venerdì 13 settembre 2024

Da - Ciò che resta per i ritorni - (alias - da nonna Annetta) - Bianca Mannu

Andare a Gesòli dai nonni era per me una stupenda avventura. Talvolta partivo col treno a vapore - quello di una ferrovia secondaria - insieme con i  miei genitori, o con una delle ziette, la quale dopo essere stata nostra ospite, tornava a casa sua e mi conduceva con sé.

(...)

La stazioncina ci accoglieva con le sue muricce dipinte di bianco e le aiuole ben curate, con i gerani rossi carnosi e dall’aroma penetrante. L’edificio principale era intonacato di rosso scuro sotto gli spioventi generosamente ampi e orlati di smerli di legno nero. Sapevo che il capostazione abitava con la famiglia il piano superiore. Invidiavo gli inquilini di una casa così bella e dipinta anche di fuori, i quali, per giunta, potevano godere a volontà dello spettacolo dei treni in arrivo e in partenza.

I miei o la zietta ospite prendevano posto nella sala d’aspetto contigua alla biglietteria. Invece io, impaziente e curiosa, perlustravo la piattaforma ben squadrata e saltavo tra le lastre musive secondo un mio modo d’interpretare la geometria e i colori del pavé. Tendevo l’orecchio per cogliere i segnali dell’arrivo del treno. E intanto esploravo il magazzino annesso all’edificio. Ingombro di materiali, giaceva su una piattaforma più alta di quella della pensilina per i passeggeri. Aperto sui due lati lunghi, dava l’idea di una veranda belvedere per via delle merlature del sottotetto, incongrue rispetto alla babele di sacchi e dei fardelli. Ma io continuavo a saltellare con un piede solo sul pavé del gradone alla cui base correvano i binari morti.

«Perché morti?»

Il perché forse me lo avrà spiegato mio babbo, ma ho dimenticato il contesto e come. Di solito era lui la mia risorsa di informazioni. Paziente, limpido, rispondeva ai miei perché, forse felice del mio sguardo attento. Io felicemente assorbivo.

In attesa del treno, mi azzardavo persino, se il capostazione sostava al tavolo del telegrafo, a giocare d’equilibrio sulle rotaie e guardavo lungo i binari fino al punto di fuga in cui pareva che le rotaie si saldassero in un’unica intersezione puntiforme. Il treno vi si sarebbe infilato come un verme nero e puntuto e avrebbe di nuovo aperto la divaricazione.

Il fischio acuto, benché risaputo e atteso, mi sorprendeva in un sussulto tra il brivido della paura e l’esultanza del piacere.

Tutti sulla piattaforma. E i grandi ad abbrancare i piccoli scavezzacollo e la locomotiva che nereggia. Sbuffando e soffiando le sue nuvole odorose, va arrestandosi in uno stridore di ferraglie e sbattimenti metallici frammisti a voci stentoree e armeggi di bagagli.

L’intervallo sembra troppo lungo per la mia impazienza. Ma la locomotiva lancia i suoi sfiati rassicuranti.

Si parte! Finalmente si parte.! Il cuore mi precede sulla spinta che fa indietreggiare le case e il paesaggio abituale. E già mi rode l’ansia di avere il naso fuori dal finestrino.

Oh sì, un finestrino bisogna trovarlo, sia pure in prestito da qualche passeggero disponibile.

I grandi si appisolano, io viaggio in lungo e in largo per la campagna, seguo la testa piumata di vapore del serpentone che doppia le curve arrancando e fischiando, mi volto all’interno col naso rosso, spettinata, per farmi levare un bruscolo di carbonella e rompere le scatole al prossimo con domande a cui non sanno rispondere, del tipo: « Perché i pali del telegrafo vanno indietro e perché anche gli alberi, che di solito sono fermi, li imitano?» o  «che ci stanno a fare quelle scodelline rovesciate sui fili della corrente?»

E intanto tutto il paesaggio scorre a semicerchio e sparisce dietro la coda del treno. E un altro già gli subentra senza vuoti. Poi la piana si srotola come un enorme tappeto vivo. I monti azzurri volteggiano in una danza tranquilla e possente. Ecco altre stazioncine, simili a quella di Vineanova, ma sempre più piccine e isolate. Casolari. Greggi. Qualche figura umana si profila solitaria e, fuggendo inchiodata al suo sfondo, saluta con uno sventolio del braccio.

Il sole già sparisce con un lampo sanguigno. Ora le ombre smisurate in un amen si tingono di viola.

«Chiudiamo il finestrino,  adesso. Non c’è più niente da vedere. E poi, s’è messo vento», dice una voce di buon senso

Mi vedo di colpo arresa sul duro sedile di legno della terza classe. Sto a guardarmi emergere dallo sfondo oscurato del vetro: un’altra me stessa che si racconta d’andare nella notte, dentro una palla di luce che si scuote in un buio sconosciuto. Lei se lo figura come un inchiostro gelatinoso e rotolante, con dentro le cose del giorno annerite, finché le lucine solitarie, emergendo e sprofondando, smuovono la fantasia, eccitano l’emozione dell’arrivo.

Infatti, ecco: altro stridore, altri sbattimenti e, ora, solo la nostra concitazione.

«Gesòli - Stazione!» strilla il capotreno senza scendere sulla piattaforma.

Gesòli - Stazione è solo un casolare. Il treno svanisce in un imbuto fatto più nero dal lume dei fanali della locomotiva puntati sull’altopiano che bacia la vetrosa trasparenza del cielo stellato. La sollecitudine dei nonni si materializza con una sagoma bofonchiante che ci strappa i bagagli.

Tziu Nicolinu, che non è zio, ma persona anziana e di rispetto, ci spinge sul calesse e inforca la carrozzabile verso un abisso. Ma al trotto tranquillo della cavalla, le stelle oscurate dal colle non sono perse. Le ruote cigolano e traballano sul fondo accidentato. Fra poco spunterà il lumino rossastro della casa sull’argine. E, come la bestia lentamente doppia la curva in discesa, ti pare di entrarvi dentro e sostare un poco davanti al focolare acceso e scambiare un saluto. Ma già tutto lo sfondo è un presepe di lumini accesi: Gesòli pulsa nella sua fossa.

Ecco, la sagoma del monte granatico, il ponte a doppio arco sul torrente sonoro d’acque piovane, un crocicchio con la fonte al centro, il lungo cardine viario dalla classica pavimentazione romana con le lastre carraie, poi la piazza che i residenti chiamano Sa Panga.

Mi suonava brutto, triviale, Sa Panga; benché non sapessi allora del suo significato inerente il ceppo del macellaio e anche quello del boia. Mai ho appurato se, come mi sembra plausibile, quel nome si riferisse al fatto che nelle sue vicinanze fossero allocate rivendite di carne, compresa quella del nonno, o se realmente vi si praticasse pubblicamente la macellazione. Comunque, a mia memoria, la beccheria di nonno Augusto era già dismessa e faceva da magazzino e ripostiglio della mescita, che le era contigua.

Ho appreso poi da mia madre Domitilla che il nonno macellava in casa, su panca e ceppo trasportati all’occorrenza nel cortile retrostante la macelleria, lastricato e in pendenza, in modo che le acque di lavaggio e di scolo confluissero nella cunetta del vicolo, la quale andava a sfociare nella lunga gora che si allargava nella piazza.

Ma la mia mente bambina era in quei momenti assai lontana da ogni considerazione critica. L’odore di strame e di fumo, avvertiti come facenti parte del luogo, erano in qualche modo salvati a causa del ricavabile e ricavato mio godimento da quei ripetuti soggiorni.

Infatti, giunti al centro della piazza, il calesse aveva come un cedimento: l’avvallamento di scolo.

«Ferma, tziu Nicolinu, voglio arrivare a piedi. Faccio una sorpresa!» e mi gettavo sul selciato melmoso verso la lampadina che splendeva come un faro sopra la soglia a gradini della mescita dei nonni.

 

 


A Gesòli in treno - tratto da "Ciò che resta per i ritorni" (alias - da nonna Annetta)- Bianca Mannu

 

La stazioncina ci accoglieva con le sue muricce dipinte di bianco e le aiuole ben curate, con i gerani rossi carnosi e dall’aroma penetrante. L’edificio principale era intonacato di rosso scuro sotto gli spioventi generosamente ampi e orlati di smerli di legno nero. Sapevo che il capostazione abitava con la famiglia il piano superiore. Invidiavo gli inquilini di una casa così bella e dipinta anche di fuori, i quali, per giunta, potevano godere a volontà dello spettacolo dei treni in arrivo e in partenza.

I miei o la zietta ospite prendevano posto nella sala d’aspetto contigua alla biglietteria. Invece io, impaziente e curiosa, perlustravo la piattaforma ben squadrata e saltavo tra le lastre musive secondo un mio modo d’interpretare la geometria e i colori del pavé. Tendevo l’orecchio per cogliere i segnali dell’arrivo del treno. E intanto esploravo il magazzino annesso all’edificio. Ingombro di materiali, giaceva su una piattaforma più alta di quella della pensilina per i passeggeri. Aperto sui due lati lunghi, dava l’idea di una veranda belvedere per via delle merlature del sottotetto, incongrue rispetto alla babele di sacchi e dei fardelli. Ma io continuavo a saltellare con un piede solo sul pavé del gradone alla cui base correvano i binari morti.

«Perché morti?»

Il perché forse me lo avrà spiegato mio babbo, ma ho dimenticato il contesto e come. Di solito era lui la mia risorsa di informazioni. Paziente, limpido, rispondeva ai miei perché, forse felice del mio sguardo attento. Io felicemente assorbivo.

In attesa del treno, mi azzardavo persino, se il capostazione sostava al tavolo del telegrafo, a giocare d’equilibrio sulle rotaie e guardavo lungo i binari fino al punto di fuga in cui pareva che le rotaie si saldassero in un’unica intersezione puntiforme. Il treno vi si sarebbe infilato come un verme nero e puntuto e avrebbe di nuovo aperto la divaricazione.

Il fischio acuto, benché risaputo e atteso, mi sorprendeva in un sussulto tra il brivido della paura e l’esultanza del piacere.

Tutti sulla piattaforma. E i grandi ad abbrancare i piccoli scavezzacollo e la locomotiva che nereggia. Sbuffando e soffiando le sue nuvole odorose, va arrestandosi in uno stridore di ferraglie e sbattimenti metallici frammisti a voci stentoree e armeggi di bagagli.

L’intervallo sembra troppo lungo per la mia impazienza. Ma la locomotiva lancia i suoi sfiati rassicuranti.

Si parte! Finalmente si parte.! Il cuore mi precede sulla spinta che fa indietreggiare le case e il paesaggio abituale. E già mi rode l’ansia di avere il naso fuori dal finestrino.

Oh sì, un finestrino bisogna trovarlo, sia pure in prestito da qualche passeggero disponibile.

I grandi si appisolano, io viaggio in lungo e in largo per la campagna, seguo la testa piumata di vapore del serpentone che doppia le curve arrancando e fischiando, mi volto all’interno col naso rosso, spettinata, per farmi levare un bruscolo di carbonella e rompere le scatole al prossimo con domande a cui non sanno rispondere, del tipo: « Perché i pali del telegrafo vanno indietro e perché anche gli alberi, che di solito sono fermi, li imitano?» o  «che ci stanno a fare quelle scodelline rovesciate sui fili della corrente?»

E intanto tutto il paesaggio scorre a semicerchio e sparisce dietro la coda del treno. E un altro già gli subentra senza vuoti. Poi la piana si srotola come un enorme tappeto vivo. I monti azzurri volteggiano in una danza tranquilla e possente. Ecco altre stazioncine, simili a quella di Vineanova, ma sempre più piccine e isolate. Casolari. Greggi. Qualche figura umana si profila solitaria e, fuggendo inchiodata al suo sfondo, saluta con uno sventolio del braccio.

Il sole già sparisce con un lampo sanguigno. Ora le ombre smisurate in un amen si tingono di viola.

«Chiudiamo il finestrino,  adesso. Non c’è più niente da vedere. E poi, s’è messo vento», dice una voce di buon senso

Mi vedo di colpo arresa sul duro sedile di legno della terza classe. Sto a guardarmi emergere dallo sfondo oscurato del vetro: un’altra me stessa che si racconta d’andare nella notte, dentro una palla di luce che si scuote in un buio sconosciuto. Lei se lo figura come un inchiostro gelatinoso e rotolante, con dentro le cose del giorno annerite, finché le lucine solitarie, emergendo e sprofondando, smuovono la fantasia, eccitano l’emozione dell’arrivo.

Infatti, ecco: altro stridore, altri sbattimenti e, ora, solo la nostra concitazione.

«Gesòli - Stazione!» strilla il capotreno senza scendere sulla piattaforma.

Gesòli - Stazione è solo un casolare. Il treno svanisce in un imbuto fatto più nero dal lume dei fanali della locomotiva puntati sull’altopiano che bacia la vetrosa trasparenza del cielo stellato. La sollecitudine dei nonni si materializza con una sagoma bofonchiante che ci strappa i bagagli.

Tziu Nicolinu, che non è zio, ma persona anziana e di rispetto, ci spinge sul calesse e inforca la carrozzabile verso un abisso. Ma al trotto tranquillo della cavalla, le stelle oscurate dal colle non sono perse. Le ruote cigolano e traballano sul fondo accidentato. Fra poco spunterà il lumino rossastro della casa sull’argine. E, come la bestia lentamente doppia la curva in discesa, ti pare di entrarvi dentro e sostare un poco davanti al focolare acceso e scambiare un saluto. Ma già tutto lo sfondo è un presepe di lumini accesi: Gesòli pulsa nella sua fossa.

Ecco, la sagoma del monte granatico, il ponte a doppio arco sul torrente sonoro d’acque piovane, un crocicchio con la fonte al centro, il lungo cardine viario dalla classica pavimentazione romana con le lastre carraie, poi la piazza che i residenti chiamano Sa Panga.

Mi suonava brutto, triviale, Sa Panga; benché non sapessi allora del suo significato inerente il ceppo del macellaio e anche quello del boia. Mai ho appurato se, come mi sembra plausibile, quel nome si riferisse al fatto che nelle sue vicinanze fossero allocate rivendite di carne, compresa quella del nonno, o se realmente vi si praticasse pubblicamente la macellazione. Comunque, a mia memoria, la beccheria di nonno Augusto era già dismessa e faceva da magazzino e ripostiglio della mescita, che le era contigua.

Ho appreso poi da mia madre Domitilla che il nonno macellava in casa, su panca e ceppo trasportati all’occorrenza nel cortile retrostante la macelleria, lastricato e in pendenza, in modo che le acque di lavaggio e di scolo confluissero nella cunetta del vicolo, la quale andava a sfociare nella lunga gora che si allargava nella piazza.

Ma la mia mente bambina era in quei momenti assai lontana da ogni considerazione critica. L’odore di strame e di fumo, avvertiti come facenti parte del luogo, erano in qualche modo salvati a causa del ricavabile e ricavato mio godimento da quei ripetuti soggiorni.

Infatti, giunti al centro della piazza, il calesse aveva come un cedimento: l’avvallamento di scolo.

«Ferma, tziu Nicolinu, voglio arrivare a piedi. Faccio una sorpresa!» e mi gettavo sul selciato melmoso verso la lampadina che splendeva come un faro sopra la soglia a gradini della mescita dei nonni.

 

 

lunedì 9 settembre 2024

Un titolo significativo per il romanzo intitolato erroneamente Da nonna Annetta: Ciò che resta per i ritorni - Bianca Mannu

 

Dal titolo originariamente estrapolato dal file salvato nel PC - da nonna Annetta -  al seguente, che ritengo più rappresentativo dei movimenti e delle situazioni relative ai due circondari umani della Sardegna, investiti dalle due guerre, 1^  e 2^,  mondiali,

Ciò che resta per i ritorni

Perché? Perché così possono configurarsi le diaspore di molti Sardi: le loro partenze obbligate (servizio di leva, galera, confino, chiamata alle armi per belligeranza) o le partenze “spontanee” (renitenza alla leva, fuga, ricerca di lavoro, di terra da dissodare o scavare), con i loro amari ritorni colmi di memorie, di lutti e nuove precarietà che sembrano non poter mai tramontare.

Sinossi dell’opera (poco meno di 500pp)

Il tempo reale dal quale prende l’abbrivio questa storia è di soli otto mesi. Ma, come sa bene chi ha letto un buon numero di racconti, il tempo ha diversi registri e comprende quello degli antefatti prossimi e meno prossimi, quelli più lontani di cui si ha qualche certezza, quello mitico di antefatti seriali che trapassano da bocca a orecchio con la sequela degli intermediari e dei falsari, il tempo dei futuri probabili o improbabili di cui si parla per divinazione di segni da uno sperone di tempo reale, oppure quello che da immaginabile si è materializzato in fatti, invecchiamento e morte dei suoi agenti.

Il tempo di otto mesi (un anno scolastico), che ho indicato sopra, è il tempo di permanenza di D.illa.(madre) con le sue due figlie (Pal. E Vio) presso la sua famiglia d’origine (genitori e fratelli) a G, in Trexenta. Lo scopo di D.illa è riuscire ad ottenere in solido il diritto di partecipare in modo uguale al patrimonio familiare cresciuto nel tempo col lavoro e la collaborazione  di tutti i suoi membri: maschi e femmine. D.illa denuncia e rifiuta la disparità di trattamento ottenuta dai maschi nei confronti delle femmine coniugate e specialmente nei suoi confronti. Lei rimase impegnata fino ai 33 anni nell’assumere lavori e incarichi domestici, ma anche sociali, ad esclusivo beneficio dell’intera famiglia. In quello spazio di tempo, oltre un ventennio, fu ostacolata nel suo desiderio di conseguire una formazione professionale autonoma. Su tale nodo si articola e si espande il conflitto familiare, non solo  tra genitori e figli, ma tra figli  e figlie, e infine tra figlie nubili dedite all’accumulazione  finanziaria e figlie andate spose con doti irrisorie.

AM, capo della famigliola ospite e marito di D.illa non è presente, perché, avendo ceduto alle pressioni di sua moglie, è andato a cercare un lavoro specializzato da dipendente per ottenere uno stipendio assai ridotto, con parvenza di regolarità, presso le scalcagnate e sperdute imprese minerarie sarde. Secondo la moglie, invece, quella minima garanzia  avrebbe consentito un regolare risparmio utile per l’acquisto di una casa di proprietà ed evitare le spese per l’affitto. Secondo il marito, il calcolo risultava sbagliato perché la diaspora della famiglia M, non solo appariva subito dannosa per tutti i suoi membri, ma comportava un aggravio di spese per via dei due tronconi che dovevano comunque sopravvivere separatamente, non mettendo in conto altri effetti negativi per disagi scolastici, educativi e motivazionali conseguenti alla perdita della coesione familiare.

Questo, il dramma centrale. Esso risulta praticamente irrisolvibile, per l’indifferenza opposta da tutto il clan rimasto unito sotto il Patriarca e consorte, restio a farsi carico di problemi “esterni”, la cui responsabilità va addebitata alle femmine che, uscite per matrimonio fuori dal naturale cerchio familiare, non abbiano saputo sbrigarsela individualmente con coniuge agiato. Quanto ai maschi, bisogna siano capaci di dominare i venti contrari scegliendo anche mogli facoltose o capaci. 

Siamo nel 1949, la guerra, benché persa, è finita da un pezzo e i vecchi crediti – presumibilmente contratti con promesse verbali in casa S. – d’imperio sono dichiarati non più esigibili. La gelida postura dei S. fa franare fiducia, affetti e prove di solidarietà tra rami familiari che apparivano affettuosamente coesi.

La figlia maggiore novenne della coppia M, capace di osmosi simpatetica, affettuosamente legata a tutti i parenti e sensibile alle ragioni diverse dei suoi genitori, assistendo alle fasi croniche della diatriba e scoprendo alcuni meccanismi  della realtà sociale, esce velocemente dalla mitologia infantile  e procede a un proprio ordinamento del mondo in progressiva rivelazione. E tuttavia il bisogno di fiaba permane come nostalgia del babbo e delle sue capacità affabulatrici, modo non banale da lui praticato, di insegnare dal vivo alle figlie la dialettica dell’essere col dover essere.

In realtà la grettezza sottostante allo sfoggio di prodigalità degli anziani S. si era ben alimentata della liberalità del genero AM, macchinista strangiu, antifascista e pericolosamente comunista, privo di avidità e capace lavoratore, però esposto alle conseguenze della guerra, alla crisi economica, alle interposizioni negative dei poteri politici, agli anatemi clericali..

Sì perché la storia della diatriba ha i suoi antefatti nel 1940, anno in cui AM , meccanico istruito, arriva a G. come macchinista dell’unica trebbiatrice in contratto per la raccolta del grano, base economica dell’autarchia mussoliniana. Ivi conosce la sua futura moglie D.illa, figlia maggiore di AS,  indiscusso patriarca della famiglia. Tutti sembrano innamorarsi dell’affabilità e generosità di AM, fino al momento in cui egli apertamente dichiara al prete la sua posizione atea e chiede il rito matrimoniale disgiunto per rispetto della religiosità della Promessa. Il prete acconsente e accoglie il generoso obolo di AM. Poiché egli dimostra disinteresse verso denaro e potere, tutti i S dicono di lui meraviglie e affettuosità, tanto più perché la rinuncia degli sposi al banchetto di nozze significa un grosso e insperato risparmio e lo stesso AM non fa una grinza sulla miseria della così detta dote di D.illa. Quasi gli perdonano la professione di fede politica comunista.

Ma con la ripresa della politica in chiave confessionale, i S vogliono situarsi in modo conveniente nel nuovo panorama: cancellare la vecchia e pur fruttuosa inclusione nel clima fascista e rientrare a pieno titolo (tramite le fortune commerciali esclusive ed escludenti) tra i fedeli del sistema in auge, marcando il loro ferreo distacco verso la presunta uguaglianza stalinista di AM. Figlia e genero, rampolli inclusi, sono la vivente pericolosità di Belzebù.

.D.illa lancia l’esca agli altri fratelli, ormai vicini alla condizione proletaria, A suo tempo aiutati e beneficiati maternamente da lei, cancellano ogni accenno alla promessa solidarietà. La filosofia imperante dentro casa S rimane quella dell’individualismo egoista o da congrega.

La famigliola M si ricompone dopo lo strappo inutile; torna a V. e ritrova i problemi precedenti, acuiti dall’impoverimento unito a un feroce controllo ideologico e confessionale, da parte di diversi poteri locali.

D.illa continua a ragionare secondo la vecchia mentalità della sua famiglia, attribuisce al marito tutte le responsabilità dello stato di disagio e le diatribe si rinnovano tra coniugi. Tanto più accese in quanto AM, si vede moralmente costretto a dare asilo e sostegno economico ai suoi vecchi genitori rimasti soli con pochissime risorse e con un figlio demente a carico. Li richiama a sé da Sinar..  Né è pensabile rivolgersi ai fratelli: tutti dispersi tra Sardegna e Continente, se non anche già morti, come Pietrino, fante della Prima, come Agl.a morta di tisi nel Lazio, come Lorenzo, morto dello stesso male nel nord Sardegna, o spariti come Adel. di cui non si conosce la sorte, come Cristoforo, suo marito. Resta unico e impoverito, AM, anche lui reduce del 1° conflitto mondiale, reduce da una fine disastrosa della sua permanenza  lavorativa nella penisola.

Qui il tempo della memoria compie una inversione a U e riacchiappa le vicende familiari della famiglia paterna di AM a Sinar. Una famiglia di giovani intelligenti e lavoratori. Scoppia la1^ Guerra Mondiale. 1916: morte di Pietro al fronte e insorgere della malattia mentale del fratello più giovane SM, allievo geniale di una raffinata falegnameria. I genitori dubitano che il ragazzo sconti una sorta di trauma forse prodotto da uno spavento o dalla paura provocata da compagni più attempati e dediti a giochi pericolosi. La famiglia intera vive una specie di lutto perenne. I medici di psichiatria non sono in grado di fare prognosi e offrire terapie.

Il carattere del ragazzo muta e comincia a straparlare, a reagire stranamente, a evitare il lavoro a chiudersi in camera, dire cose spaventose e rifiutare ogni forma di comunicazione con chicchessia. Malgrado la situazione difficile, le due figlie maggiori, dei coniugi Ces. e Magdal. M di Sinar. si sposano e partono coi rispettivi mariti nel Continente. Nel frattempo il maschio maggiore AM viene chiamato al fronte e subito dopo il fratello mediano VM. Questi finisce in trincea, mentre AM alle officine. 1918, pronunciato l’armistizio, AM deve accorrere al capezzale del fratello quasi moribondo. Mesto rientro di entrambi in Sardegna. AM ritorna nell’officina di Montop. Poco tempo dopo Adel. e Cristof. scrivono ad AM pregandolo di raggiungerli: possibilità di lavoro e altre opportunità.  Questi accetta e si fa assumere nell’officina della ferriera di Tor. Ma AM  vuole crescere professionalmente e culturalmente. Frequenta un istit. Tecnico serale. Si diploma. Notizie da casa non buone: il minore SM sembra che risulti invischiato in un delitto(Erriu). Il ragazzo viene scagionato, ma scappa da casa sperando di essere internato nel manicomio. Il fosso dei maiali di Sinar. restituisce un altro corpo di persona sconosciuta. Il piccolo SM viene ritrovato e di nuovo scagionato. Con difficoltà un brigadiere alla soglia della pensione riesce a trovare il vero nome dell’annegato, figlio d’un avvocato del capoluogo. Il scioglimento del mistero sarà incerto e lungo:” un po’ di pazienza, caro lettore !”

AM a Napoli  s’innamora seriamente di una giovane donna, e pensa a un modo onesto di entrare nelle grazie dei suoi familiari per annunciare loro le sue serie intenzioni. Ma dentro di sé avverte il peso della difficoltà. Ciononostante continua a sognare di sposarla. Di punto in bianco lei decide di far dono di sé al giovane serio prigioniero dei suoi stessi onesti dubbi. I due fidanzati cominciano a muoversi nella città, a dormire talvolta insieme, forti delle ben condite bugie di G.na. Ma dopo l’ultimo incontro, AM viene convocato in un posto di polizia, minacciato di provvedimenti accusatori da cui non potrà discolparsi. Meglio sparire da Napoli con l’ultima busta paga.

Vaga per un po’ in Toscana con l’idea d’incontrare Adel. E Crist. Sono partiti verso il Nord Italia. Scende nel Lazio per incontrare Agl. che gestisce un puerperio difficile. Lei cerca di rivelargli il mistero di SM nell’incontro con una prostituta, per l’interposizione dello sconsiderato VM. Ma AM ascolta senza ben capire: è come smemorato e molto rattristato per la condizione fisica e morale di questa sua sorella. Va verso Genova e poi punta su Torino, una Torino gelida. Trova lavoro specializzato alla FIAT Lingotto;, ma nell’inverno si ammala e riceve una prognosi preoccupante. Forse può guarire se lascia il lavoro e torna in Sardegna. Scampato alla morte e all’infezione tubercolare, tenta riposizionarsi col lavoro da elettricista, ma l’azienda viene militarizzata dal regime. Lui è antifascista senza tentennamenti.

È come se le conseguenze delle due guerre si fossero abbattute e continuassero a vessare gli stessi individui che la vita non aveva ancora ucciso. AM lasciato Sinar.  migra verso il Parteolla, per ricominciare un’esistenza possibile, accettando il ruolo di conduttore e meccanico di macchine agricole per la raccolta dei cereali. In tale contingenza, intreccia una specie di matrimonio Morganatico con una ex fidanzata di Sinar.. Il legame va a monte perché segnato dalla morte di un figliolino. Così si ritrova solo a quarant’anni superati.

Giunto a G per la trebbiatura, s’innamora di nuovo: pensa a una simbiosi amorosa con D.illa. Lei lo ama, pare, ma la loro non è corrente di pensiero e d’anima. Pur continuando ad essere innamorata di lui, col tempo lei non riesce a conciliare quel sentimento con i sacrifici imposti dal peggiorare della crisi. Non perdona a lui i disagi economici della famiglia e l’inevitabile discesa dal livello sociale di riferimento.  

In brevissimo tempo la situazione familiare a Vi diviene insostenibile: muore il vecchio padre CM e allora bisogna dare asilo diretto alla moglie e al figlio disastrato rimasto vivo. Il conflitto tra nuora e suocera degenera per causa del figlio ingovernabile e dell’assottigliarsi dei già insufficienti  proventi economici.

In tal modo la storia drammatica di SM s’impone nei suoi aspetti peggiori e D.illa non avverte nell’immediato il dovere morale del sacrificio economico e assistenziale ulteriore. I manicomi sono chiusi per legge e mancanza di fondi.

Alle soglie della rottura con la moglie, AM prende una decisione difficilissima: nega l’ospitalità al fratello e lo costringe a trovare una soluzione utilizzando il proprio mestiere (falegname intarsiatore) sotto il controllo di persone cui il suo lavoro torna utile. La soluzione si rivela decisiva e rasserenante per la vita dello stesso squilibrato. Ed è questa la circostanza che obbliga ancora i due coniugi a rifare il percorso storico in cui si è configurata la disfunzione mentale dello sfortunato ragazzo.          

 Ma la serenità desiderata non arriva solo perché se ne sente assoluto bisogno; arriva il tempo che induce a guardare di qua della siepe per compiangere chi non è sopravvissuto, ma a scorgere, oltre la cortina dell’incertezza, il varco, sia pure faticoso, da compiere in vista di  un modo meno particolaristico di fabbricarsi un futuro di condivisione sociale,

I ritorni sono il segno della parziale sconfitta personale e di classe, ma sono anche il luogo del ripensamento e del riesame, sono il momento del fare i conti con la possibilità dell’errore assoluto, ma anche la rivincita dell’umana ragione sulle atroci chiusure particolaristiche.

Presentato così lo scheletro della lunga storia, qualcuno potrebbe credere che il romanzo sia una relazione di carattere sociologico. Invece no. Il racconto riguarda le angosce e le fatiche di persone vive: molti sono i personaggi che  interpretano il tempo difficile del loro e nostro vivere, racconta come più persone incontrino ostacoli a fare famiglia e a difenderla dalla miseria, racconta di persone umili capaci di considerazioni inclusive e pacifiche, di donare tempo attenzione e partecipazione  umana a coloro che soffrono di disagi di natura profonda come quelli che colpirono SM e specialmente i suoi disperati genitori.    

Bianca Mannu  

09/09/2024

sabato 7 settembre 2024

Nota di Bianca Mannu (segue il precedente dialogo con gli eventuali lettori di questo Blog)

NOTA  propedeutica ai miei interventi riguardanti il romanzo “da nonna Annetta”  il cui titolo non è di mio gradimento, mentre l’opera è indiscutibilmente mia, anche se io non becco nemmeno un centesimo delle royalty, perché il primo editore l’ha indebitamente venduta ad altri pur mantenendo la mia maternità autoriale, priva di diritti economici : infatti  ecco come appare e continua ad apparire in varie librerie e vetrine di case editrici che lo mostrano con diverse altre mie opere in prosa e in versi e lo vendono. Aggiungo che sul colofon a pag. 4 si legge:

Bianca Mannu

Da nonna Annetta

Proprietà letteraria riservata

L’opera è frutto dell’ingegno dell’Autore

 E varie altre notazioni, tra cui

Prima Edizione

Finito di stampare nel mese di dicembre 2010

Purtroppo, essendomi trasferita di casa e di città, non sono riuscita a rientrare in possesso del contratto firmato da me e dall’editore, perché inghiottito dalle centinaia di documenti finiti nelle scatole, alle quali non posso attualmente accedere per ragioni logistiche.

Dichiaro che la mia proprietà non può essere messa in discussione. Perciò intendo effettuare piccole modifiche formali che nulla tolgono alla narrazione e al suo significato. Prima fra tutte è la modifica del titolo che, dal mio punto di vista, restituisce l’ampiezza del quadro narrativo. Faccio questo e lo rendo pubblico, perché a breve compirò 83 anni e dunque, per il futuro privo di me vivente, esigo si tenga conto di questa mia volontà. 

Bianca Mannu

 


 


lunedì 2 settembre 2024

Una comunicazione a tu per tu coi miei lettori - Bianca Mannu

Nel 2010 pubblicai il mio più voluminoso romanzo presso La Riflessione Davide Zedda Editore.  Aveva per titolo "da nonna Annetta" secondo decisione dell'editore che adottò il mio logo di Salvazione. A me non è mai piaciuto perché applica al racconto un pregiudizio tematico: come se la storia narrata si risolvesse in quel solo rapporto. 

Al momento della presentazione - dicembre 2010 - il sig. Davide diede forfait e dopo dovetti incontrare solo l'editrice subentrante che avrà forse letto (sono generosa) una sessantina di pagine  e continuò per quell'ora di incontro pubblico  a giocherellare con una me, fantasma infantile, innamorata di nonni e ziette, come se così avessi raggiunto per sempre il paradiso degli affetti. 

La sparizione dell'editore e il suo divenire fantasma (complice la combriccola che lo rimpiazzò) mi spiacque molto, perché il libro mi era costato quasi dieci anni di fatica per raccogliere e organizzare i materiali di memoria e di riferimento spaziotemporale, per decidere l'intreccio degli eventi e le cronologie interne, per rinfrescare le narrazioni ricevute da mio padre e tentare di ricreare alcune delle felici atmosfere in cui il trasferimento verbale e prossemico avvenne.  Avendo a che fare con una me stessa alle prese con le diverse fasi dell'esistenza, dovevo anche trovare il calibro psicologico con cui costruire le mie diverse replicanti, per non schiacciarle o su una psicologia infantile da fiaba (avrebbe suonato falsa) o condannare la PM in crescita mentale a sopportare il peso di una "grassa", ma non tanto, però pesante Matrioska sessantenne. Il mio ex marito si complimentò con me dopo averlo letto, il libro. Ma io mi sentivo come se fossi uscita da una pira, ustionata come il mio libro coi riccioli neri dei suoi fogli usti. Feci anche il giro delle librerie per vedere  se qualche copia fosse comparsa. Sì, qualcuna c'era, poco visibile tra l'ombra degli altri e il colore spento della sua copertina, salvata in extremis da un insulto peggiore. Però il mio libro, forse nato vivo, era morto. Non lo cercai più.  

Ogni tanto  aprivo una delle poche copie rimaste sul mio scaffale per chiedermi: dove sarà finito? Dei miei undici testi stampati era quello che compariva di meno in qualche libreria di Internet: resti, dicevo. Recentemente ho pensato ad esso come a un aborto e pertanto che forse avrei dovuto riconsiderarlo per capire se qualcosa di vitale lo abitasse: decisi che sì, potevo rianimarlo togliendo diverse  giaculatorie apotropaiche che non avevano scongiurato la sua cattiva sorte.

Mi sono rimessa a leggerlo più e più volte  e ho deciso che avrei lavoricchiato sull'ortografia e sulla sintassi verbale, che avrei ben controllato il lessico, ma sopra tutto avrei bocciato il vecchio titolo e gliene avrei proposto uno più rispettoso dei suoi attorcigliamenti temporali e in sintonia con le sventure dei suoi ospiti nominali. Così un po' rianimato, ho deciso di offrirgli un padrino meno cinico del primo, dopo essermi accertata che non avesse ricevuto  l'ISBN. In tal caso avrei cercato un nuovo e più affidabile editore. Che cosa ho trovato?

Che aveva nome, quello che non mi piace, e il suo cognome l'IBSN,  che frequenta  librerie importanti e case editrici di grido, di quelle che forse mi avrebbero sbattuto in faccia le loro porte telematiche perché io non sono di quelle/i che porta clienti a prescindere; e perciò da non giocarcisi la partita E però se i libri che ho scritto, tasto dopo tasto e 50 ritorni indietro, sono accolti, significa che  qualcuno dei miei dieci titoli si vende. E se si vende chi s'intasca le mie royalty? Il sig. Davide Zedda o le botteghe delle case editrici?  E allora, chi sono io? Una che non esiste, una schiava della penna informatica da strizzare come un limone. Qualche goccia ingrassa il casuale padrone. Lo sfruttamento è lo spirito animatore dell'eterno  momento. Complimenti, cari editori, nobili o plebei.  E magari siete capaci di sentenziare che il mio idioletto è troppo referenziale. Grazie a chi legge e magari lascia un segno!

Bianca Mannu                            

venerdì 30 agosto 2024

Sera speciale - dal cap. V di "Ciò che resta per i ritorni" romanzo di B. Mannu

 

***

Invece quella sera speciale, di cui ho iniziato a parlare, la macchina organizzativa familiare andava a meraviglia. Perciò io quietamente occupavo la mia posta ludica e di osservazione nella “lolla”. E anche quella sera, come forse altre precedenti e certamente posteriori, Marta si dava da fare per apparecchiare con tutti i crismi delle grandi occasioni, così come nonna esigeva. E perciò aveva portato sul tavolo il cestino delle posate cesellate che qualche ora prima aveva trattato con la cenere e l’aceto. E ora le osservava alla luce della lampada facendole balenare per cogliervi qualche eventuale opacità, che peraltro si affrettava a eliminare alitandoci sopra e strofinando con un tovagliolo immacolato.

Aveva sistemato anche la sedia per nonno Augusto. Pur essendo simile ad altre, giudicate più comode fra tutte, quella di nonno si distingueva per certi segni tattili che sapeva solo lui; perché ci teneva appeso il bastone quando si muoveva liberamente nella lolla; perché sul suo fondo ci stava legato un cuscino. Però questa volta il cuscino non era il solito cuscino liso e anche macchiato, ma era rivestito d’una fodera nuova che mi pareva ricamata e molto bella.

Intanto che percepivo con i sensi e l’aiuto della memoria quanto entrava nel mio raggio, mi dedicavo al mio gioco preferito: quello di accostare le sedie a formare una specie di lettuccio. Mi ci arrampicavo e acciambellavo avvolgendomi nel drappo di ciniglia. Le sedie, ai miei movimenti, si scostavano. E io ricominciavo da capo, finché mi stancavo e mi lasciavo cogliere dal sonno. Ma quella sera, essendo presente anche mio babbo, non volevo addormentarmi. Così, quando Marta pietosamente cercò di portarmi a letto, io mi ribellai gridando: «“Voglio esserci anch’io!». Lei mi mollò e sparì. Forse mi appisolai ancora sulle sedie e dentro il drappo. Ma poi, come risvegliata dalla densità del silenzio che si era prodotto nella mescita e che tracimava nella lolla, senza essere seguito dall’atteso brusio indicante l’irruzione della famiglia, la chiamai a gran voce. Uscì a razzo dal dormitorio delle zie recando non so che panno o asciugamani.

«Dove sono tutti?» le chiesi.

«Ah, dunque sei proprio sveglia! Sono tutti di là, nel salotto buono».

«Tutti là? Anche babbo e mamma?»

«Certo».

«Ci sono i Finanzieri?»

«Ma no, che dici! C’è il fidanzato di tua zia Irene … Anche i parenti e la pronuba. Vieni, dai!»

Tutta la famiglia s’era raccolta lì con gli ospiti. Evidentemente erano entrati dal retro del Tabacchi e nella confusione dei convenevoli s’erano un po’ dimenticati di me.

C’era una foresta di piedi che si spostavano con riluttanza verso le sedie e un confuso stormire di voci che andavano affievolendosi per fare posto a voci soliste che scandivano le loro battute,  cui faceva seguito il coro delle risate e dei commenti. Quando si fece un po’ d’ordine, presi posto sulle ginocchia di babbo e mi guardai intorno. Mancavano zia Daria e suo marito, Amelio. A mio modo sapevo fare i giusti conti. Però non avevo ancora realizzato ciò che col tempo mi divenne, inequivocabilmente, chiaro: che i due erano “la bestia nera” di mia madre. E, perciò, dove era presente l’una gli altri non si mostravano, e viceversa.

Dal chiodo di quell’assenza vedevo anche pendere - momentaneamente innocuo - l’ambiguo senso di certe ruvide espressioni materne al mio indirizzo, quando, in casa, a Vineanova, ne avevo combinata qualcuna.

Al momento, stando alle apparenze, nessuno sembrava notare o risentire della loro mancanza. E io facevo solo il notaio per mio conto.

C’erano - quella sera - parecchie persone a me ignote, da cui ebbi distratte carezze sui capelli, e c’era, ovviamente, il famoso fidanzato di zia Irene, Rinuccio. Il quale, senza colpa alcuna, destò in me un’istintiva, immediata, inspiegabile avversione. Ricordo nitidamente questo mio sentimento, perché un evento successivo e imprevedibile mi costrinse a far pace con la sua immagine.

martedì 27 agosto 2024

Verbi e di-verbi: COSMO - stralcio del 1° cap. di "Ciò che resta per...

Verbi e di-verbi: COSMO - stralcio del 1° cap. di "Ciò che resta per...:   Cosmo La sorte ha fatto in modo che io vivessi in modo più diretto e intenso le relazioni affettive, dirette e rinnovate nel tempo, coi ...

COSMO - stralcio del 1° cap. di "Ciò che resta per i ritorni" - Romanzo di Bianca Mannu

 

Cosmo

La sorte ha fatto in modo che io vivessi in modo più diretto e intenso le relazioni affettive, dirette e rinnovate nel tempo, coi genitori materni. Perciò il mio ombelico mentale e affettivo è, fin dai miei primi anni, la casa di nonna Annetta con quanto ci stava dentro e attorno.

Proprio quella casa, con tutte le sue pietre, usci, angoli e meandri, con tutte le voci umane e animali, con tutti i rumori, con tutti i suoni, gli echi e i tramestii, con tutti gli odori e i sapori; con le ore del giorno alle sue porte, con le notti da presepio senza vento sul tetto, col cielo appoggiato sui pianori dei colli circostanti come il prezioso coperchio d’una scatola di fango dissimulato nel lucore rossastro dei lumi, con le minuscole inferriate a croce per il cui mezzo la casa si affacciava sul retro, offrendosi avaramente all’incanto dei pleniluni spalmati sull’oliveto d’argento, immobile come un reperto nella sua teca. Quella casa, dalla geometria primordiale, aperta ai quattro punti cardinali, eppure difesa dalle sue “amazzoni” (nonna Annetta e le ziette), ora esiste tale solo nella mia mente, perché l’ho amata e coltivata nella memoria, quasi come “su log’e s’anima”.

E ho amato il fangoso paese che la conteneva – Gesòli - di cui la casa dei nonni era una specie di centro sociale e commerciale e, direi, anche un portale d’ingresso e di vigilanza verso stranieri e forestieri, aggressivi o mansueti che fossero.

Ho amato la sua gente, non come folla, ma come persone individuate e individuabili; anche quelle che m’incutevano qualche timore. Forse perché erano osservabili da vicino? Non so.

Faccio un esempio: tziu Cosiminu. Tziu Cosiminu Prata. Lo designavano così, col nome e col cognome.

Sentito pronunciare più volte, senza aver individuato la persona, un nome così mi parlava di bonomia, mi evocava un’immagine ilare, amichevole.

Ed ecco che una sera, ospite dei nonni, avevo percorso in discesa la piccola rampa di scale che dalla lolla menava alla pedana di legno posta dietro il bancone della mescita. Credo che mi fossi soffermata sul penultimo gradino per vedere meglio e anche per essere meglio notata. Perché le mie apparizioni erano oggetto di notifica e di convenevoli da parte di diversi astanti.

“Ah, ahn! Teneis istrangius! Sa pipìa de Domtiilla, beru?” rivolti alla zia Dora. E a me: «Come ti chiami? Ti piace stare dai nonni, eh? E Gesòli? Ti piace Gesòli? Gesòli è una città … eh eh?  Che … se ne trovano poche. Vero?».

Ecco, io esistevo! Non ero un ente senza consistenza e senza ombra, come in genere succede ai bambini, specialmente a quelli poco fastidiosi. Mi si chiedeva inoltre del babbo, della mamma, mi si raccomandavano i saluti per loro. Ne ricavavo una sensazione così netta e bellissima, come in nessun altro luogo e in nessun altro tempo mi è accaduto.

Però quella particolare sera c’era molta animazione - ignoro il perché - tra gli avventori della mescita, disposti in gruppetti circolari, bicchieri in mano. Fra costoro notai una persona che mi pareva discordante rispetto al contesto. Infatti il suo cranio calvo e la sua faccia erano bianchi e lucidi a paragone delle altre facce e degli altri crani, cotti dal sole e segnati dalla fatica.

Aveva un grosso ventre sulle gambe corte, indossava calzoni, panciotto e giacca di panno, invece che brache di fustagno coperte di toppe. Ma ciò che m’incuriosì erano una specie di barbetta a collana che gli cerchiava il grasso collo da un orecchio all’altro e due occhialini pinza-naso assolutamente alieni rispetto alla mia esperienza in fatto di occhiali. Da lì scoccava l’occhiata arcigna dei suoi piccoli occhi puntati su di me in modo malevolo, mi pareva.

Mi sarei aspettata di sentirgli usare un idioma forestiero e insieme autoritario come la sua espressione; oppure sonoro e un po’ arrogante come quello dei castagnai e dei “gabilli”.

Sì, perché anche costoro affollavano al momento la mescita. Arrivavano dal “Cabesusu”, conducevano le greggi a svernare attraverso la Trexenta nel Campidano, al pascolo brado. Tornavano d’estate, dopo il raccolto, per il pascolo delle stoppie.

Invece l’uomo parlava con lo stesso accento dei locali, senza un briciolo di prestigio in più nel tono; piuttosto con maggiore rozzezza, mi parve. Conclusi che era un cittadino di Gesòli. Perciò mi avvicinai a zia Dora e all’orecchio le chiesi chi fosse “quell’uomo cattivo”.

«Cattivo?» E zia Dora passò in rassegna i clienti con un’occhiata. «Indicamelo. Ma non fare gesti, eh!»

«Quello con gli occhialini», le soffiai tra i capelli.

«Ma, no. Quello è tziu Cosiminu Prata. Sembra a te così, ma è bravo». E mi sbolognò dal bar.

Qualche anno più tardi realizzai di aver trovato il sosia vivente del ritratto di Camillo Benso, Conte di Cavour, stampato in un mio libro scolastico.

Capitò anche che fossi mandata a casa sua, una volta: la zia Dora gli inviava per mio tramite il suo orologio per una riparazione.

Non mi rendevo ragione del perché lei prediligesse gli orologi maschili, pur essendo la gemella di zia Ottilia e si abbigliasse come lei, molto femminilmente, per la messa della domenica. Vero è che, a una mia più matura osservazione, zia Dora appariva alquanto impacciata e quasi fuori posto dentro le sagome di certi vestiti destinati a sottolineare il portamento femminile e a esprimere un buon pizzico di elegante civetteria. Proprio questa mi affascinava invece in zia Ottilia, combinata con quella sua voce sommessa, ma limpida, e quel suo fraseggio signorile, quasi mai brusco. Zia Dora aveva invece un parlare sbrigativo, secco, che non ammetteva repliche; e per quanto fosse piccola e esile, manifestava un contegno spigoloso e poco aggraziato. Dunque, malgrado la gemellanza, le due ziette si somigliavano poco ai miei occhi. E ancora meno quando, in virtù della tradizione e della moda paesana, uscivano insieme abbigliate, calzate e incappellate in un’identica foggia.

Quanto al signor Cosimino (mai avrei dato dello “zio” a quell’uomo!), in quella circostanza fece mille convenevoli e cerimonie, idealmente destinati alla committenza, a cui opposi un assoluto mutismo costringendolo a un rapido commiato. Capii che non era orologiaio di professione, ma “per passione e per compiacere le amicizie di riguardo”. Così aveva detto stringendo le labbra con sussiego e come rivolto a un pubblico che non vedevo, ma parlando italiano, questa volta. Però, tanto allora che dopo, conservai nei suoi riguardi la prima negativa impressione, non del tutto esente, nel seguito, dagli effetti di certi liberi discorsi che mia madre intrecciava con sua madre o con mio padre.

In effetti il vecchio orologiaio, tziu Titinu Porru, era morto e non ve n’era un altro in paese. In tal modo Cosimino Prata arrotondava il suo non troppo lauto stipendio, senza dare a intendere di averne bisogno e poter ben figurare nel gruppo dei notabili.

Era, niente meno, un impiegato del Comune. Sedeva alla scrivania di un ufficio pieno di carte legate con dei nastri anneriti. Intingeva la penna dentro grossi calamai di vetro e ogni po’ dava dei colpi secchi di timbro sui fogli. E quella volta zia Dora ne ebbe uno che arrotolò con cura dentro un altro foglio, per il quale ringraziò con deferenza prima di congedarsi.

Era questa la ragione della pallida e pingue burbanza dell’uomo e del suo distinto, ma frusto, abbigliamento.

In coincidenza mi torna distintamente alla memoria anche tziu Titinu, perché, sordo com’era, si faceva gridare le parole dentro una specie di trombetta che teneva appoggiata all’orecchio. Ciò mi meravigliava non poco. E così una volta mi ero accostata a lui per veder da vicino quel curioso strumento. Egli mi fece della domande e io, per rispondergli, mi vidi costretta a guardare il lungo e folto pelame delle sue orecchie. Non fu un bel vedere. Ma in compenso tziu Titinu aveva un sorriso angelico e di lui altro non vidi né seppi.

Invece, anni dopo – non ricordo più circostanze e ragioni - capitai più volte nella casa del signor Cosimino, in sua assenza e in sua presenza. Forse avrò frequentato qualcuno dei suoi figli minori di cui non conservo alcun ricordo. Ma rammento bene che in quelle occasioni potei avvertire, in modo quasi palpabile, la tensione di ansia che la sua sola ombra proiettava sui suoi familiari. Al suo sopraggiungere tutte le voci si affievolivano e subito iniziava nei suoi confronti una specie di pantomima di atti servizievoli e di untuosa affettività.

Mi capitò di osservarlo mentre serviva messa o partecipava ai rosari e alle giaculatorie (poiché nonna Annetta esigeva che io frequentassi i riti parrocchiali durante la mia permanenza a Gesòli). Ebbene, facevo confronti. Gli uomini – anche quelli molto devoti – erano composti e un po’ rigidi. Lui, no. Si prostrava, atteggiava il volto alla beatitudine delle statue dei santi. Insomma, i suoi atti di devozione mi parevano carichi di svolazzi che neppure il prete.

Tutta la sua famiglia, del resto, era mobilitata nei servizi ecclesiastici. Lui dava ordini al campanaro e controllava il funzionamento dell’orologio del campanile. I figli maggiori - un giovane e due ragazze, molto somiglianti fra loro, ma fisicamente allampanati e unti come la loro madre - cantavano nel coro e ripetevano il catechismo ai più piccoli. Ma il giovane suonava anche l’organo a canne durante i riti cantati. La moglie non faceva niente. Con i piedi pesanti e il capo piegato a nord-est, era come un’ombra di martire ai piedi del pulpito.

Nessuno di loro aveva negli occhi una luce di gioia.

Una volta, mia cugina Marianna (nella circostanza lei poteva contare allora circa dieci anni d’età e io qualcuno di meno) mi spifferò maliziosamente all’orecchio che la zia Dora amoreggiava con l’organista. Non le credetti. Zia Dora, la carabiniera, capace di ridurre alla timidezza gli ubriachi?! Lei era ai miei occhi refrattaria a ogni smanceria affettiva. Io, che andavo al cinema di Vineanova con i miei genitori, sapevo bene con quale languore le donne dei film abbracciavano i loro innamorati!

Nessun riscontro decisivo si palesò a favore o contro le nostre infantili illazioni e, naturalmente, l’argomento fu presto dimenticato.