domenica 11 giugno 2017

Macchinismo - versi inediti di Bianca Mannu

Scroscia la sua ferraglia sulle gomme -
come un’autostrada la statale qua sotto - inferocita
Furiosamente retrocede  la sua lunga faccia
di piombo in stato di fusione
sotto i pneumatici ruggenti

Per quanto urli e strida
la sua mascella pretende mantenersi ortogonale:
ai raggi del sole meridiano espone proterva
l’ insegna inconfondibile dell’artificio umano

Niente a che vedere con la terribilità sublime
dell’acqua stravolta che rimbomba
buia assassina … e strepita sue geometrie
imprevedibili da ostinato fattore di natura

Scroscia e stride - come indiscussa - l’arroganza
del nostro  familiare manufatto  
sulle nostre paure addormentate
nei crani disattivi – blindati
entro dispositivi di sistema

Sbraita sugli orli dei viadotti – gasata e tronfia –
dove echeggiano delle nostre sciagure
le sirene e dei cani abbandonati le canee
allo scoccare d’ogni solstizio estivo

Svegliarsi – addormentarsi - svegliarsi
ri-addormentarsi e ri-svegliarsi
(orribile  nenia pendolare) nella gola degli urti
tra i fumi dell’attrito e il singhiozzo dei clacson –

tra ermetici silenzi e il pulsare dei fari –
tra le sirene perforanti e l’intervallo infetto
trafitto da voci – quasi pigolii  pungenti
di atterrati redivivi  gementi

L’archiviazione postuma procede segnando
sul conto delle funeste coincidenze
l’ennesimo misfatto - quasi che
un possente vulnus - forse più ineluttabile
della gagliarda perfidia personale -
sia fatalmente inscritto nell’umano come tale

Così ogni figlio di madre bipede –
senza più domande – impara  sul campo
a vivere e ad archiviare esiti simili e diversi
quali prodotti di questa variabile spettrale 
che cade pronta da un cielo sempre verticale

a imprimere  il suo definitivo  ruggito
a calcoli … perfetti! – … A meno che Allah -
o chi ne ostenti la procura -  
se ne attribuisca cura e “merito”!

Nota - A cose fatte viene da chiedersi: ma i nostri paesaggi abituali, quelli che l'uomo ha concepito per dire no ai suoi presunti limiti, creandone così di nuovi  e più inquietanti, quelli che furano molto del nostro tempo e della nostra vita rivelando la tragica ambiguità dell'umana volontà di potenza, sono soggetti possibili per la poesia? 
Mi sentirei di rispondere: forse,sì - e sottolineo il forse, perché non spetta a me dire se i miei versi colgono il segno - se si libera l'idea di poesia dalla sua prigione effusiva, sentimentale e moraleggiante che si maschera con un ermetismo di maniera.
Per la curiosità degli eventuali lettori certifico che questa composizione è del 2016, dunque anteriore ai recenti e deprecati eccidi col camion a firma Isis, a Berlino.

sabato 3 giugno 2017

Folklore: specchio ingannatore


Riflessioni sull' articolo di Silvano Tagliagambe 
 L’eredità preziosa di Placido Cherchi in www.sardegnasoprattutto.com

"La fase di identificazione che stiamo attraversando in Sardegna, secondo Placido Cherchi, segna il rovesciamento di questo processo di appropriazione della propria immagine come parte costitutiva di sé. È infatti quella del momento in cui la rappresentazione tremolante e sfuocata di noi stessi ci viene restituita dallo specchio di una sorta di credito esterno: si tratta, cioè, del momento in cui ci si riscopre attraverso gli occhi degli altri. Ma questa immagine che salta fuori non è, a ben vedere, la nostra: è altra cosa da noi e dal nostro mondo, è folklore, è spettacolo, è l’espressione di una politica folklorizzata che parassita il bisogno di identità della gente e lo anestetizza, svuotando quel bisogno e quell’esigenza nel momento stesso in cui proclama enfaticamente di promuoverli e di valorizzarli." (citazione)

NOTA
L’articolo è interessante dall’inizio alla fine, perché ripartendo dal lavoro critico di Cherchi sul  rapporto tra arte, oggetto e significato, costituisce un forte richiamo a considerare le conseguenze culturali del totale sganciamento delle sue (dell'arte) forme dal “senso dell’esperienza “ e dal “valore dei suoi contenuti”. Diventando scienza delle forme come tali, l’arte si chiude nel cerchio autoreferenziale di una propria precaria semiologia che mette in scena, senza connettersi con altro, i propri trionfi. Ed è così – dice Tagliagambe – che si giunge alla “cancellazione della memoria”, alla perdita “del proprio passato” e dunque al dissolvimento della propria identità. Citando di nuovo Cherchi e De Martino, Tagliagambe lascia intendere che il senso dell’identità della civiltà occidentale, perseguìta come riproduzione e assolutizzazione dell’uguale e come impermeabilità al senso della differenza, è causa dello smarrimento dell’identità stessa o, quanto meno, della sua banalizzazione.
Tagliagambe non si sofferma a dare una spiegazione ulteriore su che cosa si intenda per identità; la quale, al lume del mio naso profano,  non può che riferirsi, in questo caso, all’autoconfigurazione di una formazione sociale per mezzo di condivise categorie comportamentali e di pensiero: la lingua, per esempio, le divinità e i riti, la mitologia, ma ancor prima, i modi di procurarsi da vivere, i ruoli sociali che da essi derivano e come s’incarnano nelle psicologie individuali, insomma il suo sacro e il suo profano.  
Per far capire come si formi e in che consista l’identità, il Filosofo fa riferimento alla conquista dell’immagine di sé da parte del bambino nella “fase dello specchio”, durante la quale egli “riconosce sé e ciò che gli appartiene”. Sembrerebbe che un simile procedimento si verifichi in riferimento a una formazione sociale.
Però dall’esempio citato, riesce arduo compiere il salto logico nel “la fase di identificazione” di natura sociale - così credo di capire,  e non saprei dire se collettiva oppure no - in corso in Sardegna, la quale segnerebbe il “rovesciamento di questo processo di appropriazione” … Cioè il suo fallimento?
Come dire che lo specchio non è nelle mani dei sardi stessi e che essi per incapacità e insipienza lo abbiano ceduto ad altri? A chi? Agli stranieri italioti colonizzatori, come diceva il Poeta*, oppure a una non meglio identificata industria culturale e politica, forse nazionale, ma anche transnazionale, che ne ha alterato la curvatura a proprio vantaggio? E che, se ho bene inteso, sia indispensabile che i Sardi ricusino, rovescino come aliena l’immagine folklorizzata  in cui sono indotti a riconoscersi, per altro vergognandosene?  Essa, come il ritratto di Dorian Gray, sarebbe infatti divenuta  una sorta di documento identitario impresentabile e depressivo, dove si sarebbero depositate le tracce di tutti i nostri tratti negativi del passato e del presente, e pertanto inibirebbe il minimo slancio verso il futuro.  Occorrerebbe disfarsene e, con un atto di ribellione, trasformarla nel suo opposto ricuperando la dimensione costruttiva del futuro.
Resta da capire il come, con quali strutture istituzionali o libere e a quali soggetti affidare il progetto per un nuovo corso, e come coinvolgere la generalità dei sardi, dato che la pratica delle arti e la pur illuminata critica teorica, cosi come il punto di vista critico della filosofia, e tutto quanto vischiosamente si muove nel campo della cultura alta e di base (con i suoi ceppi granitici) non riesce a raggiungere le menti e le volontà individuali, tenuto conto della dilagante depressione economica e culturale, anche al livello di sapere strumentale. E si torna così al punto dolente della politica e di come le sue formazioni organizzate si dimostrino  incapaci di progettare un’economia sociale e alcunché su di essa possa trovare supporto e fondamento.
Ma se una cittadina qualunque, quale io sono, ritrosamente sarda, scavalcando i buoni consigli della timidezza e della modestia, si è arrogata il compito di ripercorrere, a modo proprio, e correndo il rischio di fraintendere clamorosamente un articolo così denso di riferimenti, è perché il problema ivi delineato lo riconosce come sintomo dolente del proprio vissuto, ma  non può assumerne il ragionamento con piena adesione.
Mi spiego. Le mie frequentazioni abituali si svolgono in un milieu socioculturale di medio livello tra Cagliari e il suo immediato retroterra, sia nella forma diretta che tramite la rete informatica dei social e dei blog. Ebbene, io noto in questi miei conterranei una duplicità schizofrenica: nel normale ménage quotidiano somigliano a tutti gli altri di classe media italiana meridionale, scontenta, accidiosa, che arranca per sbarcare il lunario, con i figli che non vogliono studiare perché non serve a niente, con i figli titolati che non trovano lavoro, con la droga in famiglia, covando una rabbia impotente contro i politici che pensano al proprio tornaconto, eccetera. 
Ma appena si profila un evento festivo religioso o civile, una commemorazione, una partita, un convegno o un semplice reading di letteratura locale, e persino il mercatino periodico a km zero, ecco che il sardo si traveste da sardo, secerne la melassa insopportabile  della sua autoreferenzialità: si sente, più che diverso, speciale. E non c’è nessuna vergogna, ma persino una smaccata autoesaltazione, talora condita di chiusure razziali e di ferocia mercantile. Ma un piglio consimile lo ritrovi nelle classi ex-operaie, quelle che hanno lottato fino allo stremo contro lo smantellamento delle industrie e dei posti di lavoro. Il loro livello di istruzione, certo più elementare rispetto alla classe media, si faceva ricco di un’esperienza lavorativa, umana e sociale più aperta. Oggi questo gruppo registra ricadute tremende  nei pregiudizi e nei cortocircuiti mentali dai quali per un certo tempo (e col favore di una più efficace scolarizzazione) credevamo si fossero e ci fossimo liberati.
E allora, non più all’improvviso, ma in regime consuetudinario, si entra in una uniformità obsoleta, come sottratta alle tarme, che non distingue tra mito e storia, e nella storia, spesso richiamata all’ingrosso come fonte di verità incontestabili, si fa poltiglia di classi e conflitti sociali, si perdono i nessi tra la nostra insularità e i complessi intrecci col resto del mondo, si stenta a intuire la differenza tra passato e presente, perché al primo si attribuiscono tratti e categorie dell’attualità e per il presente si ripropongono atteggiamenti ancestrali, ritenuti razionali e rassicuranti, anzi l’essenza stessa della “sardità”. 
A fronte di queste esperienze, per altro personali, non suffragate da studi sociologici, e le non peregrine sollecitazioni dell’articolo citato, viene da domandarsi: quale fase di identificazione stiamo percorrendo? Quella in cui ci si vergogna o quella in cui ci si esalta? E in ogni caso a chi o a che cosa stiamo cercando di corrispondere?  E se altri da noi sta manovrando e rendendo inautentico il processo di identificazione, come attrezzare le persone a riconoscere l’impostura e rovesciarla? Quali categorie conoscitive e quali atteggiamenti assumere per avviare un nuovo gioco dialettico?
Infatti, se è vero, come è vero  che i Sardi si sono vergognati nel passato di quella loro immagine negativa, cui si riferisce Placido Cherchi per la penna di Tagliagambe,(vigeva, allora l’effetto residuale di una postura politica e culturale che scoraggiava i localismi perché intendeva rafforzare la dimensione nazionalistica interna a profitto di scopi di tipo coloniale nelle propaggini dello stato e all’esterno)   tale lettura oggi non sembra più né calzante, né esaustiva, se si considera anche la polarità gaudiosa.
Il fatto è che le così dette identità locali, anche perché ancorate al familismo amorale, diventano, a un certo stadio, pedine variamente utilizzabili da poteri esterni, centrali e periferici : sia che tu ti vergogni o che tu goda per l’immagine che ti viene affibbiata, nello scacchiere politico sarai destinato a fare da supporto a interessi che tu non controlli. E allora non  devi fermarti all’immagine che questo o quello specchio ti rimanda, ma devi rendere perspicui i meccanismi  che vi operano  e capire a chi giovano e perché. E allora devi poter operare lo spostamento tra specchi diversi e relativizzarlo, come faceva Einstein nell’esperimento mentale che spiegava la sua teoria della relatività.
L’identità localistica e nazionalistica, come l’abbiamo subita e come sta avvenendo mediante curiose retrocessioni, equivale, in piccolo, all’operazione storicamente mastodontica che è stata compiuta sulle donne dall’ordine patriarcale, con la sua rete di complicità capillari, con gli intrecci  non districabili di obblighi, con proibizioni, punizioni e ambigui compensi. Essa ha potuto spingersi ad ampiezze e profondità tali da inibire alla conoscenza immense aree di esistenza e di realtà, rendendole compresse e distorte; è potuta penetrare così profondamente nella formazione del sé personale femminile (e sollecitare in senso opposto il sé maschile) da rendere un’infinità di donne estranee a se stesse  per secoli e millenni e ancora oggi.
Comunque è indubbio, quali che siano i sentimenti coinvolti, che la questione dell’identità e del suo rovesciamento segni l’apertura di una faglia. E siccome in un società complessa i processi di identificazione sono tanti e  si intersecano, le faglie aperte sono plurali. E si dà il caso  che anche a livello individuale  vi è chi, in questa e altre faglie, tenti, con i mezzi che ha, di prendere posizione a occhi aperti.
 Ora, allorché si parli di identità in cui vada a riconoscersi un’intera popolazione, si fa io credo un’operazione  fortemente ideologica: si esercita una pressione verso la riduzione ad unum di particolarità specifiche, le quali, se giustamente evidenziate, sono invece elementi costitutivi di forze motrici di cambiamento.
La faglia aperta, di cui accennavo, sembra anche funzionare da serbatoio mitico in cui nativi e allogeni, turisti e ospiti si precipitano per tempi brevi come in un lunapark  onirico, dove è lecito e gradevole l’inganno vicendevole. Lo specchio, in cui molti sardi, dall’esordio della televisione in poi,  credono di ravvisarsi, risulta, secondo le teste fredde e pensanti che ben pochi leggono o ascoltano, deformato dalla spettacolarizzazione di alcuni tratti specifici, riproposti come condizioni statiche e assolute, liberate da ogni problematicità e persino dai collegamenti imprescindibili con le attività produttive, come invece avveniva quando le popolazioni dei centri abitati, in periodi di temporanea stasi produttiva dell’anno (agricola, pastorale, artigianale)) creavano le loro rappresentazioni, i loro riti sacri piuttosto  paganeggianti e vi partecipavano nello stesso tempo come creatori, interpreti e spettatori.  
Oggi, un oggi nato in un’alba del dopoguerra,  i Sardi sono divenuti spettatori di un teatrino che parla di morti e morte cose.  Le occasioni una volta deputate dalle comunità sociali (e di comunità si trattava in quanto si conosceva l’uso comunitario delle terre del demanio) sono arbitrarie, slegate dalla pratica di vita, moltiplicabili a volontà secondo i principi della domanda e dell’offerta in contesto ampiamente capitalistico, in cui qualunque cosa diventa merce, e in quanto merce passa da una mano all’altra, oggetto di possesso e dunque suscettibile di alterazioni conformi agli interessi del possessore.
Ecco, molti sardi credono che quelle figurazioni “farloche” siano l’immagine della loro essenza; certuni ingenuamente, altri con furbizia, si rappresentano così: miticamente selvaggi, eticamente ineccepibili, religiosi, solidali, festaioli, puliti e addobbati nei loro costumi addosso ai figuranti, le donne, figuranti anch’esse, ingioiellate come regine, con la pelle levigata come le modelle dell’alta moda. Penso che si azioni un meccanismo per cui la vuota tetraggine del presente facilita la fuga nel sogno commercialmente confezionato. Il desiderio si sposta all’indietro; e tacitamente, siccome gode nel riferire a sé quell’immagine, essa diventa vera. A tal punto che, in fretta e furia e con i criteri più strani, vari villaggi sono stati allestiti e anche rabberciati come piccoli musei domenicali per il turismo interno. Per il medesimo motivo si inventano ab ovo tornei in costume, sbandierate con sbandieratori di professione, corse allo stendardo … E molti sardi sono nostalgicamente convinti che il loro passato fiammeggiava così di ori e colori, di modo che  le immagini si trasformano nel sogno palpabile, e la fede, nutrita dal piacere della ripetizione, si rafforza. E conviene anche ai turisti forestieri che lo spettacolo sia la copia realistica di un’esistenza sospesa tra passato e presente, in virtù della facile proiezione del primo sul secondo; perché essi pagano per poter assistere di persona alla persistenza di un passato con i crismi dell’autenticità, della bontà, della spontaneità, della genuinità e persino della selvatichezza. Tutto quello che nel mondo reale sembra destinato a sparire in spaventose alterazioni. Dunque la loro presenza sul suolo isolano è per i Sardi la prova dell’indiscutibile conferma di quella mitica dimensione che idealmente  sembra unirli tutti, mercanti, compratori, imprenditori di spettacoli, speculatori, fruitori, figuranti, abitanti anonimi, lavoratori interinali e vittime.
Questo è stato il dono della politica dell’ultimo trentennio.
Nel mio caso,( siamo ridotti a pensarci come “casi”, casi clinici?) pur essendo sarda fino alle midolla e attaccata a questo scoglio più che una patella, non mi sento presa nella rete ancestrale delle parlate locali, né mi riconosco nel revival dilagante dei rituali folcloristici, né tampoco in questa sorta di patriottismo dell’autenticità parolaia isolana,  che non riesce a sognare ciò che avviene sotto il sole e praticamente sotto gli occhi di tutti: per esempio, il decollo di bombardieri mortiferi dai nostri aeroporti militari. Silenzio-assenso.
Ecco che allora la mia identità culturale (e credo di altri)  è questa mia incredulità, questa mia solitudine, che mi designa - fra coloro che credono o si sentono enfaticamente a casa propria, con lingua ripristinata e “sentimentalizzata”(come ben poco lo fu per l’addietro), con l’ abbigliamento festoso e fastoso del sogno, col canto del sogno, con la morale del sogno, col familismo buono del sogno, la  religione, la mitologia, le costumanze del sogno, le nenie e i balli del sogno, gli ornamenti del sogno, il patriarcato del sogno e il matriarcato di risulta dicevo mi designa, come una straniera o, peggio, un’apolide. Perché in definitiva neppure mi sento a pieno titolo cittadina del modo europeo di concepire il resto del mondo e le sue plaghe interne, né di concepire l’assoluta bontà dei suoi valori, perché pure questi stanno rischiando di diventare gusci vuoti.
Dove sta,dunque, la mia identità se non fuori,  in un non-paese, nello sdegno degli inquietanti, nell’odore detestabile degli invisibili.  Sdegno represso, spostato, ammutolito, calpestato, talora sublimato in parole faticose, perché non c’è lingua che non trovi nei suoi recessi o nel bric à brac del suo quotidiano i suoni e i segni per riscontri possibili di verità scomode, quelle che gli specchi ben organizzati non riescono ad assemblare e restituire alla mente e al cuore dubbiosi
Su tutto questo e sull’eco minacciosa del suo moto tettonico, non pochi si concedono il paradiso di parole autoconsolatorie, in sardo, in italiano e così via.
Ribellione proattiva? Chi è così credibile oggi da farsene vessillifero e promuovere seguiti? Bisogna costruire i caratteri e il carattere collettivo? Forse, sì. Ma questa istanza non pare avere ancora padri e madri o, chi sa, virgulti o scuole.

Quella “buona” non pare così buona! 
                                                                                        Bianca Mannu
..........................................................*Francesco Masala

lunedì 29 maggio 2017

Dillo a un Sikh - inedita composizione in versi di Bianca Mannu








Dillo a un Sikh


 Dillo a un Sikh
quali sono i Nostri Valori -
dillo ai suoi conterranei
sparati come tralci avventizi
dal vento dell’urgenza
sui  campi dell’Agro
sulle piane di Partenope
sugli orti Cisalpini

Chiedigli se son leggere
le dieci ore più quattro -
quando la sorte vuole -
alla pioggia  al sole e a ogni tempo
dalle albe incolori
al sangue dei tramonti
con niente nella pancia
e la ganascia del doping
a stringere il cervello

Tu dici che canta
quando inginocchiato
strappa alla terra
tuberi e carote?
E quando conosce l’aspro
dell’uva e dell’oliva
chissà che musica coltiva?
Dico che il suo corpo canta
come una ferita tutto
e sogna sua interinale
assenza dalla vita

Assenza provvisoria - certo -
da una vita che - pur di sterco -
frequenta assidua la speranza
e questa conferisce all’esistenza
il tempo di  continuare in stand bay
e ammortizzare i guai da surmenage …
Quando la vita ha un solo lancio
anche il più sporco strame per giaciglio
se non è mano amica è almeno gancio
cui sospendere ciò che - o uomo d’opera –
solamente tuo rimane inesorabile:
il duro esito del giorno

Invece tu - uomo del capitale -
che prescindi dall’umano altrui
scomputi ciò che ti conviene:
la cosa-lavoro - quella che mercanteggi -
e che a te poco o niente parendo
per eccesso di mercantile offerta
la natura a dare frutti induce
E mentre attendi ti scotta il tempo:
incalzi al moto i suoi sfinteri
per  accrescere  il tuo utile in saccoccia
ma i rigori a saldo lasci altrui.

Del bracciante - il cui sudore
che a tuo favore provocato ti ripugna -
quasi nulla sai che non sia sua fame
e su quella mandi a schiacciare il piede -
non il tuo stiloso  e così ben calzato! –
ma quello chiodato d’un vile caporale.

Forse quel cristo  crocifisso
alla sua condizione di operaio 
 si sarà chiesto    
per un meriggio intero
 e per successivi mille
imbevuti all’osso di sgobbo
di strappi e contumelie                         
di qual delitto mai
e di qual vita obliata
voglia emendarlo il dio

Ma - come tutti gli dei -
neppure il suo risponde
Altrove guarda forse 
o altri suoi Valori raccomanda
oppure nel suo ombelico stesso
coglie la fuga d’ogni umano senso
Non c’è modo e non c’è verso
un Sikh da solo - come ogni uomo inerme -
si sente e campa
tra sottosuolo umano e fango
come poco più che un verme -
disprezzato.

Gridalo, Sikh, gridalo forte
insieme ai tuoi fratelli neri
incattiviti sui  campi del Salento
briachi di fatica
a smaltire gli ergastula diurni
dentro infernali tendopoli …
Gridatelo anche voi
operai tarantini intossicati
che morite a poco a poco
nei paradisi dei vostri letti
e tutti voi dispersi e soli
a sfangare la vita lottando
con un qualche marchingegno traditore
soffiatelo con la forza dei tornado
dentro le orecchie dei professori ISTAT
che
pure consunta ogni marcata essenza agglutinante
siete magari folla - sfilacciata e spersa -
d’umani  tristi e vivi come truppa inerme
a guerra persa.



sabato 20 maggio 2017

Giromondo poetico a Elmas

Curatori Roberto H. Concu e Angelica Piras per Equilibri

Inventare occasioni, chiamare a raccolta musici e poeti per "giullarate" in piazza, sono piccole, grandi sfide per un mondo senza pace.
Splende sotto brezza tesa il sorriso estivo del secondo sabato di maggio.
La piazza si distende troppo larga e disabitata intorno al capannello dei poeti
smarrito e un po' cancellato dall'ombra d'un grande albero. 
Spalle al sole ci si arrotonda intorno al cantautore e ci si sussurra reciprocamente una poesia
scritta da un Altro Poeta di un Altro Paese diverso dal nostro.
Da un bar vicino arrivano gli strappi di voce dei tifosi, 
dal cielo i rombi degli aerei di linea. 
Non ho preso nota né dei nomi né dei testi dei poeti scelti.
Ho letto a mia volta una poesia di un poeta grandissimo e poco noto, e per pochi minuti
l'aria ha preso il colore violaceo della neve sporca di tragedia.
Paul Celan 
ebreo ucraino di lingua tedesca simbolizza con la sua poesia 
l'esito inenarrabile di una guerra nella guerra contro popolazioni inermi e i suoi devastanti effetti
sull'animo e nella psiche del poeta stesso.  

Arricciati come a notte

Arricciati come a notte
 labbri dei fiori,
incrociati ed incastrati
i fusti d’abete,
ingrigito il muschio, smossa la pietra,
svegliati a interminabile volo
i corvi sopra il ghiacciaio:

questo è il paese dove ristanno
coloro che  sorprendemmo alle spalle:

essi all’ora non daranno un nome,
non conteranno i fiocchi
non seguiranno l’acque fino alla chiusa.-

Se ne stanno divisi nel mondo,
ognuno con la sua notte,
ognuno con la sua morte,
agri,la testa nuda, nella brina
di ciò ch’è remoto e vicino.

Essi pagano la colpa che animò l’origine,
la pagano ad una parola
che esiste a torto, quanto l’estate.

Una parola – tu sai:
un cadavere.

  Vogliamo lavarlo,
vogliamo pettinarlo,
vogliamo girare il suo occhio
verso il cielo.






lunedì 15 maggio 2017

su IL GIORNO DEL GIUDIZIO di Salvatore Satta

Conversazione intercorsa tra Maria Rosa Giannalia, animatrice del corso
 SCRITTORI e   SCRITTURE, 
Bianca Mannu, commentatrice e Dario Cosseddu, lettore 

Maria Rosa -1° domanda:
Nella scelta che abbiamo fatto di questo romanzo c’è un’idea di letteratura che desideriamo condividere, al di là degli schemi convenzionali che in questo momento la letteratura sarda sembra volere confermare? Quale modello di scrittura vogliamo che venga fuori da questa rassegna che nel suo sottotitolo parla di incontri con autori italiani e stranieri?

Bianca risponde
Il pericolo peggiore per gli scrittori sardi: inforcare la mitologia legata al folclore o a un immaginario indefinito con l’idea che si possa essere graditi al pubblico liberando il lettore dalla fatica di scoprirsi dentro un problema e di interrogarsi sulla propria consistenza umana e morale. Il vero scrittore è mosso dalla grande serietà del suo gioco e vi investe la propria cultura, mai contenta di sé, la propria esperienza di vita e la sua capacità di collegare tramite lo strumento linguistico, condensato in uno stile, tutta la ricchezza interiore, compreso il senso della vita, la sua filosofia, la sollecitudine e la responsabilità verso i propri simili.

Maria Rosa - 2° domanda( letture pagg. 11-12e 14-15 )
Entriamo nel merito: in questo romanzo Salvatore Satta ci presenta un grande affresco della società nuorese tra la fine dell’ottocento e la fine della prima guerra mondiale. Società che possiamo considerare come metafora di ogni società vista nella prospettiva del passato e perciò più facilmente analizzabile nelle sue caratteristiche.
Iniziamo dalla famiglia Sanna Carboni e dal modo col quale Don Sebastiano, il personaggio principale , e la sua famiglia vengono descritti e, in prospettiva, tutta Nuoro.

Bianca risponde
Bisogna dire subito che la narrazione è in terza persona e comincia da un interno. Ciò meraviglia un po’ perché il romanzo moderno rifiuta l’atteggiamento onnisciente dell’autore che occhieggia dalle fessure e legge l’animo dei personaggi. Salvatore Satta gioca per un po’ con questa finzione e solo gradualmente rende edotto il lettore del suo essere stato un testimone diretto e perfino intimo.
La casa di Don Sebastiano è un luogo simbolo della città, casa-studio del notaio, perciò monumentale e scomodissima.  Egli, spiega l’autore, è un signore e non un rustico, è persona di un’istituzione, un funzionario che conosce, registra gli atti inerenti le transazioni importanti di un aggregato umano e ne garantisce la legalità. Di nobiltà rurale pregressa, Don Sebastiano vive il sentimento della legalità; è dotato di probità personale e di spirito “democratico”. Concetto che, nel lessico di Satta, significa voler confermare il ruolo sociale raggiunto e curarne la crescita economica coi proventi del proprio lavoro da funzionario, conservando uno stile di vita personale e della famiglia severo, ma di rilievo per incutere rispetto ai corvi di quel nido, Nuoro”. In altre parole democrazia era la mobilità migliorativa economica, possibile e desiderabile per i signori.

Maria Rosa - 3°domanda ( letture  lettura pagg. 45-46 e 48-50 )
C’è in questo romanzo una figura femminile emblematica:  donna Vincenza , moglie di don Sebastiano.
Quale rapporto lega questi due coniugi così diversi ma tuttavia accomunati dall’appartenenza al luogo? A quella Nuoro in particolare?  Come viene tratteggiata questa figura femminile che è la prima che il lettore incontra ma non certo l’unica?
Bianca risponde
Malgrado la distinzione sociale e un’educazione attenta alle forme , Don Sebastiano ha in comune con i suoi concittadini una fondamentale disistima verso la componente femminile dell’umanità circostante. Le donne, a Nuoro, non hanno visibilità e voce. Dice S. Satta che non c’è niente che irriti di più il maschio nuorese beneducato quanto l’intelligenza femminile. E per sua sfortuna Donna Vincenza era intelligente ed era ispirata dalla sua felice infanzia con un padre piemontese a prendere parte alle questioni dell’economia familiare. Orfana e povera, conoscerà da sposata tutti i tentativi del marito (disinteresse, anaffettività, disistima, taccagneria, uso del suo corpo con frequenti gravidanze),di ridurla a una condizione larvale. E qui lo scrittore non si perita di analizzare i sentimenti reciproci dei coniugi, il loro franare e il loro collasso. Il disaccordo coniugale si profila come due culture che  collidono e che in forza dell’impronta patriarcale maggioritaria, quella non supportata deve cedere.

Maria Rosa - 4° domanda ( lettura pp.73-74 e 75-77)
Ma vediamo come don Sebastiano si rapporta alla terra, in particolare all’attività agricola e all’atteggiamento proprietario che nasce dal profondo legame con la terra. E’ questo il tema che ricorre in ogni autore sardo: il forte legame con la terra e la contrapposizione tra valori agricoli e valori pastorali. Come ci parla di questo, Salvatore Satta attraverso il suo personaggio?

Bianca risponde
 Il legame di Don Sebastiano con la terra è strumentale, come quello degli altri signori nuoresi. La gran parte di costoro vive delle rendite agricole che i mezzadri e braccianti seunesi  lavorano. Ma i mutamenti generali del mondo evoluto rendono precaria la rendita agricola. Don Sebastiano è consapevole.
Diverso da quello dei Séunesi, abitanti del rione contadino, per i quali la terra era fatica, ma sopravvivenza, dunque bene supremo; diverso ancora da quello da rapina dei pastori di San Pietro, luogo d’uso e abuso della terra in funzione degli armenti e del commercio dei sottoprodotti. Il possesso territoriale è l’emblema di una condizione sociale consolidata, quella nobiliare plurisecolare. Ma non è l’unico asse economico dell’uomo della seconda rivoluzione industriale, qual è Don Sebastiano Sanna benché appartato rispetto alle metropoli del cambiamento. Questi lavora pulito e guadagna, ma tesaurizza, investe anche in crediti. Il possesso di terre e la loro miglioria è una sorta di polizza sociale che si autofinanzia (vino), ma che Don Sebastiano persegue come sua sinecura e da imprenditore intelligente. Era timoroso che i figli  crescendo concepissero la rendita agricola  come il loro fondamento economico e rimanessero inattivi, sciupando la loro esistenza alla stregua degli sfaticati del caffè Tettamanzi. L’obiettivo di Don Sebastiano era di avviarli alle professioni liberali, ma non supponeva il formarsi nel loro animo di quella piega sensuale ed estetica che lo scrittore riconosce a se medesimo, e parzialmente ai fratelli in gioventù, e che chiama infezione poetica, un sentimento simile al legame pagano con la natura.

Maria Rosa -5° domanda  (lettura pp. 98-100)
L’altra grande protagonista di questo romanzo è Nuoro: il tema di questa città attraversa tutte le pagine e , come un filo rosso, lega tutti i personaggi, la storia e  la natura. Il topos principale che fa da perno a tutta la narrazione è il cimitero di Nuoro in cui l’autore si reca per condurre il lettore ad esplorare e quasi esumare la storia dei nuoresi. Come vengono trattati questo tema e questo topos? E in cosa possiamo considerarli fondamentali per questa opera di Satta?

Bianca risponde
Il ritratto fluido, per dir così, di Nuoro, percorre l’intero romanzo, assumendo via via come propri connotati costanti le motivazioni che muovono i comportamenti delle persone secondo i crismi del proprio gruppo sociale. Nuoro è trina: Sèuna contadina povera accosciata sulla terra intorno al foghile, San Pietro rampante e razziatore con case alte e grandi dove vige un ordinamento gerarchico primitivo e la Nuoro civile intorno alla via Majore, con le grandi case signorili, volte all’interno, dove vivono chiuse le donne forzate a un nubilato infinito.  Invidia, avidità e rozzezza sono equamente distribuite fra i ceti, perciò, malgrado l’usanza di “fare le parti” non corrono veri sentimenti di amicizia e solidarietà fra cittadini.
Il romanzo ha nella casa di Don Sebastiano il suo collo di bottiglia, luogo della sanzione economica e della memoria rurale, ma non ha un unico centro. Il centro istituzionale sono il tribunale,la prefettura, la Curia coi suoi fasti e nefasti, il municipio dove il sindaco era uno di fuori, davanti al quale i signori nuoresi stavano “col cappello in mano” e, convinti che la politica non li riguardasse, si lasciavano scippare l’amministrazione della città senza accorgersi di questo trapasso di poteri.   Un altro centro che riuniva gaudenti, nullafacenti e semifalliti della classe signorile era il caffè Tettamanzi, cosi come la Farmacia era punto di ritrovo dei signori più austeri. 
Lo scrittore, nel tentativo di coordinare i due spezzoni della sua esistenza cerca il cimitero, pensandolo come luogo dei segni della memoria, ma si rende conto che non sono le tombe coi nomi sbiaditi e obsoleti a suscitare il ricordo, piuttosto i vivi che sembrano duplicare i morti. Così non è questa o quella tomba a parlargli, ma il percorso funerario, lungo il quale riprendono vita preti, sacristi e campanari e tutta la carovana dei nuoresi animati da una sorta di piacere dionisiaco: il loro spirito pagano e irriverente è reso evidente dalle circostanze luttuose.

Maria Rosa - 6° domanda  (lettura pp.118-120)
Qualche cambiamento avviene però in questa Nuoro così immobile e sonnolenta: l’autore ci racconta la vicenda di don Ricciotti Bellisai e del nuovo direttore della scuola che, in certo modo, arriva fresco di nomina e scardina alcune usanze consolidate dalla tradizione. Che senso ha questo tentativo di cambiamento ?

Bianca risponde
I cambiamenti sono spesso inavvertiti, se non per piccoli segni su cui si fissa l’infastidita reazione dei nuoresi: essi vedono il dito e non la luna indicata. Cosi la campanella scolastica, già del convento, non suona più? Perché mai, come si avvertiranno gli alunni che è l’ora della lezione? Chi sarà mai quel prepotente che ha ordinato il silenzio? Vogliono protestare e non si sono resi conto che lo Stato Sabaudo è in conflitto con la Chiesa per via della requisizione dei beni ecclesiastici e per il fatto che lo stato Sabaudo ha portato allo stato laicale l’istruzione. Cosi in tanti aspetti della vita un atteggiamento laicale prendeva il posto dell’ingenua religiosità fatta di segni rassicuranti e un poco stregoneschi abituali.


Maria Rosa - 7° domanda (lettura pp.176-178)

Sembra quasi che Salvatore Satta non abbia voluto dare alla sua città neppure il beneficio di una possibile coscienza politica: la vicenda di Ricciotti Bellisai  e il suo tentativo di rivoluzione popolare in senso marxista fallisce miseramente. Raccontaci un po’ questo aspetto del romanzo che, per certi versi, è stato visto  come inquietante, forse anche alla luce del momento storico che l’Italia attraversava all’atto della pubblicazione postuma  del libro prima nel 1977 dalla CEDAM e poi ad opera della casa editrice Adelphi nel 1979.

Bianca risponde
Veramente l’ingresso in politica da parte di  Don Ricciotti Bellisai non aveva nulla di marxista. Così come si diceva marxista il modo degli studenti di fare lo sberleffo ai preti. Egli, invece, voleva strappare dalle mani di Don Sebastiano la casa di Loreneddu che colui aveva comprato all’asta dopo il fallimento del padre di Don Ricciotti. E che Don Sebastiano sosteneva di averla comprata dietro preghiera del padre di Don Ricciotti, affinché non andasse in mani straniere.
Per ottenere Loreneddu in modo inappellabile gli occorreva un potere che condizionasse quello di Don Sebastiano. Esso poteva venirgli dalla politica. Pensò di candidarsi come deputato del Regno. Ma, mancando degli agganci giusti e del titolo di avvocato che gli avrebbe fruttato la credibilità dei signori, si candidò come animatore e capo di un’associazione contadina di Sèuna, di vago sentore socialista, facendo leva sui bisogni inevasi di quei contadini che prese a sobillare, svegliando in essi speranze palingenetiche con l’oratoria, peraltro ad essi incomprensibile. Ma ciò che lasciò sconcertato Don Sebastiano, (e per altro verso donna Vincenza che vedeva l’inadeguatezza dei figli a operare con la furba facondia di Bellisai) fu, che i suoi figli e altri giovani studenti furono soggiogati dal fascino dell’oratoria di Bellisai e dunque parevano pronti ad abbracciare le rivendicazioni dei poveri:quasi un tradimento personale e sociale. E tuttavia l’impresa politica di Bellisai fallì, anche perché scoppiò la guerra.

Maria Rosa - 8° domanda (P. 207-208, da Anche a Europa)

Ad un certo punto del romanzo, Satta introduce il discorso sulla prima guerra mondiale in atto nella penisola, ma il suo sguardo è quasi esclusivamente per il modo in cui tale guerra viene vissuta a Nuoro, attraverso il punto di vista delle donne e anche della stessa donna Vincenza che affiora qua e là in tutta la narrazione.

Bianca risponde
Così come il trapasso dalla condizione di Regno Sardo Sabaudo a Regno d’Italia era avvenuto senza che i nuoresi se ne avvedessero: i sommovimenti politici prebellici non ebbero eco in città. Don Sebastiano, che leggeva il giornale, fu informato dell’eccidio di Serajevo e delle conseguenze belliche che sarebbero sopraggiunte per l’Italia. Avendo 64 anni, non si sentiva direttamente coinvolto. Due dei figli maggiori erano già professionalmente formati, (Gaetano da medico e Michele da ingegnere) ma, esclusi i due piccoli, erano tutti arruolabili. E fu allora che, mentre Don Sebastiano si abbandonava a un contenuto entusiasmo patriottico, Donna Vincenza, alzando la voce come non mai, gridava che l’Italia non era in condizioni di entrare in guerra, che la guerra sarebbe durata e avrebbe rubato i figli al suo affetto e alla sua protezione. Con la sua sensibilità femminile antivedeva ciò che Don Sebastiano non sapeva ricavare dalla lettura dei giornali. Le donne,secondo l’Autore
posseggono l’intelligenza del cuore. Il senso della guerra giunge a Nuoro solo con la comunicazione alla famiglia del caduto, ma donna Vincenza è sempre in angoscia. 

Maria Rosa - 9° domanda (lettura pp.257-258  che farà Bianca stessa )

In fondo al romanzo viene ripreso il tema del tempo nella fine triste e tragica del sogno di Gonaria, la maestrina. Questa fragile figura femminile sembra essere l’emblema della fine  e del nulla verso cui tende la vita di tutti noi. Gonaria aveva riposto tutte le sue speranze nella realizzazione della carriera ecclesiastica del fratello Ciriaco che però, quasi subito dopo l’ordinazione sacerdotale, muore annullando il senso del sacro e il senso dell’attesa di un futuro radioso che era sicura si sarebbe realizzato come meritato premio per la sua profonda fede religiosa.
Bianca risponde
Anche Gonaria (di famiglia bene decaduta, parente dei Sanna), maestra elementare per necessità economica e per vocazione religiosa, dato che non insegna che preghiere in una classe femminile, ed è molto simile ad un suora laica. Come tutte le donne di Nuoro, non conta niente, a meno che non trovi modo di sostenere e servire un uomo. Quest’uomo è Ciriaco, suo fratello prete che, non avendo canonica, sogna di e si adopera a farsi nominare Arciprete in curia. Gonaria sogna il sogno di Ciriaco.
Tutte le energie e le poche sostanze sono mobilitate in quel senso, anche il suo arcaico e ossessivo magismo religioso. Crede che il raggiungimento dell’obiettivo sia non solo una promozione sociale notevole, ma un innalzamento verso la sacralità, tale che Dio stesso non può non rispondere chinandosi con speciale benignità verso tanta dedizione. Invece Ciriaco si ammala e muore. Gonaria e le sorelle si sentono come tradite e reagiscono in modi diversamente folli. Gonaria pretende il funerale con l’intero capitolo e non l’ottiene … Possibile? Ma il suo dio immaginario è forse assente. Allora si convince  che si sia in qualche modo oggettualizzato nei paramenti, nelle suppellettili e nella camera stessa in cui Ciriaco è morto. A suo modo opera il sequestro del dio resistendo alle pretese delle sorelle rinsavite e smaniose  di percepire da un affittuario possibile un lauto canone. Gonaria tiene duro per 20 anni. Ma poi cede alle sorelle, apre la camera chiusa, trova topi ragni ragnatele e polvere. Sente che il dio è morto e fugge, pazza

Maria Rosa - 10° Domanda ( lettura dell’ultima pagina che farà Bianca stessa)

La fine del romanzo che si coagula intorno a quella che Salvatore Satta chiama  “seconda parte”  sembra essere la sua riflessione più profonda e disincantata sul tempo e sull’oblio, secondo lui obbligatorio e sulla mancanza di senso della vita che tende al “giorno del giudizio” privo di senso anche questo.  Ce ne vuoi parlare?

Bianca risponde
Come abbiamo capito la finta onniscienza iniziale dell’autore lascia il posto alle dichiarazioni esplicite: egli è il figlio minore dei coniugi Sanna, tornato a Nuoro per “mettere insieme i due spezzoni della sua vita”. Ma si accorge che gli spezzoni restano tali e lo abitano come due mondi non comunicanti. Il mondo rustico e primordiale della sua infanzia è consegnato a segni fisici illeggibili, noti solo a lui che li reca impressi  nella memoria a tal punto che solo a guardare i volti dei viventi ricostruisce le genealogie familiari che essi hanno dimenticato o ignorano. Allora, che senso ha l’aver richiamato in vita un mondo morto, se l’’obiettivo perseguito è stato mancato? La vita si spegne in tanto che procede, e del senso e dei sensi assunti nulla resta. E se tu, scrittore per vocazione, invece di  prepararti alla tua morte e di lasciare i già morti all’oblio, li racconti, li svegli, condanni te stesso a non poter morire. È il pungolo della conoscenza di voler svolgere fino in fondo ciò che il tuo filo di vita contiene. Per sanzionare da vivi la pace dei morti in noi,occorre svolgere tutta la matassa fino a un giudizio finale. 
Del resto è degli scrittori  per vocazione e non per professione, pronunciare il giudizio e non averne paura, dato che si è onestamente risposto al quesito della sfinge:
“Quale senso?” - “Nessuno: è stato.” 


mercoledì 3 maggio 2017

Doverosa correzione temporale a cura di B. Mannu

Sistema Bibliotecario Urbano
Comune di Quartu Sant’Elena – Quartu Sant’Aleni


SCRITTORI E SCRITTURE
Rassegna di incontri con i classici italiani e stranieri
Coordina la prof.ssa Maria Rosa Giannalia


PRIMO APPUNTAMENTO
Un grande autore da non dimenticare
SALVATORE SATTA

Saluti dellAssessore alla Cultura Maria Lucia Baire

Conversazione su:
IL GIORNO DEL GIUDIZIO
Con Bianca Mannu
Letture di Dario Cosseddu


Biblioteca Centrale – via Dante 66

12 maggio 2017

ore 18

Info: 070888064 bibliocentrale@comune.quartusantelena.ca.it