamento educativo specifico del soggetto femmina, si promuova anche la sua sussunzione - in posizione vicaria rispetto al legislatore maschio - sotto il ruolo di depositaria e guardiana dell'ordine stabilito. Detto altrimenti: io, femmina, sono testimone e custode della mia minorità.



Forse fu Giove


Forse fu Giove Compluvio -
con Eolo in combutta –
a spingermi
nell’alvo misterioso di Demetra -
giù giù - tra pietra e pietra

Certo fu lì che si disperse
l’ appetito studio per la frombola
a favore di quello per la "bambola"
Fu lì che una forma di telos -
ipogeica robusta e voluttuosa –
m’avvinse oscuramente
nell’arduo abc della creazione

Vi divento - tra presagio
di corpo ed agnizione -
docile grembo –
premuroso strumento -
per la specie e l’individuo -
e cane da branco persino -
se e quando occorre l’agio

E sono - già da sempre –presa
nell’enigmatico maneggio
che la natura intreccia
con le scaltre pretese
avanzate dai custodi di memoria
in nome e per conto della Storia

Eccomi dunque al compito
che mi pare persino un lieto gioco
che mi vede raccolta –
 in mano
l’ago il filo e qualche scampolo -
a fabbricarmi una Mariona
che m’assomigli un poco.

venerdì 17 febbraio 2017

Una gradita corrispondenza con ANTONIO ALTANA - appassionato poeta sardo logudorese

Nota di Bianca - Sarda del Sud, so ben poco dei vari idiomi dell'Isola e delle "Isolette". Sono un'inguaribile italofona, di cui non accampo né lode né biasimo. Fu mio padre a cantarmi il sì che suona, lui, internazionalista, così innamorato dell'italiano e dei suoi grandi artisti.
Non è certo la prima volta che io e Antonio Altana entriamo in corrispondenza. E certo di ciò - faccio per dire - m'incolpo, visto che sono io a propormi a lui, e non solo a lui, come autrice di testi e stampe, cerino che si accende e si spegne, come tanti, nella grande Babele  telematica. E lui, lettore attento, mi gratifica da poeta qual è. E allora io, per un verso, mi fregio dei suoi doni per dare più corpo alla mia minuscola fiammella letteraria; per altro verso, tentenno e non sono ancora capace di dare una risposta netta alla domanda: ma, se scrivesse sonetti irriverenti verso i tuoi testi, li pubblicheresti nel tuo blog?  Tergiverso un po', ma poi rispondo: . È l'esca di eventuali colloqui a più voci ad attirarmi comunque.  E poi c'è di mezzo il mio mini-romanzo, Camilla.  Mi spiace che non se ne sia detto neppure male. Tale sono!
Si noti nei versi sottostanti, tanto nell'idioma logudorese (originario) quanto nella traduzione italiana (dell'Autore stesso) il perfetto rispetto dell'incatenamento delle rime in entrambe i sonetti. Ciò indica che A.Altana prende le distanze dalla propensione in voga, in cui peraltro mi riconosco: quella che dismette le forme classiche a favore del verso libero, il quale può mascherare il semplicismo e persino l'imperizia linguistica, appiattendosi su un parlato che restringe i riferimenti concettuali al vissuto lessicale più immediato e superficiale. Per converso, l'ossequio formale può produrre, specialmente nelle traduzioni, delle torsioni lessicali, sintattiche e di senso, che nuocciono  alla duttilità espressiva.   
Il ventesimo secolo - senza calcolare notevolissimi annunci -  ha conosciuto la destrutturazione delle forme cristallizzate, nella pittura, nella scultura, nella musica, nella letteratura (poesia e prosa), nella danza, nel pensiero filosofico, nei modelli delle varie discipline scientifiche spesso antesignane di inaudite trasformazioni...



Da Antonio a Bianca

Apo acabbadu de leger "kamilla" e ti fato sos prus bellos cumplimentos. Unu libru chi sues e ingulles chena tind'abizare. Unu libru chi afrontat sentidos de rara bandizada e trama a unicu tratu chi custringhet medas bortas su letore a assaborare licuras fora dae su cuntestu pro menzus tratrenner ritmos e gustu. Gai apo detzisu de ti fagher immodestu unu sonete cun sa tua (pretesa) solita traduida, isperende chi ti aggradet.





Camineras de ischidu

Lùghida caminera de sentidu
intrigada tra litos e bujores
sìrigat bida cun licos sapores
e giamat alas pro bi fagher nidu

Paralinfa e bandida de dolore
in èdola s'arrundu trobeidu,
tramas e de cussu ch'as bestidu
no as ischirriadu su minore.

Linfa bidale dae ramos sicos
sues e solves ferta abbeddiada
e astras brios cun buddidos ticos

Ses tue caminera islacanada
pro dare ponte, arrundu cun aficos
e a dulche amore edonica venada


                      




Ho finito di leggere “Camilla” e ti faccio
i più bei complimenti. Un libro che assorbi e divori quasi senza accorgerti. Un libro che affronta tematiche  inconsuete, con una trama lineare che talvolta induce il lettore a rileggere passi estratti dal loro contesto per cogliere meglio ritmi e stile. Così ho deciso di comporre e donarti un sonetto accondiscendendo anche alla tua solita pretesa di averne la traduzione. Spero che ti piaccia. (L'audacia premia i forti, si dice. Così, a lume di naso, Bianca ha tradotto.)




Sentieri del sapere (traduzione di A. Altana)

Luminoso sentiero di passione
 groviglio tra le selve del far sera, 
germoglia vita farcisce la sfera
e chiama l'ali al nido che dispone.

Bandita e paraninfa, una brughiera 
dell'edera rifugio, opposizione
trami e, nell'ordito il tuo alone
 brilla di viva luce alla raggiera.

Linfa vitale dalle gialle foglie
 suggi e dissolvi le brinate pene
e brio congeli con roventi doglie.

Tu il sentiero, né muri né catene 
per dar ponti, riparo, porta e soglie
e dolce amore edonico tra vene.


sabato 11 febbraio 2017

Effetto notte - inedita di Bianca Mannu

Effetto notte

Col piovasco
precipita
la notte sul quartiere
inzuppato di ogni inadempienza
Tra spezzoni di buio
detonante malumore
sembra l’acqua erompere
dai globi dei lampioni
e scagliarsi in moltiplicate schegge
destinate a guizzare
dentro le pozze generose
in cui rimbalzano
inferocite
le lune basse
dei fari -
a breve rari
A salti fuggono
senza discutere -
solitari - sotto i cappucci
simili a girini spaventati -
pochi umani

Del magro Natale
che aleggiò larvale
in questa piaggia
non è rimasta traccia
nelle insegne miopi
e niente che erompa
nelle follie del Carnevale

Sembrando saggia
si chiude negli alloggi
la gente
a litigare sul grado
delle urgenze da negare
a lacrimare
sul costo delle utenze
ad affondare
nel non-senso
dell’esistere …

Come sputata quaggiù
da un fato
onnipotente e insano -
interroga maghi
e sogna un Leviatano -
nemica di sé
e dell’altro più dannato:
lo vuol respinto oltre
- oltre i confini del patrio steccato.

lunedì 23 gennaio 2017

Bianca legge L'ANTRO DEL MOSTRO - esordio poetico di Alessio Simoni

Premetto che la prima sezione del presente scritto è stata pubblicata su ALIUD foglio aperiodico su temi e problemi di poesia e di prosa. 

Un libro per esistere
Opera prima in versi di Alessio Simoni, ventiquattrenne.
Un titolo ad effetto e a richiamo di certa iconografia filmica attuale? Macché; è una metafora che traduce efficacemente e visivamente la problematicità del rapporto di Alessio con la sua condizione umana fisica, col suo sé psicologico, con l’immagine di sé che il flusso allusivo/elusivo del milieu comunicativo umano insistentemente gli rinvia. Detto in parole povere, lui è il “mostro” perché tale si ravvisa nella propria evidente e insormontabile “disabilità-difformità”, a causa della quale e per la quale ha dovuto dare nome al luogo “adeguato”- “l’antro” - che “anonimamente” gli è stato assegnato. Si tratta di quella fortezza-prigione in cui scoprirsi chiuso e chiudersi, a tu per tu con l’ambivalente se stesso per come si sente e si sa. (Malcom X invitava i Neri a demolire anche lo steccato mentale con cui ciascuno rinforza soggettivamente l’esclusione oggettiva. Il meccanismo è identico per il “disabile”, ma forse peggiorativo). 
L’antro risulta altresì frequentato dalle personificazioni  fantasmatiche dei vissuti di Alessio, nelle quali  probabilmente convergono  tutte le negazioni fisiche, culturali e sociali, i travisamenti emotivi e affettivi agiti e subiti, gli spettri edonistici, estetici e utilitaristici - di cui si nutre la società contemporanea. Questi elementi diventando costitutivi delle istanze e degli inceppi dell’io, sono gli assidui torturatori delle esistenze - quella di Alessio, ma non solo, - inevitabilmente discoste dagli inarrivabili quanto instabili modelli della norma dominante, biecamente competitiva ed escludente.
Queste, le tracce della tematica di fondo,  da cui prendono corpo le composizioni della raccolta. Siccome il libro proviene da una direzione di cui il senso comune, colto e incolto, non si occupa, esso potrebbe apparire come prodotto avventizio, carico di  incertezze lessicali e morfologiche e di evidenti defaillances stilistiche – forse fastidiose, per i cultori del “poetese” in vernice –, le quali indubbiamente ci sono, ma sono il prezzo per un percorso iniziale non propenso all’omologazione nel “carinismo” edificante o nella pura goduria verbale, oggi proposti e accolti.
Da un antro ci si aspetterebbe, più che la parola del “mostro”, l’urlo, il pianto, l’accecamento, il ripiegamento afasico, il silenzio suicida,  ma anche, forse meglio, l’ingannevole e prefabbricato cliché consolatorio … su cui commuoversi e  poi mettersi l’animo in pace.
A ben riflettere da lì, di solito, non giunge alcun segno, a causa di filtri invisibili e spessi che si sommano alla comune sordità;  da lì non giunge quasi nessuna nozione di persona in carne ossa, né di sua rabbia o suo pensiero, ma solo narrazioni   fatte da altri, magari con intenti edificanti, con riferimenti a formalità  e ad astrazioni generali e generiche, boccaporti piuttosto che itinerari umani, a simulare accoglimenti e  premure ambigui e pelosi  con cui il “diversamente abile” e autocosciente sperimenta i duri impatti col sociale che si spaccia per “aperto”…
Ed ecco che salta fuori un … Non salta fuori per niente … Anche solo per questo cenno timido di “io ci sono e penso e scrivo” sotto forma di libro, messaggio in bottiglia lanciato in faccia alla sordità babilonese del nostro tempo … quanto sforzo, quante difficoltà!  Un libro, dunque,  esposto al sole e allo stesso tempo abbuiato in un colore d’ombra su un tavolino che pare di nessuno,  in una piazzetta di una delle più remote banlieues di mondo, in una “Mezcla” culturale periferica messa su da un pugno di ragazze …
Questo libro non è il fungo di una sporulazione anomala. Per ciò che dice e  per tutta la tensione ideativa che contiene, è stato necessario - non un qualunque pezzo di esistenza di un qualunque  medio cittadino - ma lo sfiato silenzioso e prolungato di una tensione fortissima, ignota al mondo, mantenuta dolorosamente per le redini contro la sonnolenza del congelamento e della compressione nel sottosuolo dell’esistenza … Dietro il “fatto/libro” si deve collocare una primigenia e autoprodotta scuola di volontà-decisione a vivere pensando e volendo comunicare, si devono  intuire le prove a esistere e  resistere da parte di Alessio, quindi la sua irruzione  - né immediata né pacifica, si presume - nel mondo del simbolo, come quella di un assetato che si accosti a un’acqua  torbida e persino letale. Entrarvi con i pochi strumenti carpiti a questo mondo avaro e circolarvi come un alieno, fare i conti con banalità dure come sassi e tirate a lucido come autentiche verità, e volersi proiettato in mai prefigurate avventure nella dimensione della parola, alle prese con un linguaggio che scalpita tra il letterario di altissimo lignaggio,  magari scoperto nell’antologia scolastica, e quello dell’uso metropolitano, morfologicamente selvatico.
Che Alessio, in quanto studente, abbia dovuto buttare l’occhio, sui massimi poeti della tradizione classica, appare un fatto quasi ovvio. Ma che vi abbia indugiato e se ne sia servito autonomamente con lucida audacia, insinuandosi nei saporosi componimenti della poesia classica antica (Adriano, per esempio) e medievale (Francesco d’Assisi e Cecco Angiolieri)  per pensare se stesso e dare forma a quel suo pensarsi, con esiti interessanti, è indice di un viraggio formativo importante e l’inizio di una ricerca stilistica nella direzione di un pensiero potente che rilegge la condizione personale  e “politica” dell’umano e del mondo di oggi in una dimensione ecumenica.
Sta ancora compiendosi l’oscuro percorso di Alessio per  trasformare in parole-suono, in parole-stridore, in parole-cesoia, in parole-grinfia, l’arsione di essere ciò  che il corpo obbliga e ciò che ci si vuole costituire(errata corrige) sempre e di nuovo: uomini. E il corpo fa quello che vuole, come disse la scienziata Montalcini, ma la testa, il pensiero sono io. Per Alessio ciò che abita il corpo e costituisce l’umano  è “l’essenza”. Essa è “meraviglia” e il corpo ne è rifugio, bara aperta e tempio. Per questa meraviglia, fragile anch’essa, che smentisce e nobilita le miserie del corpo e si traduce in impegno civile e morale, vale la pena accettare il difficile compito di sentirsi parte, pur sofferente e discorde, ma consapevole, del genere umano. Da questa inquietudine può nascere autentica poesia.
 
Il corpo e la parola

Quando il corpo vivente incontra la parola, questo incrocio  diventa discorso.
Quando il discorso prende di mira senso e significati, il corpo si scarnifica, in quanto diviene parola e anche parola scritta; questa si stacca dalla pura materialità originaria, la quale tuttavia permane  come presenza assente nella sussistenza produttiva del discorso. In tale congiuntura, la corporeità stessa, pur così intrusiva e fatto scontato, diviene il presupposto  recessivo del parlante/scrivente; cioè qualcosa che, letterariamente, non ha presenza, se non come allusiva e generica sorgente della costruzione del corpo-mondo verbale. Perché il corpo, nella sua nuda essenzialità, è letterariamente osceno e, più che materia bruta, è il congegno amovibile per discorsi eventuali, è dispositivo che mette in atto qualcosa che sorge dalla fisica vivente e si fa capace di elaborare discorsi nei più vari stilemi, ma nei quali il corpo come tale si risolve e dissolve.
Leggendo parecchi scritti, di poeti e prosatori, ma non solo, si ha l’impressione, anzi la netta percezione, che verso o discorso siano un paludamento del corpo che dice e scrive rimanendo in eclissi come entità fisica. Esso, o espressamente richiamato o rimanendo sottinteso, risulta emendato dalla propria carnalità  animale.
Anche là dove emerga rappresentato in scabrosa ipermetropia descrittiva, resta simbolizzato, e riconsegnato ai quadri, ai modelli attraverso cui viene elaborata la sua possibile trasformazione e accettabilità culturale. L’umano eccede la sua pure 
 insuperabile  fisicità/animalità.
Anche nella raccolta di versi L’antro del mostro, il corpo, corpo del mostro nel suo luogo appropriato, l’antro, pur dichiarando un riferimento  urgentemente biografico e personale, subito mostra un proprio paludamento: cioè è già elemento mentale, psicologico e storico letterario. E nondimeno il rivestimento simbolico indica una condizione reale: consistenza inquietante e negativa del corpo/prigione e persino quasi colpa. L’esperienza occlusiva ed escludente della fisicità cagionevole in questo mondo che la taglia ipocritamente fuori  dalla sua norma, trapassando nel corpo- parola e nelle sue declinazioni relazionali con altri corpi reali e “parlati”,  pur insistendo come condizione fisica in atto, è già spirito-mente del corpo in  parola.
In altri termini, è nel mondo del simbolo che si concretizza il ruolo della corporeità, cioè  i canoni della  sua proponibilità estetica ed etica, la barriera delle idiosincrasie pregiudiziali, il raggio degli accoglimenti e dei  rifiuti e la presa di coscienza della loro consistenza ed efficacia, della loro conflittualità e/o confluenza . E lì si delinea la dimensione mitologica e metaforica tramite cui si travestono  o si rivelano i portati del personale col sociale  e col politico.
 Alessio Simoni, per esempio, si “veste” da Nano, racconta la sua inutile ricerca d’amicizia-amore-completamento umano,  si fascia di speranzosa  Illusione e annaspa nel gorgo delle assenze. Ciò malgrado emana una propria Essenza  che eccede e supera la povertà corporea e, in qualità di  “ Tranquilla anima leggiadra” ospite del corpo/bara/tempio, trova alimento e procede nella ricerca libera e salvifica del senso, per mezzo e  oltre i duri limiti fisici e il sempre incombente immiserimento psicologico. Talora l’Alessio/pensiero/parola si libra disperdendosi come granello senziente nella condizione di natura/parola sotto il regime del Sole: concetto/immagine materna piuttosto che paterna. Ma poi intuisce che quella luce “è come un imbroglio che nasconde”…  Come dire che l’univocità della natura è un effetto mitologico e che nell’universo simbolico tutto è manipolabile.
E ancora Alessio si iscrive al registro dei Fuori asse  umani, rivendica la sua condizione “diversa”, e da quella prospettiva, cerca di valersi intelligentemente della possibilità di contestare ogni atteggiamento schematico, di  dissentire rispetto ai comodi luoghi comuni, per sperimentare, invece, l’autonomia del pensiero inquisitore, indicando nella ricerca di conoscenza e nella discorsività scientifica la possibilità di sorvolare a tratti, più che  il fango della  condizione a termine dei viventi, la sentina dell’insulsaggine e della follia che costantemente minaccia il genere umano, gonfio della propria millantata “supremazia”.
Ma Alessio sa bene che l’ottimismo della volontà personale ha respiro cortissimo: potenti lacci di ogni risma, compresi quelli sociali e culturali, si strutturano nell’“io” in catene di paure, di pregiudizi e di egoismi millantatori. La dimensione grettamente individuale impatta col delirio. Esso è sintomo dell’eccesso, talora  compresso e distorto oppure ignorato, che caratterizza l’umano. Delirio di possesso, delirio di potenza/impotenza, delirio di mancanza, sete inesauribile di quel qualcosa che si libera nel rapporto di riconoscimento io-altro, di quel qualcosa di necessario alla nostra pur precaria completezza, quel qualcosa inattingibile in un “mondo diviso” e che vi permane come assenza. Quando il delirio prevale “assume le facce ordinarie, le mostra a tutti, le fa odiare”.
Il delirio, si sa, è la risposta emotiva e panica a un dato insopportabile perché insuperabile come dato: la frammentarietà e discontinuità dell’umano, e l’erotismo negato. L’erotismo è quel “di più”  che si manifesta come ricerca dell’esperienza totalizzante con l’altro. Comprende l’amore, la morte e il legame col tutto.(cfr Bataille)  Il delirio, dice lucidamente Alessio Simoni, non è mai pago, risucchia ogni sentimento in vortici di carenze e sovrabbondanze, e l’amore stesso è demone e angelo che dà e leva rare possibilità di gioia. Considerazioni che  indicano la valenza erotica  di cui è impregnata la sua raccolta di versi. Vi è espresso l’erotismo del corpo, quel volersi identificare e compiacere in una propria fisicità e impattare invece nelle irrefutabili insanie della natura matrigna, fonte di dolore e minaccia di morte. Vi circola l’erotismo dell’anima quale immanente esperienza della discontinuità esistenziale e del suo necessario tendere al complemento relazionale, ma vi si coglie l’urto del suo scacco, reale o presunto, e il senso di una disperante  solitudine.
Anche l’erotismo del sacro  si manifesta chiaramente in questa silloge. Talora si esprime come negazione di un’entità trascendente dotata di poteri superumani nel cui seno addormentare il male del corpo e il male di vivere, talaltra come possibilità opposta, seme di speranza circa la reversibilità del male verso il bene; altra volta tale erotismo del sacro si manifesta in afflato cosmico, come esperienza interiore del profondo e necessario legame di ogni uomo con i suoi simili e dissimili viventi, con la natura in perenne resistenza al nulla incombente.
Tutti i temi e le problematiche essenziali del vivere umano formano il contenuto dei testi. In quali forme li elabora Alessio?
A una prima lettura sembra imporsi una certa discrasia tra la profonda tensione ideativa, stimolata dall’immediata urgenza dei vissuti e della loro portata ecumenica, ma  debolmente suffragata da riferimenti dottrinari ancora oscuri, e la realizzazione testuale in cerca d’uno stile autonomo. È ben vero che l’elaborazione in versi rende possibile – almeno secondo una visione popolareggiante – una quantità di licenze e passaggi espressivi al limite della perdita di senso, di riferimenti concettuali e di logica, ma è anche vero che un poeta neofita, portatore  di una materia prima così significativa, come quella che percorre le pagine di L’antro del mostro, ha necessità di maneggiare con perizia lo strumento linguistico e di affinare la scelta lessicale, se desidera che il proprio messaggio sia, quanto meno, inteso, se non goduto.  
Per ora, il primato del contenuto è lo zoccolo duro della scrittura di Alessio, ciò che non è poco in un momento e in un contesto letterario locale che spesso si scioglie in compiacimento dentro un vacuum verbalistico di finte emozioni.

Avendo scelto le parole “mostro” e “antro” per rappresentare la propria condizione, ma anche la propria inusitata  e “oscura” attività  vitale, che involge i più diversi e contrastanti sentimenti e meccanismi ideativi, Alessio dimostra di saper cogliere in modo diretto e coraggioso la potenza metaforica e polisemica della parola.

domenica 15 gennaio 2017

Da DOVE TRASVOLA IL FALCO - COME STRANIERA IN QUARTU - Bianca Mannu

         Quesito:Ci si può sentire stranieri in patria ? Ahimè, sì.  Non si annunciava alcuna crisi ... Però la pelle  diceva che i segni erano attivi, perché una società si ammala, parendo sana. I sintomi sono già avvertibili da coloro che hanno antenne sensibili, volte all'interno e all'esterno della propria coscienza vigile. 




         

  

  

   







       Come straniera


         Dentro il petto un silenzio mi divora
con aguzzi dinieghi - ancora e oltre
l’incandescenza rossa delle cifre
che il tempo mi accende dentro gli occhi.
Stilla il suo lento veleno nel grumo
mio - gonfio di tenebra e di pianto.

Denso fratello di silenzio e d’ira
i propri freni stride sull’asfalto
infoscato nell’ombra più cupa
della bruna discarica di cocci
e di cementizi residui - dove
neppure la mala erba rampolla -
dove il tempo del sole vi arde opaco
un proprio volto di color malsano .
Ora di radi e miopi lumi è sparsa:
l’assomigliano ad un presepio finto
oppresso dai maligni sortilegi
d’una borea povera di stelle.

Altro silenzio d’ansiti stizzosi
sorprende gli australi falansteri
addormentati come eretti cavalli
di Troia sparsi su strade insonni
per troppa luce e invisibili voci
di briachi accosciati sui tombini
a farfugliare il salterio ai ratti -
a ruttare vinosi vituperi
ai gatti vagabondi e irsuti.

Singhiozza sull’imbronciato quadrivio
un silenzio clochard senza riparo,
un silenzio di fuga e di abbandono,
un silenzio di gelo e di speranze - morte.

Un silenzio fosforoso piove
sulle arene allucinate, esposte
a lunghe bave d’alito cattivo
che l’empio suolo restituisce
e il cielo chiude entro le appendici sue
orlate d’insana porpora e di solfo.
Silenzio folle di gemiti e sussurri
stanco silenzio umido di pianto.

venerdì 6 gennaio 2017

ARROSSARONO - poesia da "Alluci scalzi" di Bianca Mannu



Arrossarono …

Arrossarono i giorni
le bandiere.
Arrossarono gli uccelli
di passo
contro il cielo
arrossarono embrici
asfalti e camini
arrossarono popoli
d’ erbe
sulle prode
arrossarono costole
di monti e siepi
all’orizzonte …
Arrossarono
il sangue già rosso
e di rosso colmarono
abissi di sdegno.
E tutto – con la notte -
il rosso annerì.
E non trovò strada
per il ritorno
 










Noticina - Con l'aiuto allusivo delle immagini ciascuno può decodificare come vuole, ma gli umani sono implicati dalla prima immagine.


martedì 27 dicembre 2016

Bianca legge MARIA DI ISILI di Cristian Mannu -1°Premio Italo Calvino 2015

Si suppone che di un libro premiato da una fondazione prestigiosa non possa dirsene che bene. E Maria di Isili di Cristian Mannu , vincitore del premio Italo Calvino per il 2015, sembra un ottimo prodotto. Ma pur sempre un prodotto, ossia un oggetto fabbricato per la vendita, che rincorre un gusto, una propensione del pubblico, già in atto. Si inserisce in una tendenza, peraltro riaccesasi nel secondo dopoguerra  in seguito alla diffusione di teorie etnografiche volte alla riscoperta e alla rivalutazione delle culture e tradizioni popolari, una volta completamente ignorate, se non osteggiate dalle culture dominanti. Il processo di ridefinizione teoretica a livello di ricerca storiografica, etnografica  e linguistica in senso strutturale, si è parzialmente riversato nelle concezioni comuni, dando luogo a una vulgata semplificatrice che contrappone in modo ideologico acritico  “la piccola patria”(J. Hessen), il villaggio locale, come esperienza e luogo di valori giusti e genuini, agli statalismi soffocanti, agli ecumenismi religiosi, agli internazionalismi sociali variamente colorati. L’internazionalismo mercantile postbellico ha globalizzato tale tendenza, ha collegato il ricupero o il desiderio di revival dei tratti localistici all’industria chiamata turismo. Quest’industria organizza la possibilità di fruizioni esotiche per i visitatori di culture diverse, trasceglie quelle sopravvivenze culturali ancora misconosciute e/o misteriose o stimate tali, le   adatta, spesso snaturandole e falsificandole,  ai preventivati gusti generici del fruitore medio e alla commerciabilità. Ed ecco che, senza problemi rifà il trucco alle vecchie storie mediante l’esibizione rivisitata, depurata, teatralizzata di certi aspetti rituali di antichi stili di vita popolare, attribuendo loro la patina dorata dell’atteggiamento nostalgico costruito ad arte, sulla base dell’insoddisfazione provocata dagli irrisolti problemi del mondo reale vivente e sulla ben calcolata tendenza a spostare il desiderio di evasione sul terreno del mito a buon mercato
Questo stesso processo decreta anche la scelta tematica, il confezionamento e la sorte di molte delle opere di scrittura narrativa e poetica. Infatti oggidì uno scrittore alla sua prima prova non può, forse, esimersi dall’annusare l’aria che tira. È questa, per  gli scrittori sardi, esordienti o meno, a mandare il vento in poppa (non particolarmente gagliardo) a quei vascelli di carta che solcano le correnti del mito e mantengono la barra del linguaggio in una sorta di terra di mezzo tra monodie e polifonie piuttosto soporifere, che non richiedono alcuno sforzo interpretativo, anzi vanno a riempire i vuoti e l’accidia culturali, carezzano il vello dei patiti del localismo civettando con le sgrammaticature più ridicole. 
Ora mi sto chiedendo se le centrali della cultura letteraria nazionale (storici della letteratura, critici, talent scout, editori, fondazioni e associazioni culturali, giornali quotidiani e loro inserti, i premi, le riviste, ecc.)  abbiano consapevolezza di come il loro imprimatur arruoli, per esempio, gli autori sardi, al compito di corifei di una cultura volta all’indietro, e ottusamente ripiegata sul proprio già da sempre infelice ombelico, dominato dalla consuetudine irrigidita a istinto, e questo, più che vissuto, propinato come fato nei testi.  L’apparente  indifferenza mercantile circa le tematiche si accorda “convenientemente” con le pur nebbiose indicazioni anzidette e quasi suggerisce quale  sia il gradito volto che la Sardegna debba mostrare al mondo e alla sua stessa gente, impoverita di tutto, ma specialmente defraudata degli strumenti adeguati al conseguimento generalizzato di una formazione culturale capace di sceverare concettualmente il mito dalla realtà, il simbolo dall’oggetto,  di decodificare i meccanismi sottesi al mondo reale, tanto quelli delle epoche superate  quanto  quelli che sono attivi nel presente.
Dentro un tale stampo, i sardi sembrano colpiti dall’incantesimo che li relega in un’indeterminatezza temporale e storica, nella  quale le psicologie personali rispondono ancora a categorie rudimentali ossificate, barbariche insomma.
Lo sguardo insistentemente rétro di parecchi autori di questo primo quindicennio, e  Cristian Mannu fra essi,  denuncia questo blocco e la fuga circolare in una bolla nostalgica di una presunta identità selvaggia, quale riferimento  genetico collettivo regionale, contenitore assoluto di  potenziali germi creativi, ma ciecamente fissato sulla propria impossibilità di sviluppo.
Il romanzo di C. Mannu, Maria di Isili, rientra nettamente in questo quadro. L’Autore vi aggiunge di suo un rilevante eccesso di enfasi, solo apparentemente epica, in realtà fissata su figure poco emblematiche, mancanti di spessore e di motivazioni, tutte centrate su una generica patologia emozionale. La scelta monodica - per cui ogni personaggio offre la sua versione o parziale o personale degli eventi (anzi la “canta”quasi alla maniera delle prefiche) - vorrebbe snodarsi in polifonia narrativa, ma questa, anziché aprirsi a una rappresentazione dialettica articolata e complessa, si risolve in comparizioni monologanti, in cui protagonisti e comprimari restano prigioni della staticità insormontabile e della solitudine monadica. I personaggi femminili, emanazioni di volontà altrui - quelle dell’Autore, si presume – sono privi di psiche, ridotti a sostanziale lacrimatoio del micro mondo della mal assortita parentela. Maria, ingannevole vessillo di un femminino inesistente (così Isili,le cui uniche coordinate fisiche sono le impressioni fugaci del visitatore del ventoso sito archeologico del territorio), non riesce neppure ad essere credibile stereotipo della vittima, manca di vero e proprio ruolo, non emette il minimo barlume di intelligenza, neppure quella del sentimento. Lei, sua madre e sua sorella restano crocifisse alla propria indefettibile subalternità al richiamo sessuale dell’adolescenza, il cui naufragio scivola in autocensura falsa e tardiva, mai nell’autocoscienza di un calcolo erroneo, di un’ingenuità che può riscattarsi.  Da queste numerose défaillances si ricava la netta percezione che l’Autore, preoccupato di racimolare gli ingredienti forti ritenuti necessari a stimolare palati ottusi, teso a lanciare appetitose promesse dal titolo, non ha dominato la materia del narrare e la taratura psicologica dei personaggi. L’oggettività dei fatti e dei troppi misfatti emerge dall’escussione delle voci narranti – ed è, nel suo eccesso di brutalità gratuita, tutto il melos della vicenda.  Essa si può riassumere così: Ethos - il più torvo custode e ingigantito topos dell’immaginario collettivo assorbito da soggetti perversi -  vince su Eros. Eros, possibile motore della vita, si profila in modo elementare e coattivo nei diversi soggetti e pare risolversi nel semplice atto sessuale  che, concludendosi in riproduzione, si proietta all’esterno, creando il viluppo tragico. La soluzione catartica, se mai possibile, è assolta da Tanatos, morte inflitta, procurata o pervenuta per cedimento del corpo, per vergogna, per crudele stupidità. Essa travolge tutti i personaggi, tranne Evelina, sorella di Maria .  Il romanzo potrebbe concludersi così. Invece l’Autore vuole realizzare una saga con rigenerazione  della stirpe. E “pour cause”, dato che Maria si è negata ogni comunicazione! La narrazione si trascina in epistole finali molto succinte e di cattivo stile narrativo, quasi un rattoppo al fine di collegare, come una sorta di resipiscenza affettiva da parte di Evelina, le  quattro generazioni evocate.  Resipiscenza senza spiegazioni, una questione di consanguineità nella quasi ignoranza della storia familiare. Parlano gli oggetti, la casa grande, i beni, come richiamo da un lato; dall’altro parla il sangue, cioè l’avvenuta trasmissione - per via genetica, parrebbe - della creatività artistica dell’ava in una nipote che, non si capisce il perché, ha per nome Maria di Isili, benché nata e allevata  nel Continente.  Lei sembra sapere già come valorizzare la sua ereditata risorsa e come introdursi nel mercato.
Il cerchio è stato chiuso, ma il medioevo culturale ha continuato a insistere all’insaputa dell’Autore.