lunedì 16 luglio 2018
Sotto l’ombrellone giallo-verde - liberi pensieri di Bianca
Malgrado la problematica e dilagante proliferazione umana, il mare disegna oggi, purissimo, il suo orizzonte blu; e sotto il suo drappo mattinale, così setoso, nasconde perfettamente il suo fondo cimiteriale e dissimula con incredibile cosmesi neoformazioni inquietanti.
martedì 10 luglio 2018
Un matto in giallo - brano dal XVII capitolo di DA NONNA ANNETTA
Nota - Dico subito che la riedizione di stralci dell'opera non ha fini commerciali, dato che è probabile che non esistano copie del libro nelle librerie, né sto pensando di proporne una nuova edizione.
Sono assai felice del commento di Antonio Altana precedentemente postato su questo blog, come di quello, più professionale di Giuliano Brenna su Larecherche.it, del 2013, se non erro.
Ma in qualità di autrice, che non ha avuto l'occasione di precisare
perché e come sta dentro il libro, vorrei chiarire che il fine dell'opera non è e non voleva essere un'autobiografia , né documentaria né romanzata. La mia presenza come personaggio infantile e poi come io narrante adulto ha senso e si giustifica come collettore di storie altrui.
Si delinea un pezzo di mondo, popolato di persone: familiari affini, figure singolari e tratti distintivi di diverse comunità reali.
Ogni presenza, ogni figura o gruppo ha preso senso,non tanto in virtù della propria singolarità, ma in quanto tessera di un puzzle più grande. Senza un ragione apparente e senza alcun preconcetto sono andata a impattare in una sequela di storie o episodi che da soli sarebbero stati persino banali.
La necessità della scrittura (non esauribile nella sola escussione narrativa, come ha sottolineato Altana) si è imposta quando articolando fatti e considerazioni, sono emerse connessioni e ragioni
preminenti sopra le teste dei singoli
Ecco, un mondo che è esistito, è entrato costitutivamente nella mia ricettività sensoriale, con tutto il suo carico di problemi, affetti, disagi, concezioni di vita, frizioni e contrasti, ma anche di parole, di idee. Un materiale che ha fatto corpo e poi pressione per aprirsi una via d'uscita corale per via delle connessioni che io (forte della filosofia paterna) ho trovato il coraggio di affrontare dopo averci ponzato sopra per quasi vent'anni. E allora ho potuto incrementare la mia maturità provando ad articolare microcosmi col macrocosmo. ( B.M.)
Sono assai felice del commento di Antonio Altana precedentemente postato su questo blog, come di quello, più professionale di Giuliano Brenna su Larecherche.it, del 2013, se non erro.
Ma in qualità di autrice, che non ha avuto l'occasione di precisare
perché e come sta dentro il libro, vorrei chiarire che il fine dell'opera non è e non voleva essere un'autobiografia , né documentaria né romanzata. La mia presenza come personaggio infantile e poi come io narrante adulto ha senso e si giustifica come collettore di storie altrui.
Si delinea un pezzo di mondo, popolato di persone: familiari affini, figure singolari e tratti distintivi di diverse comunità reali.
Ogni presenza, ogni figura o gruppo ha preso senso,non tanto in virtù della propria singolarità, ma in quanto tessera di un puzzle più grande. Senza un ragione apparente e senza alcun preconcetto sono andata a impattare in una sequela di storie o episodi che da soli sarebbero stati persino banali.
La necessità della scrittura (non esauribile nella sola escussione narrativa, come ha sottolineato Altana) si è imposta quando articolando fatti e considerazioni, sono emerse connessioni e ragioni
preminenti sopra le teste dei singoli
Ecco, un mondo che è esistito, è entrato costitutivamente nella mia ricettività sensoriale, con tutto il suo carico di problemi, affetti, disagi, concezioni di vita, frizioni e contrasti, ma anche di parole, di idee. Un materiale che ha fatto corpo e poi pressione per aprirsi una via d'uscita corale per via delle connessioni che io (forte della filosofia paterna) ho trovato il coraggio di affrontare dopo averci ponzato sopra per quasi vent'anni. E allora ho potuto incrementare la mia maturità provando ad articolare microcosmi col macrocosmo. ( B.M.)
Da
Un matto in giallo
A quattordici anni Serafino aveva preso
a frequentare la carpenteria dei fratelli Simula, che accoglieva molti
apprendisti. Erano i ragazzi della classe media del paese, quelli che si
potevano permettere il lusso di sostenere i figli per il tempo necessario
all’apprendimento di un vero mestiere. Giacché i figli dei più poveri
scendevano già in galleria o andavano a scarriolare alle fornaci. Ma per
Serafino la frequenza della carpenteria doveva essere breve e tale da
consentirgli di acquisire qualche tecnica di base per fare il suo ingresso
presso una falegnameria vera e propria, che costruiva e intagliava mobili in
stile e che era molto selettiva nell’accogliere gli apprendisti. Nonno Mirau
s’era particolarmente dato da fare e si era volentieri accollato il peso del
mantenimento in apprendistato di Serafino, proprio considerando le capacità e
la particolare sensibilità del ragazzo. Il quale, insomma, pareva destinato a
un privilegio ulteriore: diventare un fine artigiano del legno.
Infatti nel volgere di un anno, il
ragazzo aveva già cambiato ditta. E la sera dopo il lavoro, studiava e
riproduceva su carta le venature e le particolarità dei diversi legnami, di cui
si portava in casa i campioni. Attentissimo in Ditta, aveva messo gli occhi sui
cataloghi e le pubblicazioni che il capomastro, signor Antonio - che era anche
contitolare d’impresa - consultava frequentemente quando assumeva una nuova
ordinazione. Fattosi coraggio, Serafino aveva chiesto il permesso di avere in
prestito uno di quegli album, anche per una sola sera.
“Questi sono strumenti di lavoro e
costano … Mica si può darli in giro così, come figurine qualunque!”
“Sicuro. A me piacciono per studio”aggiunse
l’apprendista in un soffio.
“Uhm. Sei arrivato ieri: non sai neppure
la A dell’alfabeto del falegname.”
“È vero, signor Antonio. Però io ce la
sto mettendo tutta. Guardi, se lei mi presta uno di quei libri, anche per una
sola sera, io rinuncio alla paghetta del mese che lei ha promesso di darmi per
questa fine anno …”
“Eh, come corri, ragazzo! Vedremo,
vedremo.”
E pare che il signor Antonio la scodellasse così, calda
calda, anche a nonno Cesare, per dargli ad intendere che la promessa paghetta
di Serafino poteva slittare per un buon mezzo anno. Fatto sta che una sera il
mastro intagliatore, preso dal ghiribizzo della curiosità - vediamo cosa
riesce a combinare - gli allungò uno degli album corredati di immagini e
didascalie. Il giorno successivo Serafino tornò col libro in mano e un mazzetto
di fogli nei quali aveva riprodotto a matita le immagini dell’album con una
precisione e una bravura davvero singolari. Perciò il signor Antonio lo prese a
benvolere e lo chiamava per farsi aiutare negli schizzi degli assemblaggi,
quando il lavoro progettuale urgeva. A casa di nonno Mirau erano stati tutti contenti
per lui e disposti a passar sopra a certe sue spigolosità caratteriali. Anzi
Alfano gli aveva ordinato a proprie spese, dal Continente, una grossa
pubblicazione sulla storia del mobile e degli stili.
La domenica, il vecchio gruppo dei
compagni di carpenteria passava da casa per chiamare il loro antico compagno di
lavoro e di giochi. Andavano per campi, alla ricerca di qualche frutto negli
orti indifesi, di uccellini di nido, di bisce, di lucertole o semplicemente
andavano per voglia di moto e gazzarra maschile. Nel gruppo, a mano a mano che
si usciva dalla mentalità dell’infanzia, si parlava ad alta voce di donne,
d’irruzioni ipotetiche in certe bicocche che sarebbe azzardato chiamare “case
di piacere”, ma nelle quali era possibile essere iniziati alla pratica
sessuale. Se era estate, i ragazzi si tuffavano a gara in “Su Carropu”,
nel fossato della cava di arenaria. E quando la pelle, satura di sole, si era
vestita della patina argillosa della roggia, allora qualcuno, guardando la lama
della luce trapassare obliqua lo spessore equivoco e verdastro dell’acqua,
evocava i morti annegati degli anni avanti. Un brivido allora saettava i dorsi
e atterrava le inguini esaltate. Un altro allora, per sfida, di nuovo si
lanciava e chiamava alla prova gli altri. L’irrisione e il frizzo cedevano
talora il passo all’insolenza, e l’insulto accompagnava e seguiva il gesto
rabbioso delle mani… Era così anche ai tempi di Alfano, pochi anni prima. Ma a
quel tempo Alfano già fucinava presso la miniera.
Comunque stessero le cose, in famiglia
ci si accorse che Serafino aveva smesso di partecipare a quelle scampagnate con
quella compagnia. “Com’è che non esci?” gli chiedeva qualche
volta sua madre. “Non mi va. Non c’è
sugo a torturare le bisce o a fare a
botte come cretini . E poi, fare a botte è pericoloso”.
Ma le domeniche erano giorni lunghi e
vuote le strade. Non si poteva crescere come mammole, nascosti tra il crescione
e il mentastro, aspettando primavera …
Fu così che quella domenica soleggiata
di maggio disse: “Oh ma’, badate che esco”.
“E dove, figlio mio?”
“Uff! Esco”.
“Con i soliti?”
“Esco e basta”.
“Ma, da solo?”
“Sì... No. Non lo sooo”.
“Non tardare!”
“Eeeh!”
Erano già tutti a tavola - tutti tranne
Pietro, che lavorava a Montorgiu, e Adelina che, sposa di fresco, pranzava a
casa propria col marito - quando il cancelletto cigolò in cortile. “Ci sei?”
vociò nonna Magdalena. Nessuno rispose. Aglaia si fece sull’uscio e osservò: “C’è
mica nessuno. Il signorino farà tardi. Ma noi si mangia, eh, che ho da finire
il cucito!”.
Alfano e Lorenzo affondarono gli occhi
nel piatto.
“Embeh! Uno non può andare a donne
senza sbandierarlo a tutti?” esclamò l’intemperante Valerio, rompendo il
silenzio e cercando di buttarla in facezia. Ma gli sguardi di tutti quasi gli
troncarono in bocca la battuta. Un silenzio insolito accompagnò la consumazione
del pasto. Poi i ragazzi si allontanarono, mentre nonno e nonna rimasero seduti
a tavola, in attesa.
Il pomeriggio inoltrava e di Serafino
neanche l’ombra. “Basta” - sbottò nonna guardando il marito – “io sto
in pensiero”.
“Ma io dove lo cerco?” fu la risposta
angosciata di nonno che, levatosi in piedi, guardava di fuori senza saper
prendere una decisione. I due stettero a guardarsi come se ciascuno, leggendo
sul volto dell’altro il passaggio di un’ombra scura, non volesse darlo a
vedere. Infatti tacevano. A quel punto Aglaia, si affacciò dalla sua stanza: “Niente,
eh? Voi, papà e mamma, i maschietti di casa li viziate troppo! Al
loro confronto, me mi trattate come una carcerata”. E la sua voce dal
timbro argenteo sembrava voler rassicurare tutti.
Nonna Magdalena per un po’ si agitò
pesantemente sulla sedia, poi si levò di scatto e cominciò a sparecchiare
chiassosamente la tavola. Ma quando ebbe impilato i piatti per lavarli nel
caldaio di rame con la cenere, mollò tutto, si asciugò le mani sul grembiule ed
entrò nella camera dei figli. C’era solo Alfano che ricuperava il turno in
officina, perché a sera doveva rimettersi in cammino per Montopinosu.
“Che c’è, mamma?”
“Scusami se ti ho svegliato. Volevo dire
ai tuoi fratelli che …”
“Sono usciti a posta. Non mi
riesce lo stesso di dormire. Però sta’ tranquilla. Tornano presto, e tutti”.
Tornarono Lorenzo e Valerio: “A Su
Carropu non c’è traccia di soste umane. Del resto non fa ancora così caldo!”
Nonna e nonno respirarono rumorosamente,
come parzialmente sollevati.
Alfano si era alzato e si apprestava a
uscire come se dovesse raggiungere la miniera. “Andiamo. Portatevi un
indumento pesante e dei bastoni. La borraccia dell’acqua l’ho nella sacca.
Passo nella loggetta a prendere la lucerna di miniera …”
Valerio fece una smorfia ironica, ma si
dispose a eseguire senza ulteriori commenti. I genitori stavano a guardare
impensieriti e speranzosi, avendo rinunciato, per scaramanzia, a darsi un’altra
spiegazione segreta e incomunicabile del fatto. O meglio, a nonna Magdalena
martellavano nelle orecchie le parole di Serafino: “Fare a botte …
pericoloso … botte … botte … pericoloso … botte …”. Ma non erano
passati che pochi minuti, quando la voce di Alfano li raggiunse, alterata,
dalla loggetta situata nell’angolo remoto del cortile. Accorsero tutti.
Serafino era riverso nell’angolo tra la
legna e il prospetto del forno. E già Alfano sollevandolo diceva che era solo
svenuto. Lo portarono in casa e lo deposero sul letto. Nonna pretese che lo
spogliassero “per capire se reca dei segni”.
“Che segni?”
“Se ha fatto a botte …”
Non aveva segni.”Non sembra che
l’abbiano picchiato” si dissero l’un l’altro.
Ma non ci fu verso di riportare il ragazzo
alla coscienza. Da pallido divenne violentemente rosso sul volto e fu preda
della febbre. Per diversi giorni stentò a riprendere conoscenza. Se ne vide un
barlume verso il mattino dopo, ma poi sopraggiunse di nuovo la febbre.
Adelina, già col
pancione, recava il ghiaccio in una busta di gomma. Lo prelevava dalla sua
ghiacciaia sempre fornita, per fabbricare la carapigna, i sorbetti da vendere
alle feste. “Adesso che nasce il bambino, beati voi se mi vedrete! Neppure
dietro il banco potrò stare. Dovrà starci Cristoforo. Ma lui scalpita. Dice che
qui così non si guadagna, qui. Dice che vuol partire. E forse sì, partiremo …”
Allora non si
accedeva tanto facilmente agli ospedali, pochi e concentrati nelle città,
specialmente se si abitava a distanze ragguardevoli. D’altronde il medico,
avendo escluso contusioni, consigliava di aspettare il chiarimento del quadro
clinico. Nonna e Aglaia si davano il turno con il ghiaccio e poi con le
pezzuole umide. Solo dopo tre settimane la febbre ebbe un recesso e,
accompagnandosi a copiose sudorazioni, in una notte cessò del tutto. Al mattino
Serafino apparve come svuotato e con gli occhi vaghi come laghi brumosi. Non
parlava. Il medico, contento, smorzava le ambasce di nonna: “Un po’ alla
volta, che diamine!”.
Una mattina che
erano tutti via, nonna Magdalena studiò da vicino il malato. Era pallido e
smagrito, sì, però aveva i tratti più rilassati … Gli accarezzò i capelli e la
fronte e con la voce trepidante e dolce gli chiese: “E allora, figlio mio,
non mi vuoi raccontare che cosa ti è successo quel giorno?”.
“Ma voi, chi
siete? Che volete da me?” gli fece eco Serafino con una voce irriconoscibile
e roteando gli occhi in modo pauroso.
Nonna Magdalena
si spaventò e pianse per la disperazione. E quando tutta la famiglia fu riunita
ci si accordò per non chiedergli più nulla e per fare come se niente fosse
accaduto. Magari, col tempo, tutto si sarebbe chiarito e aggiustato. Era noto a
tutti che Serafino, pur essendo mite, non amava essere inquisito o pressato.
“Avrà avuto uno
spavento e, forse perciò, non ricorda niente davvero!” tagliò corto
Aglaia.
Si trattava di
aver pazienza e favorire il tranquillo ritorno alla normalità, aveva ribadito
il medico, chiamato in soccorso. Più avanti nel tempo si sarebbe potuto
condurlo a Cagliari da uno specialista del sistema nervoso, caso mai rivelasse
il sintomo del malcaduco … “Ma non pare” aggiunse ancora il
dottore per smorzare l’apprensione della madre. Anzi trovava inutile il suo
controllo assiduo. Era meglio che lo chiamassero al bisogno.
I giorni
passavano e il pensoso Serafino rimase assolutamente blindato e taciturno.
Invitato a uscire di casa, si rifiutò testardamente rifugiandosi nel letto e
chiudendo la porta della stanza a doppia mandata. Fece lo stesso quando lo
invitarono a tornare al lavoro. Anzi questa volta aveva manifestato, insieme
col rifiuto, una veemenza fisica e verbale che nessuno gli conosceva.
Passarono alcuni mesi senza che si
potesse avere un indizio né di peggioramento né di ritorno alla normalità.
Serafino aveva, sì, ripreso a bazzicare il cortile, ma unicamente per costruire
gabbiette di stecchi, per grilli e cavallette, asseriva.
“Non se ne fa più niente di costui” aveva osservato
un giorno Valerio, fissandolo con crudele oggettività.
“Infatti. E nulla ci si deve più aspettare da
lui” gli fece sponda lo stesso Serafino, restando chino sugli stecchi che
assemblava pazientemente con sottili pezzi di rafia e con una voce così
impersonale come se parlasse di un altro.
La montagnola delle gabbiette cresceva
sensibilmente, ossessivamente. Ora anche Alfano osservava il fratello con
doloroso spavento. Pietro, Pietrino per tutti i familiari - quelle rare
domeniche che poteva tornare a casa da Montorgiu - scuoteva il capo. “Mamma,
babbo, non aspettate più; portatelo a Cagliari. Al costo della visita ci
penso io”.
Pietrino dovette tornare di lì a poco
perché era arrivata la cartolina di chiamata alle armi. L’Italia entrava in
guerra e lui a Cagliari doveva andarci per forza, per vestire la divisa e
partire.
Fu così che, un po’ per accompagnare
Pietrino e un po’ con la speranza di ottenere da uno specialista una cura che
riportasse il ragazzo alla normalità, partirono in quattro per Cagliari.
All’arrivo Pietro scomparve dietro il portone di una bassa, ma ampia e grigia
costruzione: la caserma. Loro tre montarono su un tram a cavalli e ritornarono
alla Marina, non lontano dalla stazione ferroviaria.
La visita non chiarì un bel niente, ma
costò intero l’ultimo salario di Pietrino. Ebbero una ricetta per un ricostituente.
Fu tutto. Verso l’ora della partenza videro un soldato avvicinarsi alla loro
panchina … Serafino fece uno scatto di gioiosa sorpresa: “Pietrì, sembri un
altro! Ma io ti preferisco in borghese”.
“Anch’io mi preferirei come piace a te” gli rispose il
fratello con ironia un po’ amara. Però si diceva rallegrato perché gli avevano
concesso tre ore per salutare il fratello malato. Non sapeva ancora la precisa
data di partenza, ma disse loro che era meglio che non tornassero nel
capoluogo. Perché tanto il saluto si sarebbe ridotto in un agitare il
fazzolettino sul molo e piangere come a un funerale.
Nonna Magdalena - racconta mio padre - pianse
silenziosamente per giorni e giorni; e ricominciava ogni volta che Alfano
ripartiva per la miniera di Montopinosu, perché le pareva che i figli – tanto
quello che era partito, quanto il più cagionevole dei tre che restavano in
paese, come quest’altro che arrivava per ripartire - glieli strappassero
ripetutamente e senza fine dalla carne viva delle viscere.
venerdì 6 luglio 2018
Per DA NONNA ANNETTA commento bilingue di ANTONIO ALTANA
Umile ma sìncheru cummentu positivu pro unu libru de
preju de Bianca Mannu
“DA
NONNA ANNETTA”
Unu
sàbiu assazu calamita in unu contu simizante a su beru, ue sa protagonista
pitzinna, descrita dae se mantessi creschende e creschida, ponet in giaru sas cuntraisciones
educativas de sa zente in sos annos baranta cun sos suos cunflitos sotziales e
sos aprofundidos analisi manizados chin una mazore subravisione, innudende
donzi borta su sorde dissagrante de s’ipocrisia cuadu prus de totu in sos pizos
de sa classe mediana.
De rimarcare, unu raru impitadu assignu de protagonismu a mantessis divessos personazos chi achidat cale esseret un assotziu de autobiografias tratadas in manera impecabile pro sa trasparentzia fisica e carateriale chi assignat a donzunu in su rolu sou e in su cuntestu sotziale chirriadu e connaturadu in famiglias allargadas de s’epoca, frecuentes in Sardigna (e no ebbia) e in modu ispecificu de cussa zona de sa Parteolla.
Un’istile de contadu-analis a prus pizos e filos intritzados chi fotografana tantu su personazu
chin sos suos achivos sotziales cantu s’ambiente e sas cuntraisciones evolutivas cun descritivas analis-avisos de siguru valore pro su oje.
Corazu e seguresa l’ispinghent in su “sensu unicu” de sas cumbissiones suas chi argumentat, dimustrat e cunfrontat cun sabiente e lugorosa, capatzidade e unu frunidu italianu.
Achidamentu de duras denuntzias a raighinados egoismos e mascinismos de su tempus a contraissiones de fide politica e religiosa chena addulchimentos chi isparghet cun rude siguresa e ranchida brugliania in sos longos bados de poesia che cussa lampana a piumbu in tzentru banca cun sa tiaza bianca chi refletit sa lughe multiplicada dae sos bicos decorados a franzas de su lampadariu de bidru a campana chi illuinat cun pitzinna beridade sas benales bramosias de sas tias, cuadas cun isgrabiladas ternuras o su tratu de aprendimentu cun issinzu pasigu e frutuosu chin su babbu, refratariu a fraigare fatzadas de fartzos benistares chin cussu infrutuosu de unu pessighire sa derruta erentzia de sa mama chi cuntrastat e criat redobica cuntierra cun sa fiza, (pagada cara… a soddos de carre-N.D.A) e balu sa ternura brugliana ma sinnificativa de sa tresca tra Celeste e Manfredi truncada in unu primu nascher dae nonna Annetta chin ua curiosa cunsigna de saludos de giugher a sa comare e mama de s’amoradu comente lestra dispedida e ricatu pro su viaggiu.
Psicologia e pedagogia sono rimarcados in sa prima parte de s’assazu sabiu apostorzadu in una sua isula felitze ue modellat sos sistemas pro sa connoschentzia e su cunfrontu de sa prima pitzinnia cun sas suas lestras e redobicas deduidas, che pro cussas de tziu Cosiminu presentadu a issa cando balu pitzinna, comente unu bonu e bravu dae sos chi nde retziant ajuos ma chi s’intuitu e su chertu l’ateit a bider uu Camillu Ben-susu, conte pro sos sardos.
A sa fine istrinat unu primu passadu
istoricu-politicu paritzu befulanu, comente Ersiliu chi tra una prima bufada de annicu e prepotentzia e un’ultima de diliga renchènnida
non si abbizat chi sos lughidos cambales cun sa camija niedda non benzeint (Noa legge e nou re), ma duos nidos de casu ebbia in su parastazu de coghina.
Capitzidade espressiva cun chilca descritiva rimarcant sa rara bravura de poder bessire dae su contu pro faghe cunfrontos istoricos e diretos chin su letore chena perder su filu ghia in su torrare a caminera. (Comente s’antifona de unu mancamentu improvisu) chi innestat briones chena truncare incunzas a su contu, l’ispuntant fiores in sa sua imprentada sabidoria.
De rimarcare, unu raru impitadu assignu de protagonismu a mantessis divessos personazos chi achidat cale esseret un assotziu de autobiografias tratadas in manera impecabile pro sa trasparentzia fisica e carateriale chi assignat a donzunu in su rolu sou e in su cuntestu sotziale chirriadu e connaturadu in famiglias allargadas de s’epoca, frecuentes in Sardigna (e no ebbia) e in modu ispecificu de cussa zona de sa Parteolla.
Un’istile de contadu-analis a prus pizos e filos intritzados chi fotografana tantu su personazu
chin sos suos achivos sotziales cantu s’ambiente e sas cuntraisciones evolutivas cun descritivas analis-avisos de siguru valore pro su oje.
Corazu e seguresa l’ispinghent in su “sensu unicu” de sas cumbissiones suas chi argumentat, dimustrat e cunfrontat cun sabiente e lugorosa, capatzidade e unu frunidu italianu.
Achidamentu de duras denuntzias a raighinados egoismos e mascinismos de su tempus a contraissiones de fide politica e religiosa chena addulchimentos chi isparghet cun rude siguresa e ranchida brugliania in sos longos bados de poesia che cussa lampana a piumbu in tzentru banca cun sa tiaza bianca chi refletit sa lughe multiplicada dae sos bicos decorados a franzas de su lampadariu de bidru a campana chi illuinat cun pitzinna beridade sas benales bramosias de sas tias, cuadas cun isgrabiladas ternuras o su tratu de aprendimentu cun issinzu pasigu e frutuosu chin su babbu, refratariu a fraigare fatzadas de fartzos benistares chin cussu infrutuosu de unu pessighire sa derruta erentzia de sa mama chi cuntrastat e criat redobica cuntierra cun sa fiza, (pagada cara… a soddos de carre-N.D.A) e balu sa ternura brugliana ma sinnificativa de sa tresca tra Celeste e Manfredi truncada in unu primu nascher dae nonna Annetta chin ua curiosa cunsigna de saludos de giugher a sa comare e mama de s’amoradu comente lestra dispedida e ricatu pro su viaggiu.
Psicologia e pedagogia sono rimarcados in sa prima parte de s’assazu sabiu apostorzadu in una sua isula felitze ue modellat sos sistemas pro sa connoschentzia e su cunfrontu de sa prima pitzinnia cun sas suas lestras e redobicas deduidas, che pro cussas de tziu Cosiminu presentadu a issa cando balu pitzinna, comente unu bonu e bravu dae sos chi nde retziant ajuos ma chi s’intuitu e su chertu l’ateit a bider uu Camillu Ben-susu, conte pro sos sardos.
A sa fine istrinat unu primu passadu
istoricu-politicu paritzu befulanu, comente Ersiliu chi tra una prima bufada de annicu e prepotentzia e un’ultima de diliga renchènnida
non si abbizat chi sos lughidos cambales cun sa camija niedda non benzeint (Noa legge e nou re), ma duos nidos de casu ebbia in su parastazu de coghina.
Capitzidade espressiva cun chilca descritiva rimarcant sa rara bravura de poder bessire dae su contu pro faghe cunfrontos istoricos e diretos chin su letore chena perder su filu ghia in su torrare a caminera. (Comente s’antifona de unu mancamentu improvisu) chi innestat briones chena truncare incunzas a su contu, l’ispuntant fiores in sa sua imprentada sabidoria.
Commento in italiano con dedica
E adesso
aiutato dalla pietà di word per l’ortografia del mio modesto italiano,
(e preso come strumento tuttavia sensibile per vibrarlo in questa sonorità –
N.D.A)
snocciolo il mio umile ma sincero commento completamente positivo per una rara
composizione a un libro eccezionale di
Bianca Mannu (Giuro!)
“DA
NONNA ANNETTA”
Un
saggio calamita in un racconto verosimile dove la protagonista infantile,
descritta da sé stessa maturanda e matura, mette allo scoperto le contraddizioni
educative della gente negli anni quaranta e i suoi conflitti sociali, con
approfondite analisi gestite da una sorta di ulteriore supervisione che denuda
volta per volta il verme dissacrante dell’ipocrisia subdola soprattutto nei
ceti medi della popolazione. Da sottolineare una non consueta assegnazione da
protagonista a diversi personaggi di turno come fosse un insieme di
autobiografie gestite in modo impeccabile per la trasparenza
fisica-caratteriale che assegna ad ognuno nel proprio ruolo un contesto sociale
dettagliato e veritiero, inserito nella famiglia allargata, frequente
nell’epoca in Sardegna (e non solo) e specificatamente in quella sub-regione
del Parteolla. Un metodo di racconto-analisi a più strati e fili capillari a
forte impronta personale che fotografa tanto il personaggio con le sue
acquisizioni sociali quanto l’ambiente e le contraddizioni evolutive con
descrittive analisi-messaggio di indubbio valore attuale.
Coraggio e sicurezza la spingono nel “senso unico” delle sue convinzioni che
argomenta, dimostra e confronta con sapiente lucidità e capacità in un forbitissimo
italiano.
Alternanze di dure denunce ai radicali egoismi e maschilismi del tempo e a dure
contraddizioni di fede politica e religiosa senza dolcificanti spalmati con
indomita sicurezza e amara ironia nei lunghi passaggi intensi di poesia, come quando una lampada a perpendicolo sul tavolo con tovaglia bianca, rimanda bagliori moltiplicati dagli smerli del
lampadario di vetro a campana che illumina con infantile verità le venali
frenesie delle zie, celate con maldestre tenerezze o il rapporto di
apprendimento sereno e proficuo col padre, refrattario ad innalzare facciate di
fallace benessere con quello infruttuoso di un perseguire il decadente
lignaggio della madre che contrasta e crea frequente rivalità (pagata cara… con moneta di carne) e, ancora la tenera ironia dell’idillio tra Celeste e Manfredi, stroncata in un primo frangente da nonna Annetta con
una
consegna di saluti da porgere alla comare e madre dello spasimante come un
buffo definitivo e perentorio congedo-viatico.
Psicologia e pedagogia sono preponderanti nella prima parte del saggio,
affastellati in una sua isola felice dove plasma i sistemi per la conoscenza e
confronto della prima infanzia con le sue ostinate e perentorie deduzioni, come
per tziu Cosiminu descritto buono e bravo dai beneficiari ma che il suo intuito
e l’indagine la conduce a vederlo come Camillo Ben-so conte dei sardi.
Mentre al finale regala un primo trapasso storico – politico alquanto
grottesco, come Ersilio che tra una bevuta reazionaria, tracotante e spavalda e
un’ultima bevuta nostalgica e fragile non si avvede che i suoi lucidi stivali e
la camicia nera non divennero nuova legge ne nuovo re, ma solamente due pezze
di pecorino in cucina.
Capacità espressiva con ricercata descrizione evidenziano l’eccezionale
bravura nell'uscire fuori dal racconto per un confronto storico e diretto con il
lettore senza smarrire mai il filo conduttore nel riprenderlo, (come antifona
di un malore improvviso) che innesta e gemma con continuità di resa il suo
racconto, senza perdere i fiori del suo saggio.
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domenica 1 luglio 2018
Agli stakanovisti della penna -satira inedita di Bianca Mannu
Leggo di voi sull’etichetta cifrata
che occhieggia sulla ressa
dal vetro del vostro barattolo
accuratamente chiuso
contro l’evaporazione
Marcate in verbi piani
certi incroci stellari
come se vi abitaste e – quasi aveste
sott’occhio
il centro della galassia - sens souci
la calpestaste al modo del chiasso
viscido
in cui siete cresciuti alla cattiva
scuola
che ai vostri demiurghi tornava buona
Vi
addebito un coefficiente
di millanteria pentagonale - sì
a voi a stelle e strisce imparentati
Vi guardo frenare in ritardo
certe vostre fughe ascensionali
su mongolfiere di verbi riscaldati …
Verbi che in quota vagano scollati
a farcirsi di grevità banali e perciò
destinati
a franare di sotto
nei liquami abituali
Aggrappato a questo masso che mi fu
culla
il mio io di sabbia secerne ventose da
patella
e sta in ascolto di ciò che volteggia e
ciò che cade
Qui sconta un po’ per caso
un po’ per deciso contrappasso
l’angustia diversa del vivere monadico
e graffia su questo bordo periferico
le rune della sua solitudine amica dell’umano
inchiodata ai bordi della convessità cosmica
Questa battigia – ove empia d’unto
si sbatte l'onda vostra -
mi spiattella ciò che resta sulla piazza
quando si chiudono i mercati
e la notte vi coglie accovacciati
a calcolare sugli smartphone
quanti nano-dollari pesa in borsa
Un’aria grassa di dispetto
aspetta dietro l'angolo
e ignara fa delle parole vento
Quelle parole - che di vita traeste
per crederle gettate riluttanti nella
fiera -
sonnambulano da morte finta leggerezza
empiendovi l’attimo di mendace ebbrezza
Poche
ne senti crepitare di superstite
sussulto - rare le trasudanti fato
come quelle che Ulisse bevve
alla morta bocca di Tiresia
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e stanno eterne
domenica 17 giugno 2018
Giuseppa Sicura, sottovoce, tra i versi di VALENTINO TRINCAS
Io, le conosco queste sere
Io, le conosco queste sere.
Mi hanno già preso e ripreso.
Conosco questo tempo di torpore
del corpo
e rigidità dell'anima.
Dal colore cenerino,
profumo di sandalo,
chiassose e insieme mute.
Queste sere avvinghiate all'inverno,
con braccia conserte alla primavera.
Vi conosco sere da luna park
abbandonati,
da mani tese fuori nei negozi,
da pneumatici in fondo al mare.
Sere di parole senza vocali,
di abbracci senza mani,
di libri senza pagine.
Vi conosco.
E voi conoscete me.
Eppure non vi stancate,
stridule e vischiose,
unte, immobili.
Rachitiche ed esili,
aborti di questo tempo,
figlie di paure antiche.
Valentino Trincas
Edvard Munch - Malinconia (1894
Che dire di questa poesia?
Una poesia scritta con la pelle e con la mente, che connettono al mondo esterno e lo scandagliano.
Sono bastate parole semplici, concatenate ad arte, aggettivi meditati ed ossimori, per trasmettere al lettore con concretezza fotografica (in un gioco d’immagini e personificazioni) sensazioni impalpabili e concetti astratti.
La primavera tarda a venire e ci rituffa indietro nel tempo, deludendo le nostre aspettative; ci destabilizza. Ritornano le atmosfere invernali appena trascorse, ma non ancora archiviate, un passato ancora troppo prossimo per non sentirne le fitte.
Chi è meteoropatico riconosce subito quelle atmosfere tristi e malinconiche. Passa attraverso il corpo la malinconia e raggiunge presto l’anima e per alcuni poeti è compagna assidua, un volto familiare.
C’è sintonia tra il poeta e “ queste sere”, affinità elettiva, come fossero attese e non subite. Sono il liquido amniotico, l’ambiente primigenio e ideale per l’autore, che lo riconosce come proprio e lì aspetta d’immergersi ancora, lasciandosi prendere e riprendere e godendo anche, e soprattutto, di torpori, silenzi e solitudine.
Le situazioni evocate nei versi sono momenti vissuti che hanno lasciato impresse nell’anima immagini che faranno fatica a sbiadire, sia che trattasi della mano di un mendicante, del luna park o di uno pneumatico finito in fondo al mare. Ѐ Il pensiero dell’abbandono che predomina in quelle immagini e ci coinvolge nell’approdo verso l’ineluttabile fine: fine dell’essere, ma fine anche della bellezza e della purezza, con tutto lo sconforto che vi si accompagna.
Nell’ultima strofe il poeta tenta un atto d’accusa verso il nostro tempo, che polverizzando i valori umani, ci condanna all’incomunicabilità; ma è quasi un punto interrogativo, che subito dopo, nell’ultimo verso, trova forse la risposta giusta.
Non ci sono parole e gesti che potrebbero confortarci, né libri che possano lenire o alleggerire fardelli legati a “paure antiche”, ormai talmente sedimentate nelle nostre viscere da fare un tutt’uno con noi, senza scampo, e noi in quell’insieme ci riconosciamo e, inconsciamente, tendiamo a ritornare.
Certi poeti (e Valentino è uno di loro)sono condannati alla malinconia e alla solitudine che, in alcuni momenti, con la complicità delle variazioni atmosferiche, si acutizzano. Riaffiorano i ricordi a marcare le assenze e lo sguardo verso il futuro si fa vago, incerto; la vita appare solo un cammino verso l’ignoto. Ma è in questi momenti che i poeti ci regalano versi indimenticabili, avvalorando quanto affermato da Aristotele e Marsilio Ficino, che al temperamento malinconico associavano profonda capacità riflessiva e genialità: pensiamo ad artisti come Van Gogh o De Chirico, a poeti come Leopardi o Baudelaire. Non di meno Rainer Maria Rilke, che elargendo consigli ai giovani poeti, raccomanda loro di non temere la malinconia, ma accoglierla e farne buon uso per affinare sensibilità e talento creativo.
Una forma di attrazione fatale lega l’artista alla malinconia ed anche il grande scrittore e poeta tedesco, Hermann Hesse, ce ne dà testimonianza negli ultimi versi di una sua poesia: inutili tutti i tentativi per sfuggire, ogni vagare è un viaggio che lo riporta a lei.
Alla malinconia
Nel vino e negli amici ti ho
sfuggita,
poiché dei tuoi occhi cupi avevo orrore,
io figlio tuo infedele ti obliai
in braccia amanti, nell'onda del fragore.
Ma tu mi accompagnavi silenziosa,
eri nel vino ch'io bevvi sconsolato,
eri nell'ansia delle mie notti d'amore
perfino nello scherno con cui ti ho dileggiata.
Ora conforti tu le membra mie spossate,
hai accolto sul tuo grembo la mia testa
ora che dai miei viaggi son tornato:
giacché ogni mio vagare era un venire a te.
poiché dei tuoi occhi cupi avevo orrore,
io figlio tuo infedele ti obliai
in braccia amanti, nell'onda del fragore.
Ma tu mi accompagnavi silenziosa,
eri nel vino ch'io bevvi sconsolato,
eri nell'ansia delle mie notti d'amore
perfino nello scherno con cui ti ho dileggiata.
Ora conforti tu le membra mie spossate,
hai accolto sul tuo grembo la mia testa
ora che dai miei viaggi son tornato:
giacché ogni mio vagare era un venire a te.
Hermann Hesse
GIUSEPPA SICURA
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