Più che libro, questo oggetto è un manufatto complesso, fatto di molte
voci e diversi linguaggi. Non irriti alcuno questa mia parola, tanto meno la Poetessa
Angela che ne è perno e anima. Non è definizione questa mia, ma parola espressiva
dell’effetto sincretico prodotto in me dalla
delicata calibratura delle immagini, dei colori e dei testi brevissimi,
così che d’emblée sono presa dal dubbio su quanto io stia realmente leggendo, se le parole, i dipinti o le foto o
le fantasmagorie dei colori e delle sagome che anticipano o echeggiano i versi.
Certamente Angela Argentino (pittrice
oltre che poetessa) e coloro che con lei
hanno collaborato a comporre l’opera-libro hanno voluto dar corpo a uno stile composito
esteticamente attraente e immaginifico, in cui ogni parte si armonizza col
tutto e corona con gradevole efficacia i
testi poetici.
Quale universo dischiude per noi
Angela Argentino poetessa?
Intanto spalanca subito l’abisso della
propria inquietudine, con un richiamo quasi imperioso e un quesito ecumenico: se
anche noi sperimentiamo la sua impossibilità a cogliersi intera nella propria
percezione.
E subito con un’intensità rappresentativa
immediata Lei sveglia per noi i reattivi brandelli in cui si sfrangiano o si
coagulano le pulsioni-volizioni-paralisi o i vividi e incontenibili rivoli dai
quali deborda l’onda crestata delle dissomiglianze con la presunta, tanto
rassicurante quanto falsa, essenza identitaria. Non più che ombra, questa,
proiettata sul suolo calpestabile di un crocicchio, testimone senza consistenza
della nostra imprescindibile corporeità.
Tra le
maglie dei suoi versi puntati su abissi di densi silenzi, significanti e
ambigui, inopportuni persino, Angela coglie spietatamente l’ingombro monolitico
nel quale ci raffiguriamo contraendo in forma di paura il nostro vivere
contradditorio e plurale. Volendo chiuderci in un catasto rassicurante e,
trovando l’incongruenza dei suoi lembi, ubbidienti a opposte e decentrate
discipline, ci confondiamo, intessendoci di un silenzio intimo e obliquo, come fa
il corpo allorché si fascia di grasso a guisa
di protezione, peraltro fallace. Processo silenzioso di cui non vogliamo sapere
e di cui non avvertiamo l’effetto ottundente di “bomba inesplosa”, ma che si
presenta come esito sgradito di una lotta spossante. E tuttavia intanto che
procede, senza e spesso contro di noi, avvertiamo segni di messaggi minacciosi in
codice: non decodifichiamo. Quando, soccombendo alle sue inesplicate minacce,
ci rattrappiamo in quel nodo di paura, la vita grava dall’esterno su noi come
un oggetto.
Le due poesie incipitarie sembrano perforare,
con la parola che si fa sguardo, l’abissale imbuto ontologico, con effetti
dinamici, tesi e traboccanti d’echi, tali che per un pezzo non si coglie l’impatto
col fondo, né la brusca risalita verso una cronologia più consueta.
Dall’interiore universale Angela risale alle schegge di memoria: sedimenti e
fessure spazio-temporali dove sosta il fremito qualitativo del personale.
Quale sarà il moto successivo ? Va reclinando verso l’io psicologico determinato a ricomporsi nella
normalità pacificata dell’esistente? Mah!.
Forse,sì. Chiedere lumi e responsi al più
solare seguito del testo? Ma la poesia come la vita, sfugge e non dà spiegazioni.
Gustiamola come si presenta, con i suoi salti tra tormento e fiaba, quelli che Angela le fa compiere con
ali delicate, autentiche.
Nei versi di “Ditemi” incontriamo quella
nostalgia acre del grumo originario, uovo di tutte le dolcezze e di tutte le
impreviste ferite imminenti, possibili, subite. Compare il nome del tempo tribolato e
affaticante della “disumana energia” per emergere e infine lo spirito della
stanchezza che non ha potuto valersi delle “istruzioni per vivere”; e c’è la
dismissione in logo museale del sé, efebo ferito e prigioniero d’un sogno
abbozzato, per schiudersi in donna “carica di crudeltà ereditata”.
Ereditata, dunque innocente e vittima? Vittima
incattivita dell’esclusione sociale e dell’invidia scagliata a umiliare la bellezza
e l’intelletto. Vittima affannata alla ricerca d’un risarcimento, nel quale,
giungendo inatteso e gratuito come amore donato, non sa vedere se non l’insidia e forse l’ansia
di possessione . È stata la saggia stanchezza caduta su lei
dalle braccia d’una tenace costanza, che non chiede ricompense, a
infrangere non senza dolore “l’angelo di
vetro” che dominava la sua vita, e a dischiuderle nuove e certo non facili
possibilità. Senza le istruzioni salvifiche intuiamo appena ciò che di squisito
ci manca. Con lacrime e sangue tentiamo attingerle forniti della nostra dolente
miopa: nulla è scontato. E solo il
dantesco volgerci indietro può darci la misura incolmabile di ciò che avremmo
potuto perdere. Non a caso, credo, si incontra in questa silloge una sorta di
percorso salvifico, ad opera di una figura maschile, pare, sulla femminile. Qui
è Lei l’inquieta figura femminile, ad essere involta nella “recherche”
affannosa del suo “ubi consistam”, del difficile equilibrio tra sensibilità e libertà
creativa, tra esercizio culturale e liberazione affettiva, tra compiti etici e
doveri sociali, tra senso religioso e specificità personale. Tale percorso non cancella
le ferite inferte dal contatto sociale al proprio sé inerme e inconsapevole, ma il soggetto ferito e
pensante può forse, con volontà e fatica, elaborare il loro superamento
catartico tramite la consapevolizzazione dei limiti fisici e temporali, tramite
la gioiosa pratica dei linguaggi dell’arte nelle loro diverse espressioni,
auspicando che su quell’arco s’incontrino e si scontrino gli elementi
inconciliabili del vivere, ma emancipati dall’immediatezza emotiva e corporea
che caratterizza la giovinezza. Così
Angela accede al proprio tempo risanato, epurato dalle angosce di stampo
romantico, ma quasi esiliato nella purezza classica dei nobili “luoghi a perdere”.
Come emancipata da un passato da
narrare con la sintesi di numinosi estratti-astratti, Angela sembra trovare le
sue domeniche e i suoi lunedì ammansiti, avendo dato breve parola all’inquietudine
e avendola quietata nell’utero pacioso di un credo riposto nell’ombra d’una
chiesa contigua ai luoghi del buon Presente e degli affetti durevoli. Tempo e
luoghi ritrovati, dunque, come continuità dell’usuale: ritorno gradito delle
stagioni, rivisitazione dei luoghi amati nella cornice della fisicità
accettabile nei suoi riconosciuti ambiti, l’incontro rassicurante e gradevole
con persone che duplicano, come nel
fuoco di uno specchio concavo, gli amabili fantasmi delle divinità primigenie. Ed è così che quella poesia, che mi
ha adescato per il ribollire di quesiti, d’inquietudini, d’insofferenze contro l’incombere
dei cerchi dell’uguale tranquillato, … Quella poesia che era e poteva
svilupparsi come tensione a riconoscersi nell’angoscia universale delle genti nel
mondo contemporaneo, si stempera e s’imbozzola invece negli esiti di una
malinconia dissimulata nel godimento del “hortus conclusus” dell’esistenza personale salvata e protetta.