lunedì 29 maggio 2017

Dillo a un Sikh - inedita composizione in versi di Bianca Mannu








Dillo a un Sikh


 Dillo a un Sikh
quali sono i Nostri Valori -
dillo ai suoi conterranei
sparati come tralci avventizi
dal vento dell’urgenza
sui  campi dell’Agro
sulle piane di Partenope
sugli orti Cisalpini

Chiedigli se son leggere
le dieci ore più quattro -
quando la sorte vuole -
alla pioggia  al sole e a ogni tempo
dalle albe incolori
al sangue dei tramonti
con niente nella pancia
e la ganascia del doping
a stringere il cervello

Tu dici che canta
quando inginocchiato
strappa alla terra
tuberi e carote?
E quando conosce l’aspro
dell’uva e dell’oliva
chissà che musica coltiva?
Dico che il suo corpo canta
come una ferita tutto
e sogna sua interinale
assenza dalla vita

Assenza provvisoria - certo -
da una vita che - pur di sterco -
frequenta assidua la speranza
e questa conferisce all’esistenza
il tempo di  continuare in stand bay
e ammortizzare i guai da surmenage …
Quando la vita ha un solo lancio
anche il più sporco strame per giaciglio
se non è mano amica è almeno gancio
cui sospendere ciò che - o uomo d’opera –
solamente tuo rimane inesorabile:
il duro esito del giorno

Invece tu - uomo del capitale -
che prescindi dall’umano altrui
scomputi ciò che ti conviene:
la cosa-lavoro - quella che mercanteggi -
e che a te poco o niente parendo
per eccesso di mercantile offerta
la natura a dare frutti induce
E mentre attendi ti scotta il tempo:
incalzi al moto i suoi sfinteri
per  accrescere  il tuo utile in saccoccia
ma i rigori a saldo lasci altrui.

Del bracciante - il cui sudore
che a tuo favore provocato ti ripugna -
quasi nulla sai che non sia sua fame
e su quella mandi a schiacciare il piede -
non il tuo stiloso  e così ben calzato! –
ma quello chiodato d’un vile caporale.

Forse quel cristo  crocifisso
alla sua condizione di operaio 
 si sarà chiesto    
per un meriggio intero
 e per successivi mille
imbevuti all’osso di sgobbo
di strappi e contumelie                         
di qual delitto mai
e di qual vita obliata
voglia emendarlo il dio

Ma - come tutti gli dei -
neppure il suo risponde
Altrove guarda forse 
o altri suoi Valori raccomanda
oppure nel suo ombelico stesso
coglie la fuga d’ogni umano senso
Non c’è modo e non c’è verso
un Sikh da solo - come ogni uomo inerme -
si sente e campa
tra sottosuolo umano e fango
come poco più che un verme -
disprezzato.

Gridalo, Sikh, gridalo forte
insieme ai tuoi fratelli neri
incattiviti sui  campi del Salento
briachi di fatica
a smaltire gli ergastula diurni
dentro infernali tendopoli …
Gridatelo anche voi
operai tarantini intossicati
che morite a poco a poco
nei paradisi dei vostri letti
e tutti voi dispersi e soli
a sfangare la vita lottando
con un qualche marchingegno traditore
soffiatelo con la forza dei tornado
dentro le orecchie dei professori ISTAT
che
pure consunta ogni marcata essenza agglutinante
siete magari folla - sfilacciata e spersa -
d’umani  tristi e vivi come truppa inerme
a guerra persa.



sabato 20 maggio 2017

Giromondo poetico a Elmas

Curatori Roberto H. Concu e Angelica Piras per Equilibri

Inventare occasioni, chiamare a raccolta musici e poeti per "giullarate" in piazza, sono piccole, grandi sfide per un mondo senza pace.
Splende sotto brezza tesa il sorriso estivo del secondo sabato di maggio.
La piazza si distende troppo larga e disabitata intorno al capannello dei poeti
smarrito e un po' cancellato dall'ombra d'un grande albero. 
Spalle al sole ci si arrotonda intorno al cantautore e ci si sussurra reciprocamente una poesia
scritta da un Altro Poeta di un Altro Paese diverso dal nostro.
Da un bar vicino arrivano gli strappi di voce dei tifosi, 
dal cielo i rombi degli aerei di linea. 
Non ho preso nota né dei nomi né dei testi dei poeti scelti.
Ho letto a mia volta una poesia di un poeta grandissimo e poco noto, e per pochi minuti
l'aria ha preso il colore violaceo della neve sporca di tragedia.
Paul Celan 
ebreo ucraino di lingua tedesca simbolizza con la sua poesia 
l'esito inenarrabile di una guerra nella guerra contro popolazioni inermi e i suoi devastanti effetti
sull'animo e nella psiche del poeta stesso.  

Arricciati come a notte

Arricciati come a notte
 labbri dei fiori,
incrociati ed incastrati
i fusti d’abete,
ingrigito il muschio, smossa la pietra,
svegliati a interminabile volo
i corvi sopra il ghiacciaio:

questo è il paese dove ristanno
coloro che  sorprendemmo alle spalle:

essi all’ora non daranno un nome,
non conteranno i fiocchi
non seguiranno l’acque fino alla chiusa.-

Se ne stanno divisi nel mondo,
ognuno con la sua notte,
ognuno con la sua morte,
agri,la testa nuda, nella brina
di ciò ch’è remoto e vicino.

Essi pagano la colpa che animò l’origine,
la pagano ad una parola
che esiste a torto, quanto l’estate.

Una parola – tu sai:
un cadavere.

  Vogliamo lavarlo,
vogliamo pettinarlo,
vogliamo girare il suo occhio
verso il cielo.






lunedì 15 maggio 2017

su IL GIORNO DEL GIUDIZIO di Salvatore Satta

Conversazione intercorsa tra Maria Rosa Giannalia, animatrice del corso
 SCRITTORI e   SCRITTURE, 
Bianca Mannu, commentatrice e Dario Cosseddu, lettore 

Maria Rosa -1° domanda:
Nella scelta che abbiamo fatto di questo romanzo c’è un’idea di letteratura che desideriamo condividere, al di là degli schemi convenzionali che in questo momento la letteratura sarda sembra volere confermare? Quale modello di scrittura vogliamo che venga fuori da questa rassegna che nel suo sottotitolo parla di incontri con autori italiani e stranieri?

Bianca risponde
Il pericolo peggiore per gli scrittori sardi: inforcare la mitologia legata al folclore o a un immaginario indefinito con l’idea che si possa essere graditi al pubblico liberando il lettore dalla fatica di scoprirsi dentro un problema e di interrogarsi sulla propria consistenza umana e morale. Il vero scrittore è mosso dalla grande serietà del suo gioco e vi investe la propria cultura, mai contenta di sé, la propria esperienza di vita e la sua capacità di collegare tramite lo strumento linguistico, condensato in uno stile, tutta la ricchezza interiore, compreso il senso della vita, la sua filosofia, la sollecitudine e la responsabilità verso i propri simili.

Maria Rosa - 2° domanda( letture pagg. 11-12e 14-15 )
Entriamo nel merito: in questo romanzo Salvatore Satta ci presenta un grande affresco della società nuorese tra la fine dell’ottocento e la fine della prima guerra mondiale. Società che possiamo considerare come metafora di ogni società vista nella prospettiva del passato e perciò più facilmente analizzabile nelle sue caratteristiche.
Iniziamo dalla famiglia Sanna Carboni e dal modo col quale Don Sebastiano, il personaggio principale , e la sua famiglia vengono descritti e, in prospettiva, tutta Nuoro.

Bianca risponde
Bisogna dire subito che la narrazione è in terza persona e comincia da un interno. Ciò meraviglia un po’ perché il romanzo moderno rifiuta l’atteggiamento onnisciente dell’autore che occhieggia dalle fessure e legge l’animo dei personaggi. Salvatore Satta gioca per un po’ con questa finzione e solo gradualmente rende edotto il lettore del suo essere stato un testimone diretto e perfino intimo.
La casa di Don Sebastiano è un luogo simbolo della città, casa-studio del notaio, perciò monumentale e scomodissima.  Egli, spiega l’autore, è un signore e non un rustico, è persona di un’istituzione, un funzionario che conosce, registra gli atti inerenti le transazioni importanti di un aggregato umano e ne garantisce la legalità. Di nobiltà rurale pregressa, Don Sebastiano vive il sentimento della legalità; è dotato di probità personale e di spirito “democratico”. Concetto che, nel lessico di Satta, significa voler confermare il ruolo sociale raggiunto e curarne la crescita economica coi proventi del proprio lavoro da funzionario, conservando uno stile di vita personale e della famiglia severo, ma di rilievo per incutere rispetto ai corvi di quel nido, Nuoro”. In altre parole democrazia era la mobilità migliorativa economica, possibile e desiderabile per i signori.

Maria Rosa - 3°domanda ( letture  lettura pagg. 45-46 e 48-50 )
C’è in questo romanzo una figura femminile emblematica:  donna Vincenza , moglie di don Sebastiano.
Quale rapporto lega questi due coniugi così diversi ma tuttavia accomunati dall’appartenenza al luogo? A quella Nuoro in particolare?  Come viene tratteggiata questa figura femminile che è la prima che il lettore incontra ma non certo l’unica?
Bianca risponde
Malgrado la distinzione sociale e un’educazione attenta alle forme , Don Sebastiano ha in comune con i suoi concittadini una fondamentale disistima verso la componente femminile dell’umanità circostante. Le donne, a Nuoro, non hanno visibilità e voce. Dice S. Satta che non c’è niente che irriti di più il maschio nuorese beneducato quanto l’intelligenza femminile. E per sua sfortuna Donna Vincenza era intelligente ed era ispirata dalla sua felice infanzia con un padre piemontese a prendere parte alle questioni dell’economia familiare. Orfana e povera, conoscerà da sposata tutti i tentativi del marito (disinteresse, anaffettività, disistima, taccagneria, uso del suo corpo con frequenti gravidanze),di ridurla a una condizione larvale. E qui lo scrittore non si perita di analizzare i sentimenti reciproci dei coniugi, il loro franare e il loro collasso. Il disaccordo coniugale si profila come due culture che  collidono e che in forza dell’impronta patriarcale maggioritaria, quella non supportata deve cedere.

Maria Rosa - 4° domanda ( lettura pp.73-74 e 75-77)
Ma vediamo come don Sebastiano si rapporta alla terra, in particolare all’attività agricola e all’atteggiamento proprietario che nasce dal profondo legame con la terra. E’ questo il tema che ricorre in ogni autore sardo: il forte legame con la terra e la contrapposizione tra valori agricoli e valori pastorali. Come ci parla di questo, Salvatore Satta attraverso il suo personaggio?

Bianca risponde
 Il legame di Don Sebastiano con la terra è strumentale, come quello degli altri signori nuoresi. La gran parte di costoro vive delle rendite agricole che i mezzadri e braccianti seunesi  lavorano. Ma i mutamenti generali del mondo evoluto rendono precaria la rendita agricola. Don Sebastiano è consapevole.
Diverso da quello dei Séunesi, abitanti del rione contadino, per i quali la terra era fatica, ma sopravvivenza, dunque bene supremo; diverso ancora da quello da rapina dei pastori di San Pietro, luogo d’uso e abuso della terra in funzione degli armenti e del commercio dei sottoprodotti. Il possesso territoriale è l’emblema di una condizione sociale consolidata, quella nobiliare plurisecolare. Ma non è l’unico asse economico dell’uomo della seconda rivoluzione industriale, qual è Don Sebastiano Sanna benché appartato rispetto alle metropoli del cambiamento. Questi lavora pulito e guadagna, ma tesaurizza, investe anche in crediti. Il possesso di terre e la loro miglioria è una sorta di polizza sociale che si autofinanzia (vino), ma che Don Sebastiano persegue come sua sinecura e da imprenditore intelligente. Era timoroso che i figli  crescendo concepissero la rendita agricola  come il loro fondamento economico e rimanessero inattivi, sciupando la loro esistenza alla stregua degli sfaticati del caffè Tettamanzi. L’obiettivo di Don Sebastiano era di avviarli alle professioni liberali, ma non supponeva il formarsi nel loro animo di quella piega sensuale ed estetica che lo scrittore riconosce a se medesimo, e parzialmente ai fratelli in gioventù, e che chiama infezione poetica, un sentimento simile al legame pagano con la natura.

Maria Rosa -5° domanda  (lettura pp. 98-100)
L’altra grande protagonista di questo romanzo è Nuoro: il tema di questa città attraversa tutte le pagine e , come un filo rosso, lega tutti i personaggi, la storia e  la natura. Il topos principale che fa da perno a tutta la narrazione è il cimitero di Nuoro in cui l’autore si reca per condurre il lettore ad esplorare e quasi esumare la storia dei nuoresi. Come vengono trattati questo tema e questo topos? E in cosa possiamo considerarli fondamentali per questa opera di Satta?

Bianca risponde
Il ritratto fluido, per dir così, di Nuoro, percorre l’intero romanzo, assumendo via via come propri connotati costanti le motivazioni che muovono i comportamenti delle persone secondo i crismi del proprio gruppo sociale. Nuoro è trina: Sèuna contadina povera accosciata sulla terra intorno al foghile, San Pietro rampante e razziatore con case alte e grandi dove vige un ordinamento gerarchico primitivo e la Nuoro civile intorno alla via Majore, con le grandi case signorili, volte all’interno, dove vivono chiuse le donne forzate a un nubilato infinito.  Invidia, avidità e rozzezza sono equamente distribuite fra i ceti, perciò, malgrado l’usanza di “fare le parti” non corrono veri sentimenti di amicizia e solidarietà fra cittadini.
Il romanzo ha nella casa di Don Sebastiano il suo collo di bottiglia, luogo della sanzione economica e della memoria rurale, ma non ha un unico centro. Il centro istituzionale sono il tribunale,la prefettura, la Curia coi suoi fasti e nefasti, il municipio dove il sindaco era uno di fuori, davanti al quale i signori nuoresi stavano “col cappello in mano” e, convinti che la politica non li riguardasse, si lasciavano scippare l’amministrazione della città senza accorgersi di questo trapasso di poteri.   Un altro centro che riuniva gaudenti, nullafacenti e semifalliti della classe signorile era il caffè Tettamanzi, cosi come la Farmacia era punto di ritrovo dei signori più austeri. 
Lo scrittore, nel tentativo di coordinare i due spezzoni della sua esistenza cerca il cimitero, pensandolo come luogo dei segni della memoria, ma si rende conto che non sono le tombe coi nomi sbiaditi e obsoleti a suscitare il ricordo, piuttosto i vivi che sembrano duplicare i morti. Così non è questa o quella tomba a parlargli, ma il percorso funerario, lungo il quale riprendono vita preti, sacristi e campanari e tutta la carovana dei nuoresi animati da una sorta di piacere dionisiaco: il loro spirito pagano e irriverente è reso evidente dalle circostanze luttuose.

Maria Rosa - 6° domanda  (lettura pp.118-120)
Qualche cambiamento avviene però in questa Nuoro così immobile e sonnolenta: l’autore ci racconta la vicenda di don Ricciotti Bellisai e del nuovo direttore della scuola che, in certo modo, arriva fresco di nomina e scardina alcune usanze consolidate dalla tradizione. Che senso ha questo tentativo di cambiamento ?

Bianca risponde
I cambiamenti sono spesso inavvertiti, se non per piccoli segni su cui si fissa l’infastidita reazione dei nuoresi: essi vedono il dito e non la luna indicata. Cosi la campanella scolastica, già del convento, non suona più? Perché mai, come si avvertiranno gli alunni che è l’ora della lezione? Chi sarà mai quel prepotente che ha ordinato il silenzio? Vogliono protestare e non si sono resi conto che lo Stato Sabaudo è in conflitto con la Chiesa per via della requisizione dei beni ecclesiastici e per il fatto che lo stato Sabaudo ha portato allo stato laicale l’istruzione. Cosi in tanti aspetti della vita un atteggiamento laicale prendeva il posto dell’ingenua religiosità fatta di segni rassicuranti e un poco stregoneschi abituali.


Maria Rosa - 7° domanda (lettura pp.176-178)

Sembra quasi che Salvatore Satta non abbia voluto dare alla sua città neppure il beneficio di una possibile coscienza politica: la vicenda di Ricciotti Bellisai  e il suo tentativo di rivoluzione popolare in senso marxista fallisce miseramente. Raccontaci un po’ questo aspetto del romanzo che, per certi versi, è stato visto  come inquietante, forse anche alla luce del momento storico che l’Italia attraversava all’atto della pubblicazione postuma  del libro prima nel 1977 dalla CEDAM e poi ad opera della casa editrice Adelphi nel 1979.

Bianca risponde
Veramente l’ingresso in politica da parte di  Don Ricciotti Bellisai non aveva nulla di marxista. Così come si diceva marxista il modo degli studenti di fare lo sberleffo ai preti. Egli, invece, voleva strappare dalle mani di Don Sebastiano la casa di Loreneddu che colui aveva comprato all’asta dopo il fallimento del padre di Don Ricciotti. E che Don Sebastiano sosteneva di averla comprata dietro preghiera del padre di Don Ricciotti, affinché non andasse in mani straniere.
Per ottenere Loreneddu in modo inappellabile gli occorreva un potere che condizionasse quello di Don Sebastiano. Esso poteva venirgli dalla politica. Pensò di candidarsi come deputato del Regno. Ma, mancando degli agganci giusti e del titolo di avvocato che gli avrebbe fruttato la credibilità dei signori, si candidò come animatore e capo di un’associazione contadina di Sèuna, di vago sentore socialista, facendo leva sui bisogni inevasi di quei contadini che prese a sobillare, svegliando in essi speranze palingenetiche con l’oratoria, peraltro ad essi incomprensibile. Ma ciò che lasciò sconcertato Don Sebastiano, (e per altro verso donna Vincenza che vedeva l’inadeguatezza dei figli a operare con la furba facondia di Bellisai) fu, che i suoi figli e altri giovani studenti furono soggiogati dal fascino dell’oratoria di Bellisai e dunque parevano pronti ad abbracciare le rivendicazioni dei poveri:quasi un tradimento personale e sociale. E tuttavia l’impresa politica di Bellisai fallì, anche perché scoppiò la guerra.

Maria Rosa - 8° domanda (P. 207-208, da Anche a Europa)

Ad un certo punto del romanzo, Satta introduce il discorso sulla prima guerra mondiale in atto nella penisola, ma il suo sguardo è quasi esclusivamente per il modo in cui tale guerra viene vissuta a Nuoro, attraverso il punto di vista delle donne e anche della stessa donna Vincenza che affiora qua e là in tutta la narrazione.

Bianca risponde
Così come il trapasso dalla condizione di Regno Sardo Sabaudo a Regno d’Italia era avvenuto senza che i nuoresi se ne avvedessero: i sommovimenti politici prebellici non ebbero eco in città. Don Sebastiano, che leggeva il giornale, fu informato dell’eccidio di Serajevo e delle conseguenze belliche che sarebbero sopraggiunte per l’Italia. Avendo 64 anni, non si sentiva direttamente coinvolto. Due dei figli maggiori erano già professionalmente formati, (Gaetano da medico e Michele da ingegnere) ma, esclusi i due piccoli, erano tutti arruolabili. E fu allora che, mentre Don Sebastiano si abbandonava a un contenuto entusiasmo patriottico, Donna Vincenza, alzando la voce come non mai, gridava che l’Italia non era in condizioni di entrare in guerra, che la guerra sarebbe durata e avrebbe rubato i figli al suo affetto e alla sua protezione. Con la sua sensibilità femminile antivedeva ciò che Don Sebastiano non sapeva ricavare dalla lettura dei giornali. Le donne,secondo l’Autore
posseggono l’intelligenza del cuore. Il senso della guerra giunge a Nuoro solo con la comunicazione alla famiglia del caduto, ma donna Vincenza è sempre in angoscia. 

Maria Rosa - 9° domanda (lettura pp.257-258  che farà Bianca stessa )

In fondo al romanzo viene ripreso il tema del tempo nella fine triste e tragica del sogno di Gonaria, la maestrina. Questa fragile figura femminile sembra essere l’emblema della fine  e del nulla verso cui tende la vita di tutti noi. Gonaria aveva riposto tutte le sue speranze nella realizzazione della carriera ecclesiastica del fratello Ciriaco che però, quasi subito dopo l’ordinazione sacerdotale, muore annullando il senso del sacro e il senso dell’attesa di un futuro radioso che era sicura si sarebbe realizzato come meritato premio per la sua profonda fede religiosa.
Bianca risponde
Anche Gonaria (di famiglia bene decaduta, parente dei Sanna), maestra elementare per necessità economica e per vocazione religiosa, dato che non insegna che preghiere in una classe femminile, ed è molto simile ad un suora laica. Come tutte le donne di Nuoro, non conta niente, a meno che non trovi modo di sostenere e servire un uomo. Quest’uomo è Ciriaco, suo fratello prete che, non avendo canonica, sogna di e si adopera a farsi nominare Arciprete in curia. Gonaria sogna il sogno di Ciriaco.
Tutte le energie e le poche sostanze sono mobilitate in quel senso, anche il suo arcaico e ossessivo magismo religioso. Crede che il raggiungimento dell’obiettivo sia non solo una promozione sociale notevole, ma un innalzamento verso la sacralità, tale che Dio stesso non può non rispondere chinandosi con speciale benignità verso tanta dedizione. Invece Ciriaco si ammala e muore. Gonaria e le sorelle si sentono come tradite e reagiscono in modi diversamente folli. Gonaria pretende il funerale con l’intero capitolo e non l’ottiene … Possibile? Ma il suo dio immaginario è forse assente. Allora si convince  che si sia in qualche modo oggettualizzato nei paramenti, nelle suppellettili e nella camera stessa in cui Ciriaco è morto. A suo modo opera il sequestro del dio resistendo alle pretese delle sorelle rinsavite e smaniose  di percepire da un affittuario possibile un lauto canone. Gonaria tiene duro per 20 anni. Ma poi cede alle sorelle, apre la camera chiusa, trova topi ragni ragnatele e polvere. Sente che il dio è morto e fugge, pazza

Maria Rosa - 10° Domanda ( lettura dell’ultima pagina che farà Bianca stessa)

La fine del romanzo che si coagula intorno a quella che Salvatore Satta chiama  “seconda parte”  sembra essere la sua riflessione più profonda e disincantata sul tempo e sull’oblio, secondo lui obbligatorio e sulla mancanza di senso della vita che tende al “giorno del giudizio” privo di senso anche questo.  Ce ne vuoi parlare?

Bianca risponde
Come abbiamo capito la finta onniscienza iniziale dell’autore lascia il posto alle dichiarazioni esplicite: egli è il figlio minore dei coniugi Sanna, tornato a Nuoro per “mettere insieme i due spezzoni della sua vita”. Ma si accorge che gli spezzoni restano tali e lo abitano come due mondi non comunicanti. Il mondo rustico e primordiale della sua infanzia è consegnato a segni fisici illeggibili, noti solo a lui che li reca impressi  nella memoria a tal punto che solo a guardare i volti dei viventi ricostruisce le genealogie familiari che essi hanno dimenticato o ignorano. Allora, che senso ha l’aver richiamato in vita un mondo morto, se l’’obiettivo perseguito è stato mancato? La vita si spegne in tanto che procede, e del senso e dei sensi assunti nulla resta. E se tu, scrittore per vocazione, invece di  prepararti alla tua morte e di lasciare i già morti all’oblio, li racconti, li svegli, condanni te stesso a non poter morire. È il pungolo della conoscenza di voler svolgere fino in fondo ciò che il tuo filo di vita contiene. Per sanzionare da vivi la pace dei morti in noi,occorre svolgere tutta la matassa fino a un giudizio finale. 
Del resto è degli scrittori  per vocazione e non per professione, pronunciare il giudizio e non averne paura, dato che si è onestamente risposto al quesito della sfinge:
“Quale senso?” - “Nessuno: è stato.” 


mercoledì 3 maggio 2017

Doverosa correzione temporale a cura di B. Mannu

Sistema Bibliotecario Urbano
Comune di Quartu Sant’Elena – Quartu Sant’Aleni


SCRITTORI E SCRITTURE
Rassegna di incontri con i classici italiani e stranieri
Coordina la prof.ssa Maria Rosa Giannalia


PRIMO APPUNTAMENTO
Un grande autore da non dimenticare
SALVATORE SATTA

Saluti dellAssessore alla Cultura Maria Lucia Baire

Conversazione su:
IL GIORNO DEL GIUDIZIO
Con Bianca Mannu
Letture di Dario Cosseddu


Biblioteca Centrale – via Dante 66

12 maggio 2017

ore 18

Info: 070888064 bibliocentrale@comune.quartusantelena.ca.it

venerdì 21 aprile 2017

Una piccola dichiarazione "artistica" e politicamente umana di Bianca Mannu

Questo è il mio piccolo manifesto poetico-politico, che ,su un foglietto, da qualche anno, mi sta appeso difronte quando scrivo. Ciò che vi sta scritto e rappresentato si è agitato a lungo dentro di me. Ma come tutte le cose profonde e che si sono a lungo intessute con le anse cerebrali e le carni, ha impiegato tempo a configurarsi con l'apparente semplicità e immediatezza, quasi come una banalità.
B.M.  

giovedì 13 aprile 2017

Bianca ha letto e riletto IL GIORNO DEL GIUDIZIO di Salvatore Satta


 Un occhio, lì per lì anonimo, come una macchina invisibile del tempo, dei luoghi e dell’anima, che, oscillando tra dentro e fuori, tessa l’arazzo mobile di un piccolo agglomerato umano, a cominciare dalla geografia di un interno significativo, caput mundi (casa e studio notarile, con notaio e famiglia),  che rotoli  a tentoni verso un passato introvabile nel cimitero di croci smemorate, e da lì verso un presente, già storicamente morto, eppure obbligato da una regola invisibile a perpetuarsi sui tracciati fisici del discrimine sociale: la tronfia evidenza delle magioni patrizie che si fronteggiano sul Corso, i manufatti abitativi spontanei di Seùna, gli ampi fortilizi dei pastori a San Pietro, tutti a significare ordinamenti, proibizioni e induzioni, che solo i nativi  assumono come propria terribile pelle.
Il ricordare è attivare due logiche, quella tra il mito e l’oggettività dei fatti di cui si è stati testimoni, e quella interrogante, soggettiva, esterna e giudicante. Quest’incontro rende possibile la narrazione scritta, che estrae nodi logici e attribuisce evidenza a tratti comportamentali e motivazioni che muovono il mondo e le vite dalla soglia inferiore della parola.
Nuoro, la vera  protagonista del racconto, è divisa in tre parti come la Gallia di Cesare. Esse rispecchiano le tre categorie sociali che le abitano:   contadini, pastori e signori. Nuoro è Nuoro ed è mondo, “nido di corvi”, cioè patria di uomini che - malgrado l’ubbidienza all’uso di “fare le parti” con l’eccedenza di un bene, oppure fare «sa paradura» col dono di bestiame a chi, per disgrazia, ne rimane privo - “non hanno amici”, non conoscono la compassione per lo sfortunato o l’ impoverito. 
Si direbbe che quel mondo, di poco più di 7.000 anime, manchi di un minimo di coesione sociale; invece, paradossalmente, trova il suo collante nella pressione dell’interesse acquisitivo individuale verso beni materiali altrui, perché il raggiungimento, legale o meno, di quel possesso, suscitando intorno desiderio e invidia, incrementa la stima  sociale per il possessore o il pretendente vittorioso, indipendentemente dal valore effettivo dell’oggetto agognato. 
Un’avidità triste e perversa pervade  e avvelena le motivazioni degli individui di tutte le categorie sociali, come delle loro larvali associazioni, le quali si rivelano strumentali all’interesse immediato di un maggiorente o di un prepotente. L’avidità è il sintomo tragico che pervade la vita di tutti, trovando il suo compimento nella morte fisica, preceduta dallo sfacelo economico, personale e talora familiare, mentre sprofonda senza residui nella cimiteriale mancanza di memoria civile e storica.
Nuoro è sede vescovile. E si deve al trasferimento vescovile da Galtellì a Nuoro, la trasformazione del villaggio in capoluogo. Dunque le gerarchie religiose hanno una singolare importanza nella vita della città e sono viste come ascensore sociale da certi piccoli proprietari dei paesi circonvicini o famiglie di signori decaduti, ma i gradi superiori (vescovi e arcipreti ) sono ancor più un obiettivo di potere  che facilita il rientro nella legalità delle stirpi pastore asserragliate dentro le loro case alte, circondate da cortili ampi come tanche e difese da recinti e portoni.
Che ne è, in simile contesto, delle relazioni tra uomini e donne, su cui dovrebbe fondarsi la continuità culturale e storica del gruppo sociale?  Pressoché prive di reciproca empatia, quelle relazioni sembrano non avere esito diverso dalla procreazione e dalla rigida trasmissione  de “su connotu”, l’etos tradizionale sotto il segno della legge patriarcale più impermeabile, la quale si combina, presso i più  poveri, con la massima espropriazione di lavoro e l’assoluta subalternità femminile. Le donne, di stirpe plebea o patrizia, non hanno statuti di dignità sociale. Sono strumenti per altri fini, e come strumenti si percepiscono e soffrono senza capire la logica della loro condizione.
 Però, come talora accade anche nelle più rozze formazioni sociali, dai loro trascurati o marginali interstizi emerge il fermento d’una possibile resistenza (per esempio la resistenza recessiva di donna Vincenza); oppure sorge, mediante la carne e la mente di un singolare vivente, l’inquietudine analitica e dirimente che cerca in sé o attorno a sé un senso;  magari tenta di inventarselo.  Ma l’innegabile insensatezza della natura e dell’uomo, pur nel cambiamento dei moduli sociali e culturali per via di adattamenti legnosi a richiami d’oltremonte o d’oltremare, continuerà come tale, per incoercibile  costituzione dell’umano. Sebbene agiamo come se perseguissimo uno scopo, esso non è nell’obbligato traguardo del vivere (cioè la morte, il nulla), è nel tempo sospeso della durata della vita e nei modi, terragni o elevati, di spenderla, secondo quanto le qualità individuali e le circostanze consentono, stando alla concezione dello Scrittore.
Toccherà proprio a Sebastiano junior, allo Scrittore che cela dietro quel nome la condizione di figlio, appunto … È suo l’occhio anonimo, è sua la mente trasformata in macchina del tempo e dell’anima; tocca a lui ricomporre col ricordo la Nuoro del suo tempo fanciullo, l’antitesi di Atene, la ferita ombelicale dell’umano consorzio . E di tale esumazione fa il suo scopo e il suo premio, certo inutili secondo il nostro Autore, in quanto non mutano la natura e gli effetti dei fatti, ma forse gettano luce d’intelligenza sulle umane cose, mentre dura la vita di chi considera e riflette.        
Ultimo nato della numerosa prole del citato notaio - in virtù della sua naturale sensibilità e di un salvifico distacco culturale e morale, germinato sul crinale dell’incipiente conflitto sociale e culturale (sub specie di disaccordo coniugale) tra suo padre, Don Sebastiano,  e sua madre, Donna Vincenza. Un distacco maturatosi con gli studi giuridici, i contatti con altre costumanze e una eminente tensione etica e poetica. Con   tale supporto si fa  capace di ricomporre e in qualche modo ridare vita e umano congedo alla congerie nuorese pre e postbellica  del Primo Novecento.
Il predetto conflitto coniugale tra Don Sebastiano e la consorte  Donna Vincenza , il matrimonio imploso e la sostanziale incomunicabilità del fratello Ludovico con Celestina Mannu, così come la folle alienazione di Gonaria e di altre donne destinate alla perdita totale del perimetro personale,  non sono le eccezioni  a una regolazione tranquilla dei rapporti sociali e di genere, sono gli effetti devastanti della logica strutturale divisiva e gerarchica del Padre legislatore (il grande Altro, direbbe Lacan) che si impone come la forma naturale assoluta del mondo. Lo specchio dentato entro il quale la metà compressa ed espropriata del mondo si percepisce, cioè le donne, è una macchina deformante in cui il mandato patriarcale continua a infilarle e  manipolarle,  e che il motto di don Sebastiano verso sua moglie ben compendia: “Tu sei al mondo perché c’è posto”. La natura astratta del “posto” implica  il dissolvimento di ogni tensione e criterio autoctoni del femminile, riconducibili a istanze che il predominio patriarcale non sa e non vuole considerare .
 Nota
 Devo alla mia amica Maria Concetta Rosa Giannalia questa mia attuale rilettura del formidabile scrittore, giurista di professione, il quale negli ultimi anni della sua vita, mosso dall'insistenza dei suoi ricordi giovanili, ci ha regalato uno dei più bei romanzi italiani del Novecento.
La Prof. Giannalia ha recentemente inaugurato presso la Biblioteca Comunale di Quartu Sant'Elena un corso di animazione culturale volto alla promozione della lettura di opere di qualità e di stile.

giovedì 23 marzo 2017

Col solito giro di chiave - poesia inedita di Bianca Mannu

La condizione umana dei Nessuno che frequentano il Presente


Col solito giro di chiave

Il solito giro di chiave
parendo atto decisivo
di lungimirante prudenza
degrada a gesto di scongiuro
con rinnovo a scadenza




Pare - perciò non è garante
 di Sicurezza alcuna - un cane finto
accucciato sopra lo zerbino
dove il mio vizio si converte
 in gioco all’inganno 
del tempo  sulla sorte - ogni  sera -
prima di andare in braccio
alla mia piccola morte





Il  fermo dello scrocco
scatta a sanzione della  Solitudine
che circola da padrona
in ogni mio ambito -
che mi sfida sorniona
balzando dall’andito
fino alla mia poltrona -
che mi insegue persino
sull’avvallo del mio capo
sul cuscino del sogno
e il suo naufragio mattutino



La “nata per accogliere” - sciupata -
reclama con premura
nuova veste
nel caso  che - il cielo lo volesse! –
un agognato ospite
si degnasse - per le feste –
di essere quarto con me
con la mia Solitudine bisbetica
e il mio  Guardiano di stucco
sul grembo suo bacucco.

Noticina- Ringrazio i siti che  mi hanno offerto in prestito le loro graziose e insostituibili immagini.(B.M.)

domenica 12 marzo 2017

Forse fu Giove - tratta da Alluci scalzi - silloge poetica di Bianca Mannu

Breve considerazione. Quest'anno l'8 marzo si è svolto con una forte varietà di iniziative e con una specifica connotazione di lotta culturale-politica, con risvolti anche sindacali. E finalmente abbiamo avuto la sensazione che non fosse la stanca ripetizione di un rito. L'aspetto più immediato, e forse quello più direttamente connesso a una sensibilità diffusa, è quello contro il così detto femminicidio. Ma in qualche contesto si è percepita l'insistenza sulla spettacolarità dei fatti criminosi in ambito familiare, con una propensione al commento cronachistico suggerito dalle ricostruzioni televisive, e, ad opera della parola dei cosi detti esperti, abbiamo assistito a un'accentuazione dei connotati psichiatrici delle devianze caratteriali, tale che il legame con la quotidianità non criminale restava del tutto eclissata. In particolare veniva del tutto trascurato il nesso tra la natura ancora fortemente patriarcale e androgina del sistema storico-sociale esistente e i fatti aggressivi sulle figure femminili; e non si accennava minimamente all'importanza effettuale della trasmissione culturale e educativa, semiconsapevole o del tutto inconsapevole, dei modelli percettivi sui ruoli di genere, di cui le stesse donne, specialmente le madri, sono veicolo.

Nella cultura diffusa si continua a pensare, erroneamente, che l'elemento primario costitutivo del sociale sia l'individuo nel suo stato naturale di maschio o di femmina. Al contrario, è la forma sociale a decidere delle psicologie individuali e degli statuti che la società nel suo insieme conferisce loro. 

La composizione che segue, racconta metaforicamente come, tramite l'orientamento educativo specifico del soggetto femmina, si promuova anche la sua sussunzione - in posizione vicaria rispetto al legislatore maschio - sotto il ruolo di depositaria e guardiana dell'ordine stabilito. Detto altrimenti: io, femmina, sono testimone e custode della mia minorità.



Forse fu Giove


Forse fu Giove Compluvio -
con Eolo in combutta –
a spingermi
nell’alvo misterioso di Demetra -
giù giù - tra pietra e pietra

Certo fu lì che si disperse
l’ appetito studio per la frombola
a favore di quello per la "bambola"
Fu lì che una forma di telos -
ipogeica robusta e voluttuosa –
m’avvinse oscuramente
nell’arduo abc della creazione

Vi divento - tra presagio
di corpo ed agnizione -
docile grembo –
premuroso strumento -
per la specie e l’individuo -
e cane da branco persino -
se e quando occorre l’agio

E sono - già da sempre –presa
nell’enigmatico maneggio
che la natura intreccia
con le scaltre pretese
avanzate dai custodi di memoria
in nome e per conto della Storia

Eccomi dunque al compito
che mi pare persino un lieto gioco
che mi vede raccolta –
 in mano
l’ago il filo e qualche scampolo -
a fabbricarmi una Mariona
che m’assomigli un poco.