giovedì 29 novembre 2018
Pagine letterarie: Alieno
Pagine letterarie: Alieno: L’altro, che riempie lo spazio di un’assenza incontenibile di Bianca Mannu Di colpo. Come una traccia opaca nel flusso aurifero...

sabato 24 novembre 2018
Il verso alla solita storia - inedita di Bianca Mannu
Nota - Basta piangere o arrabbiarsi per l'ultimo bollettino di guerra sull'ultimo atto della tragedia femminile. Bisogna mettere a fuoco la costruzione psicologica e sociale che il patriarcato ancora imperante pratica sulle donne prima ancora che siano in culla. È il dispositivo del senso di sé che nell'umana femmina viene fabbricato ad hoc per garantire alla statuita preminenza intellettuale, sociale, teoretica, religiosa, estetica dell'elemento maschile, col disegno nascosto di perpetuare il proprio potere e il controllo dei meccanismi sociali tramite le immagini dispari che ce ne facciamo, ma con l'aggiunta degli ostacoli oggettivi (proibizioni, esclusioni, ecc.)messi in atto in forma sistemica (cioè anonima, la quale gabella come naturale, congenito ciò che è un risultato sociale e storico) con l'alibi della protezione, della femminile minorità costitutiva e quant'altro
. Questa composizione, più ironica che "poetica", vuole ricordare a noi stesse, non il passato, ma quel presente sottotraccia che, come una scheda perforata, continua riprodurre atteggiamenti ancestrali a noi stesse invisibili.
Il verso alla solita storia
Che cos’altro ti pare
rimanga da fare
per noi figlie sempre obbedienti
al femminino perentorio
fabbricato all’esterno
indi importato come legge
del paterno romitorio.
Blandite e compresse – ci siamo
nell’ombra scaltrite
a sbirciare il fuori proibito
a decifrare di quello larvate lusinghe
impostate con fare furtivo
tra usci e persiane
a posta dischiusi
per obblighi certi e sospettati usi
da parte di baldi e ribaldi signori
(brame da lupi sotto i mantelli)
già fideiussori per divino decreto
di fragili donne senza concetto.
Che cos’ altro resta da fare
a noi donne di poche letture
a noi segnate da mute sciagure
abbandonate nel tardo meriggio
piangenti e insonni sul gelido talamo
da galantuomini di dubbio lignaggio?
Che cos’ altro resta da fare
nell’abbuiato vuoto del calamo
se non tuttavia sospirare
temerari innamoramenti
o pure – a consolo - rivisitare
immaginari amorosi colloqui
rimasti a mezzo –
materia d’accorati soliloqui ?
Che cos’altro ci resta da fare
se non registrare il turpe viraggio
del reo tempo sugli occhi e sul viso
dove avvizzisce l’antico sorriso?
Che cos’altro resta da fare
dopo l’amore voltato in dovere
dopo i bambini da partorire
dopo le pappe da confezionare
dopo le febbri da curare
appresso agli infanti da sorvegliare
agli scolari con cui compitare
e alla morale da impartire –
insostituibile vicaria fedele
dell’ostinata griffa patriarcale?
Resta forse un pezzo di vita:
esser presenti al finale di partita.
Avendo vissuto – o donna oscura -
l’altrui vita per procura
da protagonista or puoi recitare
il tuo atto unico di grande bravura
e
ancor prima del tuo requie
disporre per altri funebri esequie.
Se sul finire del tuo tragitto
ti
resta un raggio d’intelletto
puoi tracciare un rigo netto
e segnare in verbo asciutto
d’avere fatto quasi tutto:
ma negli annali della Storia
di te ben poco resta in memoria.
Dicendoti donna fedele e modesta
la tua legge è rimasta questa:
in prima istanza la famiglia
con la carriera del marito
fonte di grano concupito.
Il matrimonio della figlia
è una meta e l’occasione
di alzare l’asta della magione.
La politica e la burocrazia
son per il pargolo la giusta via.
Facesti sine dolo professione
di un impiego senza passione:
importante era la babypensione.
Se tutto questo non s’è realizzato
se da pulzella hai veleggiato
puoi trasporre in liberi versi
gli amori ardenti dei giorni persi
Ma quivi giunta forse la vita
ti regala stizzoso un prurito
di celebrarti con lo scritto
poiché bazzicasti a lungo la scuola
e sai compitare qualche parola
Lo scritto in versi l’avevi nel sangue
il tema è pronto e da tempo langue
nel tuo diario dove – ibernato -
giace il tuo cuore innamorato.
Innamorato e di nuovo fremente
per quel giovane avvenente
che imperversò nella tua vita
lasciandoti sola e impoverita.
Se ancora vivo e con l’aterosclerosi
non può godersi l’apoteosi.

martedì 20 novembre 2018
INCOMPIUTA - Quot dies (poesie) Bianca Mannu
Ci
sono me
come
chiodi aguzzi.
S’insinuano
tra
pelle e pelle …. e l’offesa sopravvive,
sopravvive
alla durata.
Ci
sono me
già
iridescenti.
Sgranano
sfere
di
molle opacità:
me
conchiusi, … cuscinetti
per spilli,
senza
germe di futuro.
Ci
sono me,
ponti
di filigrana
rampanti
verso …
…
sponde sognate : tenui contorni
in
dissolvenza.
Ci
sono me;
neri
tralicci,
irti,
svettanti: ……. irrisione
incompiuta
alla
fragilità del tempo.
Scarnificanti
me
inastati
………. alle garitte del cuore
e
me stillanti
vischiosa
linfa di spazio liquefatto.
Me
abortiti
che
……. l’insonne
notte
ha
raggelato e roso
in
frammenti inutili.
Magmatici
me
che
……. insipienza
d’alba
rapprende
intorno
a
occhiaie illividite.
Ma
poi verrà
quel
me ………. inenarrabile
forma
di
confitta certezza
nelle
carni dell’alea.
Del
suo compimento
narrerò
… in
una prossima vita?
Etichette:
Poesia

domenica 4 novembre 2018
DA NONNA ANNETTA – romanzo di Bianca Mannu - dal cap.XIV - Ricordi di guerra

La camerata di terza puzzava quasi come
quella tradotta militare che arrivava dal fronte alle retrovie, quando lui era
soldato. E così si ritrovò in quei paraggi, in un tempo che all’istante
assumeva persino una maggiore concretezza del presente.
1916: chiamato alle armi allorché suo
fratello maggiore Pietro compiva già un anno di permanenza sulla linea del
fronte. Egli, invece, era stato destinato ad espletare il servizio - temporaneamente
- come armaiolo nelle officine di riparazione dell’esercito, nelle
retrovie. Naturalmente si era rallegrato. Però a ogni quindicina si aspettava
di essere inviato a fare il proprio turno in trincea. Niente. Lo lasciavano a
fare il soldato meccanico e ad attendere col fiato sospeso il peggio. Il peggio
restava sensibile e imminente a qualche decina di chilometri. Lontano e
vicinissimo il fronte incombeva: i bengala, i cannoneggiamenti, l’incessante
crepitio delle mitraglie, gli srapnels, gli incomprensibili silenzi, lo
stillicidio delle notizie, i reduci dell’ultimo turno … Senza poter scampare
ogni volta a uno sconvolgimento momentaneo dei visceri.
Il peggio era là tra il fango e la
roccia, dove suo fratello Pietro lasciava incompiuta l’ultima sua corsa al lume
della baionetta … Là dove, praticamente imberbe, sopraggiungeva, terzo della
famiglia e tardo irredentista, Valerio.
“Va’, imbecille. Così impari!”
aveva esclamato mentalmente Alfano immaginando una discussione impossibile. E
s’era chiuso nella pellegrina, rigido e cupo per il suo turno di guardia.
Il
freddo del primo autunno irrigidiva i piedi dentro le scarpe bullonate, d’un
cuoio sospetto.
Lui non si rallegrava, ma neppure sputava in faccia alla
propria sorte. Ascoltava il sordo tambureggiare della notte.
Al campo erano entrate in circolazione
voci che i tedeschi stavano facendo come i russi l’anno avanti. Ma adesso la notizia tornava comoda.
La notizia dell’armistizio giunse quasi
di colpo. Chi non se ne sarebbe rallegrato? Ma l’esultanza di Alfano s’era
subito rintuzzata, perché un dispaccio lo aveva informato che suo fratello
Valerio, si stava spegnendo per un’infezione di tifo petecchiale nell’ospedale
militare di Vicenza. E allora Alfano, in attesa della smobilitazione, aveva
chiesto e ottenuto licenza per andare a visitarlo.
Il treno era pieno di soldati. Alcuni
facevano capannello: parlavano del ritorno e degli eventi politici, altri
cantavano, altri ancora raccontavano storielle salaci, ridevano rumorosamente
incrociando battute nei dialetti più diversi. Altri, persi in un sonno duro, s’
abbandonavano agli scotimenti del treno come sacchi semivuoti. Lui aveva la
gola secca e si sforzava di non pensare.
Adesso invece ricordava e pensava,
sorreggendosi al parapetto del ponte di coperta del vecchio Partenope. E ogni
momento che viveva gliene rammentava un altro, per analogia, per discordanza,
per risveglio di un’impressione sensoriale perduta, di un’emozione sopita.
Un
pensiero ispessito - da adulto - che percorre e precorre tutte le direzioni del
tempo e può contenere tutti gli spazi concepibili. E poiché certi orrori la
vita glieli aveva risparmiati, si sentiva adulto, quale in effetti era, ma
integro, e perciò libero di sostenere il proprio sguardo interiore senza
provare raccapriccio, ma sapendo che l’eventuale incontro con l’orrore lo
riguardava comunque, in quanto uomo.
Eppure, ora che una concreta speranza e
un ragionato entusiasmo sembravano sostenerlo verso un nuovo inizio, ebbe un
sussulto di pessimismo. Come se ogni schiarita fosse niente più che il segnale
d’una imminente perturbazione d’imprecisabile entità. Che cosa attendersi? Da
se stesso? Dal caso? Dal mondo?
Dalla Russia e dalla Germania
continuavano a giungere notizie di grandi sommovimenti sociali che spingevano
verso cambiamenti inediti. Avvertiva che tutto ciò, in qualche modo mediato, lo
coinvolgeva. E, a giudicare dall’Italia, l’orizzonte s’approssimava ambiguo e
turbato.
Ripercorrendo nel ricordo il tunnel
delle interminabili notti trascorse al capezzale del fratello, a Vicenza,
rivide - quasi riaffiorasse dagli abissi del mare - l’inconfondibile palpito di
quegli occhi semivuoti nel riacchiappare al volo la vita. Così aveva capito che
Valerio sarebbe vissuto. E in quella, la vecchia rabbia rimastagli pietrificata
nel cuore per la morte del fratello Pietro (“inutile eroe” della presa
della Bainsizza) si era sciolta di colpo in un pianto irrefrenabile.
“Il peggio, benché non abbia un fine, ha
tuttavia una fine!”
si disse, e si ripensò nell’atto di sorreggere il corpo emaciato di un Valerio
redivivo mentre scendevano la scaletta d’uno sgangherato piroscafo che
riconduceva i reduci sardi dalla penisola al porto di Cagliari. Era quasi
Natale e l’odore dei corpi nella camerata strapiena assomigliava terribilmente
a quell’altro. Però si tornava a casa!
Erano trascorsi quasi tre anni, da
allora. Valerio non era più irredentista e neppure “ardito”. E con Alfano aveva
preso a ragionare su quelle poche oscure notizie dei sovieti e delle
rivoluzioni finite male. Partito Alfano, si sarebbe sentito un po’ perso.
Avrebbe sposato quella testolina vana di Zita, sorella di Cristoforo, avrebbe
lavorato in falegnameria e una sera su due sarebbe andato in casino a farsi una
prostituta, a ubriacarsi e a parlar male dei fascisti arroganti.
“Si caccerà nella bocca del lupo e le
buscherà”
rifletté Alfano, pensando al modo con cui montavano la rabbia e l’aggressività
fra le fazioni, anche in Sardegna. Ma il pensiero aveva un’aria fastidiosa e lo
cacciò. “È mai possibile che le vecchie bagnarole non siano mai poste in
disarmo?” si raccontò volubilmente affacciandosi sottocoperta. Questa volta
risalì precipitosamente sul ponte, quasi rallegrandosi della propria ventura e
acconciandosi a passare la notte col naso al vento, intanto che con l’alba
spuntasse il profilo del Vesuvio. Solo che il mare divenne grosso e il viaggio
si protrasse di due interminabili
giorni. Il bastimento cigolava e cigolava come una vecchia carrucola ai colpi
di maretta. L’umidità e il vento gelavano il corpo dentro i panni che
s’irrigidivano. Pertanto si era dovuto rassegnare alla camerata.
Etichette:
Prosa narrativa

Iscriviti a:
Post (Atom)