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giovedì 13 aprile 2017

Bianca ha letto e riletto IL GIORNO DEL GIUDIZIO di Salvatore Satta


 Un occhio, lì per lì anonimo, come una macchina invisibile del tempo, dei luoghi e dell’anima, che, oscillando tra dentro e fuori, tessa l’arazzo mobile di un piccolo agglomerato umano, a cominciare dalla geografia di un interno significativo, caput mundi (casa e studio notarile, con notaio e famiglia),  che rotoli  a tentoni verso un passato introvabile nel cimitero di croci smemorate, e da lì verso un presente, già storicamente morto, eppure obbligato da una regola invisibile a perpetuarsi sui tracciati fisici del discrimine sociale: la tronfia evidenza delle magioni patrizie che si fronteggiano sul Corso, i manufatti abitativi spontanei di Seùna, gli ampi fortilizi dei pastori a San Pietro, tutti a significare ordinamenti, proibizioni e induzioni, che solo i nativi  assumono come propria terribile pelle.
Il ricordare è attivare due logiche, quella tra il mito e l’oggettività dei fatti di cui si è stati testimoni, e quella interrogante, soggettiva, esterna e giudicante. Quest’incontro rende possibile la narrazione scritta, che estrae nodi logici e attribuisce evidenza a tratti comportamentali e motivazioni che muovono il mondo e le vite dalla soglia inferiore della parola.
Nuoro, la vera  protagonista del racconto, è divisa in tre parti come la Gallia di Cesare. Esse rispecchiano le tre categorie sociali che le abitano:   contadini, pastori e signori. Nuoro è Nuoro ed è mondo, “nido di corvi”, cioè patria di uomini che - malgrado l’ubbidienza all’uso di “fare le parti” con l’eccedenza di un bene, oppure fare «sa paradura» col dono di bestiame a chi, per disgrazia, ne rimane privo - “non hanno amici”, non conoscono la compassione per lo sfortunato o l’ impoverito. 
Si direbbe che quel mondo, di poco più di 7.000 anime, manchi di un minimo di coesione sociale; invece, paradossalmente, trova il suo collante nella pressione dell’interesse acquisitivo individuale verso beni materiali altrui, perché il raggiungimento, legale o meno, di quel possesso, suscitando intorno desiderio e invidia, incrementa la stima  sociale per il possessore o il pretendente vittorioso, indipendentemente dal valore effettivo dell’oggetto agognato. 
Un’avidità triste e perversa pervade  e avvelena le motivazioni degli individui di tutte le categorie sociali, come delle loro larvali associazioni, le quali si rivelano strumentali all’interesse immediato di un maggiorente o di un prepotente. L’avidità è il sintomo tragico che pervade la vita di tutti, trovando il suo compimento nella morte fisica, preceduta dallo sfacelo economico, personale e talora familiare, mentre sprofonda senza residui nella cimiteriale mancanza di memoria civile e storica.
Nuoro è sede vescovile. E si deve al trasferimento vescovile da Galtellì a Nuoro, la trasformazione del villaggio in capoluogo. Dunque le gerarchie religiose hanno una singolare importanza nella vita della città e sono viste come ascensore sociale da certi piccoli proprietari dei paesi circonvicini o famiglie di signori decaduti, ma i gradi superiori (vescovi e arcipreti ) sono ancor più un obiettivo di potere  che facilita il rientro nella legalità delle stirpi pastore asserragliate dentro le loro case alte, circondate da cortili ampi come tanche e difese da recinti e portoni.
Che ne è, in simile contesto, delle relazioni tra uomini e donne, su cui dovrebbe fondarsi la continuità culturale e storica del gruppo sociale?  Pressoché prive di reciproca empatia, quelle relazioni sembrano non avere esito diverso dalla procreazione e dalla rigida trasmissione  de “su connotu”, l’etos tradizionale sotto il segno della legge patriarcale più impermeabile, la quale si combina, presso i più  poveri, con la massima espropriazione di lavoro e l’assoluta subalternità femminile. Le donne, di stirpe plebea o patrizia, non hanno statuti di dignità sociale. Sono strumenti per altri fini, e come strumenti si percepiscono e soffrono senza capire la logica della loro condizione.
 Però, come talora accade anche nelle più rozze formazioni sociali, dai loro trascurati o marginali interstizi emerge il fermento d’una possibile resistenza (per esempio la resistenza recessiva di donna Vincenza); oppure sorge, mediante la carne e la mente di un singolare vivente, l’inquietudine analitica e dirimente che cerca in sé o attorno a sé un senso;  magari tenta di inventarselo.  Ma l’innegabile insensatezza della natura e dell’uomo, pur nel cambiamento dei moduli sociali e culturali per via di adattamenti legnosi a richiami d’oltremonte o d’oltremare, continuerà come tale, per incoercibile  costituzione dell’umano. Sebbene agiamo come se perseguissimo uno scopo, esso non è nell’obbligato traguardo del vivere (cioè la morte, il nulla), è nel tempo sospeso della durata della vita e nei modi, terragni o elevati, di spenderla, secondo quanto le qualità individuali e le circostanze consentono, stando alla concezione dello Scrittore.
Toccherà proprio a Sebastiano junior, allo Scrittore che cela dietro quel nome la condizione di figlio, appunto … È suo l’occhio anonimo, è sua la mente trasformata in macchina del tempo e dell’anima; tocca a lui ricomporre col ricordo la Nuoro del suo tempo fanciullo, l’antitesi di Atene, la ferita ombelicale dell’umano consorzio . E di tale esumazione fa il suo scopo e il suo premio, certo inutili secondo il nostro Autore, in quanto non mutano la natura e gli effetti dei fatti, ma forse gettano luce d’intelligenza sulle umane cose, mentre dura la vita di chi considera e riflette.        
Ultimo nato della numerosa prole del citato notaio - in virtù della sua naturale sensibilità e di un salvifico distacco culturale e morale, germinato sul crinale dell’incipiente conflitto sociale e culturale (sub specie di disaccordo coniugale) tra suo padre, Don Sebastiano,  e sua madre, Donna Vincenza. Un distacco maturatosi con gli studi giuridici, i contatti con altre costumanze e una eminente tensione etica e poetica. Con   tale supporto si fa  capace di ricomporre e in qualche modo ridare vita e umano congedo alla congerie nuorese pre e postbellica  del Primo Novecento.
Il predetto conflitto coniugale tra Don Sebastiano e la consorte  Donna Vincenza , il matrimonio imploso e la sostanziale incomunicabilità del fratello Ludovico con Celestina Mannu, così come la folle alienazione di Gonaria e di altre donne destinate alla perdita totale del perimetro personale,  non sono le eccezioni  a una regolazione tranquilla dei rapporti sociali e di genere, sono gli effetti devastanti della logica strutturale divisiva e gerarchica del Padre legislatore (il grande Altro, direbbe Lacan) che si impone come la forma naturale assoluta del mondo. Lo specchio dentato entro il quale la metà compressa ed espropriata del mondo si percepisce, cioè le donne, è una macchina deformante in cui il mandato patriarcale continua a infilarle e  manipolarle,  e che il motto di don Sebastiano verso sua moglie ben compendia: “Tu sei al mondo perché c’è posto”. La natura astratta del “posto” implica  il dissolvimento di ogni tensione e criterio autoctoni del femminile, riconducibili a istanze che il predominio patriarcale non sa e non vuole considerare .
 Nota
 Devo alla mia amica Maria Concetta Rosa Giannalia questa mia attuale rilettura del formidabile scrittore, giurista di professione, il quale negli ultimi anni della sua vita, mosso dall'insistenza dei suoi ricordi giovanili, ci ha regalato uno dei più bei romanzi italiani del Novecento.
La Prof. Giannalia ha recentemente inaugurato presso la Biblioteca Comunale di Quartu Sant'Elena un corso di animazione culturale volto alla promozione della lettura di opere di qualità e di stile.

domenica 20 settembre 2015

Dal romanzo DA NONNA ANNETTA di Bianca.Mannu



Dal capitolo AROMA DI COTOGNE
Io non so se fu allora o dopo, se era autunno o altra stagione … Se il tavolo parato con luminosa tovaglia e vino rosso in caraffa era il tavolo apparecchiato per quella volta oppure no. So che nella mia mente esiste, al momento, un raccordo preferenziale e fluido tra quanto appena descritto e una seconda rete di percezioni e immagini; ma come se tutto il movimento, invece di essere definito e discreto, fosse durato e continuasse a durare indefinitamente …
Colpita da un odore penetrante e repentino che aveva invaso la “lolla”, mi avvolgevo meglio nel drappo guardando dai buchi dei nodi che fissavano le roselline. Snif snif; fango di gora e feccia di vino. Snif snif, sigaro toscano e muffa. Snif snif, cacca di pecora e piscio di gatto … Dietro zia Dora, che emergeva dalla mescita forbendosi le mani sui lembi della pettorina e chiamando a gran voce la madre, sopraggiungeva lui, zio Ernesto. Caracollava nello spazio libero, improvvisamente angusto della “lolla”, come un cinghiale appena sbucato da una forra, volgeva attorno il suo muso scuro e irsuto di setole rosse grugnendo a gran voce: “Bona festa, gomai Annetta!” e, adocchiata libera la colonnetta portaoggetti, vi deponeva con inattesa delicatezza un piccolo cesto coperto di frasche. Poi si voltava e vedendo il mio corpo infagottato bofonchiava: “Gesus! Unu pippiu dromìu” e, quasi di scatto, senza aspettare risposta, con un rapido dietro-front si precipitava giù per i gradini appena guadagnati. Zia Dora gli andava dietro strillandogli di fermarsi, così che nonna Annetta, messa sull’avviso dal vocio, irrompeva da sinistra per la porta della cucina marciando sulle sue alte polacche, una cocca del grembiule sollevata su un fianco, pronta a bloccarlo. Dovendo inseguirlo, lo chiamava a mezza voce in modo imperioso.

Lui s’arrestava di là, oltre il banco della mescita tra la vociante compagnia dei bevitori, lei di qua, composta e severa davanti allo scaffale dei liquori. E già gli allungava sul banco il bicchierino dell’Anisette, colmo. Come magnetizzato, egli si voltava, si avvicinava al banco, curvava religiosamente l’ispido capo sul bicchierino, poggiava i palmi delle sue zampe ai lati del piccolo calice come un prete che officiasse e sorbiva socchiudendo gli occhi e facendo tremolare i baffi. Poi, come volesse pigliare tra pollice e indice le ali di una delicata farfalla, rapidamente afferrava e vuotava il bicchiere arrovesciando il capo all’indietro. Ne seguiva un “grazias” e un goffo inchino. Mia nonna riempiva ancora il calice. E intanto che lui ne sgargarozzava il contenuto facendo scintillare i suoi occhietti, lei gli allungava ben avvolta in carta di giornale una bottiglia di quello buono per  “gomai Delfina, chi de parti nostra s’arregallidi”.

NOTA Traduco nell'ordine le espressioni in idioma sardo-campidanese
Bona festa...= buona festa, comare Annetta
Gesus,unu pip....= Gesù, un bimbo che dorme! Go 
....chi de parti nostra s'arregallidi = per comare Delfina da parte nostra perché si prenda cura di sé. 






venerdì 18 settembre 2015

I RACCONTI DI BIANCA di Bianca Mannu- brano

Fiela

(La migliore medicina)


 Quando era apparsa sopra di me la faccia di Suora Santina, avevo sentito che potevo girare gli occhi da una parte all’altra, ma non muovevo lingua e bocca, e non muovevo mani ed ero solo occhi. Invece udivo: Fiela, Fiela, e ho visto la mano, mano che toccava la mia fronte, le mie labbra. E a un certo punto sentivo la fronte, le labbra, le guance, la lingua, che cominciano a muoversi e comincio a sentire qualcosa di tiepido, un qualcosa che mi piace, un sapore, un sapore che fa il giro della stanza dove sta la lingua e poi comincia a scendere e a toccare luoghi lontani che non sapevo e saliva anche verso il naso – questo lo so dove sta. Ecco c’era il naso che annusava ciò che veniva da dentro e quella cosa che annusavo saliva piano piano dentro la testa e si spargeva dappertutto … Ah, ah, oh, oh, come sull’altalena, quando ho imparato a salirvi senza paura. Mi stavo, mi stavo … “scongelando”!
Allora non avrei saputo come dirlo, ma dopo ogni volta, uscendo dal buio e dalla trappola, è stato come vedere e sentire il solletico che fa il ghiaccio che si scioglie. E’ stato bello. Mi piaceva essere Fiela e abitare tutto il mio spazio dentro: mi allungavo, mi allargavo, andavo verso l’alto con un po’ di fatica per provare il piacere di scendere in fondo e appiattirmi sul luogo dove stavo poggiata. Stavo su un letto. E Suora Santina spariva  e riappariva e poi altre facce, altre mani, altri odori. Per quel che ne so, credo di essere nata così. E da lì sono scesa per andare nel refettorio, nel cortile, nella cappella, dove Suor Maria e Suora Annunziata cantavano e ancora  cantano il rosario con una voce che faceva e fa addormentare. 


"Mediante l’ampio uso del monologo interiore e del flusso di coscienza, interiorizzata e fatta propria la lezione della narrativa novecentesca, da Svevo a Pirandello, a Joyce a Proust, i personaggi, e con loro l’autrice, procedono in una continua ricerca di trasformare in meglio il senso della propria vita."- Prefazione di Katia Deborah Melis

venerdì 29 maggio 2015

Migrazioni e immagini di guerra - Brano tratto da DA NONNA ANNETTA di Bianca Mannu

C'è, anzi c'era un padre che si raccontava alle figlie. Si raccontava di quando, non ancora padre, migrava in cerca di miglior fortuna nel lavoro. Si raccontava di aver rivissuto in un vecchio bastimento che lo conduceva nel continente la propria sempre viva esperienza di guerra e di angoscia.
Ecco perché la  Paloma Mirau , figlia di Alfano e mio alter ego, può raccontare, nel libro citato, in quale modo la guerra in corso, che lei inconsapevolmente viveva e archiviava come  rumori paurosi, potesse avere un corrispettivo più drammatico, ma posto in un rassicurante passato dalle parole del genitore.
Il libro, come fosse una scatola cinese, contiene una guerra dentro l'altra, e due condizioni postbelliche molto difficili anche per una bambina abbastanza protetta, quale certamente fu. 
Pubblico queste due pagine in memoria dei caduti, parenti e alieni, della Prima  Grande Guerra e della Seconda che mi vide nascere, anche per dissentire fortemente dalla melassa patriottarda che è tracimata dalle ultime commemorazioni.  

"La camerata di terza puzzava quasi come quella tradotta militare che arrivava dal fronte alle retrovie, quando lui era soldato. E così si ritrovò in quei paraggi, in un tempo che all’istante assumeva persino una maggiore concretezza del presente.
1916: chiamato alle armi allorché suo fratello maggiore, Pietro, compiva già un anno di permanenza sulla linea del fronte. Egli, invece, era stato destinato ad espletare il servizio -temporaneamente - come armaiolo nelle officine di riparazione dell’esercito, nelle retrovie. Naturalmente si era rallegrato. Però a ogni quindicina si aspettava di essere inviato a fare il proprio turno in trincea. Niente. Lo lasciavano a fare il soldato meccanico e ad attendere col fiato sospeso il peggio. Il peggio restava sensibile e imminente a qualche decina di chilometri. Lontano e vicinissimo il fronte incombeva: i bengala, i cannoneggiamenti, l’incessante crepitio delle mitraglie, gli srapnels, gli incomprensibili silenzi, lo stillicidio delle notizie, i reduci dell’ultimo turno … Senza poter scampare ogni volta a uno sconvolgimento momentaneo dei visceri.
Il peggio era là tra il fango e la roccia, dove suo fratello Pietro lasciava incompiuta l’ultima sua corsa al lume della baionetta … Là dove, praticamente imberbe, sopraggiungeva, terzo della famiglia e tardo irredentista, Valerio.
Va’, imbecille. Così impari!” aveva esclamato mentalmente Alfano immaginando una discussione impossibile. E s’era chiuso nella pellegrina, rigido e cupo per il suo turno di guardia. Il freddo del primo autunno irrigidiva i piedi dentro le scarpe bullonate, d’un cuoio sospetto. Lui non si rallegrava, ma neppure sputava in faccia alla propria sorte. Ascoltava il sordo tambureggiare della notte.
Al campo erano entrate in circolazione voci che i tedeschi stavano facendo come i russi l’anno avanti. Ma adesso tornava comodo. I Comandi pompavano per una grande offensiva. La guerra sembrava non voler finire mai. Non se ne poteva più!
La notizia dell’armistizio giunse quasi di colpo. Chi non se ne sarebbe rallegrato? Ma l’esultanza di Alfano s’era subito rintuzzata, perché un dispaccio lo aveva informato che suo fratello Valerio, si stava spegnendo per un’infezione di tifo petecchiale nell’ospedale militare di Vicenza. E allora Alfano, in attesa della smobilitazione, aveva chiesto e ottenuto licenza per andare a visitarlo.
Il treno era pieno di soldati. Alcuni facevano capannello: parlavano del ritorno e degli eventi politici, altri cantavano, altri ancora raccontavano storielle salaci, ridevano rumorosamente incrociando battute nei dialetti più diversi. Altri, persi in un sonno duro, s’ abbandonavano agli scotimenti del treno come sacchi semivuoti. Lui aveva la gola secca e si sforzava di non pensare.
Adesso invece ricordava e pensava, sorreggendosi al parapetto del ponte di coperta del vecchio Partenope. E ogni momento che viveva gliene rammentava un altro, per analogia, per discordanza, per risveglio di un’impressione sensoriale perduta, di un’emozione sopita. Un pensiero ispessito - da adulto - che percorre e precorre tutte le direzioni del tempo e può contenere tutti gli spazi concepibili. E poiché certi orrori la vita glieli aveva risparmiati, si sentiva adulto, quale in effetti era, ma integro, e perciò libero di sostenere il proprio sguardo interiore senza provare raccapriccio, ma sapendo che l’eventuale incontro con l’orrore lo riguardava comunque, in quanto uomo.
Eppure, ora che una concreta speranza e un ragionato entusiasmo sembravano sostenerlo verso un nuovo inizio, ebbe un sussulto di pessimismo. Come se ogni schiarita fosse niente più che il segnale d’una imminente perturbazione d’imprecisabile entità. Che cosa attendersi? Da se stesso? Dal caso? Dal mondo?
Dalla Russia e dalla Germania continuavano a giungere notizie di grandi sommovimenti sociali che spingevano verso cambiamenti inediti. Avvertiva che tutto ciò, in qualche modo mediato, lo coinvolgeva. E, a giudicare dall’Italia, l’orizzonte s’approssimava ambiguo e turbato.
Ripercorrendo nel ricordo il tunnel delle interminabili notti trascorse al capezzale del fratello, a Vicenza, rivide - quasi riaffiorasse dagli abissi del mare - l’inconfondibile palpito di quegli occhi semivuoti nel riacchiappare al volo la vita. Così aveva capito che Valerio sarebbe vissuto. E in quella, la vecchia rabbia rimastagli pietrificata nel cuore per la morte del fratello Pietro (“inutile eroe” della presa della Bainsizza) si era sciolta di colpo in un pianto irrefrenabile.
“Il peggio, benché non abbia un fine, ha tuttavia una fine!” si disse, e si ripensò nell’atto di sorreggere il corpo emaciato di un Valerio redivivo mentre scendevano la scaletta d’uno sgangherato piroscafo che riconduceva i reduci sardi dalla penisola al porto di Cagliari. Era quasi Natale e l’odore dei corpi nella camerata strapiena assomigliava terribilmente a quell’altro. Però si tornava a casa!
Erano trascorsi quasi tre anni, da allora. Valerio non era più irredentista e neppure “ardito”. E con Alfano aveva preso a ragionare su quelle poche oscure notizie dei sovieti e delle rivoluzioni finite male. Partito Alfano, si sarebbe sentito un po’ perso. Avrebbe sposato quella testolina vana di Zita, sorella di Cristoforo, avrebbe lavorato in falegnameria e una sera su due sarebbe andato in casino a farsi una prostituta, a ubriacarsi e a parlar male dei fascisti arroganti.
“Si caccerà nella bocca del lupo e le buscherà” rifletté Alfano, pensando al modo con cui montavano la rabbia e l’aggressività fra le fazioni, anche in Sardegna. Ma il pensiero aveva un’aria fastidiosa e lo cacciò. 
“È mai possibile che le vecchie bagnarole non siano mai poste in disarmo?” si raccontò volubilmente affacciandosi sottocoperta. Questa volta risalì precipitosamente sul ponte, quasi rallegrandosi della propria ventura e acconciandosi a passare la notte col naso al vento, intanto che con l’alba spuntasse il profilo del Vesuvio. Solo che il mare divenne grosso e il viaggio si  protrasse di due interminabili giorni. Il bastimento cigolava e cigolava come una vecchia carrucola ai colpi di maretta. L’umidità e il vento gelavano il corpo dentro i panni che s’irrigidivano. Pertanto si era dovuto rassegnare alla camerata."